La giunta militare che ha preso il potere in Niger dopo il colpo di stato della scorsa estate ha ordinato nel fine settimana agli Stati Uniti di evacuare il proprio contingente militare presente sul territorio del paese del Sahel africano. Che Washington si adegui alla richiesta nigerina è ovviamente tutt’altro che probabile, ma il precipitare dei rapporti bilaterali, rimasti relativamente cordiali anche dopo il golpe, rappresenta l’ennesimo segnale della rapida perdita di influenza americana – e del resto dell’Occidente – in una regione dell’Africa che ha assunto un’enorme importanza strategica almeno a partire dalla finta rivoluzione in Libia oltre un decennio fa.

L’evoluzione degli orientamenti di politica estera del Niger sotto la guida del “Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria” si inseriscono nel quadro degli eventi che hanno riguardato negli ultimi anni svariati paesi dell’Africa sub-sahariana, come Mali e Burkina Faso, caratterizzati appunto dall’intervento dei militari contro governi ultra-corrotti e compromessi con le potenze occidentali, prima fra tutte la Francia. Quello che appare a tutti gli effetti un tentativo di liquidazione dei rapporti di forza neocoloniali, sia pure con tutte le problematiche e distorsioni del caso, si accompagna spesso all’apertura verso la Russia e, recentemente, anche all’Iran per soddisfare le esigenze di sicurezza dei nuovi regimi.

L’implementazione del piano ideato da Stati Uniti e Canada per far fronte all’ennesima emergenza che sta vivendo Haiti continua a incontrare ostacoli, mentre le forze di sicurezza dell’isola caraibica stanno conducendo una serie di sanguinose operazioni contro le gang armate che controllano ampi settori del paese e, in particolare, della capitale Port-au-Prince. Le dimissioni forzate del primo ministro ad interim, Ariel Henry, avevano fatto intravedere all’inizio della settimana scorsa uno sblocco in tempi brevi della crisi, ma i disaccordi tra le forze indigene scelte da Washington e Ottawa per gestire un impopolare processo di “transizione” politica hanno rimesso tutto in discussione, inclusi i tempi del dispiegamento del nuovo contingente militare straniero con l’incarico ufficiale di stabilizzare una situazione ormai quasi fuori controllo.

Con una debordante vittoria elettorale di Vladimir Putin, si è conclusa la consultazione elettorale russa. Le operazioni di voto sono durate tre giorni, necessari per coprire il Paese più grande del mondo: un territorio immenso di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari diversi e 112 milioni di elettori su 146 milioni di abitanti. Il dato che balza immediatamente all’attenzione è quello relativo alla partecipazione: un record storico, con il 77% degli elettori che ha votato, mentre in Occidente, mediamente, non si arriva al 50%. Dopo l’annunciato crollo dell’economia e la certa sconfitta militare in Ucraina, l’elenco dei desideri frustrati dell’Occidente si allarga.

La partecipazione al voto era infatti uno dei test che il mainstream atlantista e russofobo assegnava alla credibilità ed affidabilità del processo elettorale e la sua percentuale ha dimostrato come i russi non siano affatto intimiditi dalle campagne mediatiche occidentali, che nell’intento di scoraggiare la partecipazione avevano annunciato possibili attentati, disordini ai seggi, proteste eclatanti contro Putin. Il fallimento delle ipotizzate proteste ha dimostrato anche come l’apparato spionistico occidentale abbia le unghie spuntate, che viva una crisi nella sua campagna di reclutamento.

L'Argentina è un Paese che ha sempre occupato un posto di rilievo nella storiografia sull'America Latina. È uno Stato con processi di enorme importanza per comprendere il modo in cui il capitalismo si è sviluppato nella regione. Attualmente è al centro dell'attenzione mondiale, perché per la prima volta nella storia è salito alla presidenza un politico libertario anticapitalista, che ha iniziato a imporre le misure che ritiene necessarie per cambiare il corso del Paese e avviarlo verso l'utopia del regno della "libertà" economica. Gli effetti di tale percorso stanno esplodendo di settimana in settimana, tanto che il presidente Javier Milei sta giocando al paradiso dell'impresa privata - perché questo è il contesto storico - a spese della società nel suo complesso.

L’eco delle dichiarazioni di un paio di settimane fa del presidente francese Macron sul possibile invio di truppe NATO in Ucraina non si è ancora dissolta e si intreccia alle discussioni in corso in Occidente sulle decisioni da prendere di fronte all’avanzata delle forze russe. Molti commentatori hanno ricondotto le parole dell’inquilino dell’Eliseo alla disperazione strisciante tra i gli sponsor del regime di Zelensky per il possibile imminente tracollo dell’intero progetto ucraino. In effetti, la recentissima pubblicazione su una rivista francese di tre analisi condotte dall’intelligence militare transalpina sulla situazione in Ucraina devono avere messo ulteriormente in crisi Macron, tanto da spingerlo a dare una scossa agli alleati europei, alcuni dei quali sempre più incerti sull’opportunità di continuare ad alimentare una guerra impossibile da vincere.


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