Secondo svariate fonti ufficiali delle parti coinvolte nelle trattative in corso, una tregua “totale” sarebbe stata raggiunta tra Hamas e il regime di Netanyahu per fermare il genocidio palestinese in corso da oltre quindici mesi a Gaza. A dare l’impulso decisivo sembra essere stato l’intervento dell’amministrazione americana entrante di Donald Trump, ma, se il cessate il fuoco dovesse alla fine andare realmente in porto, determinanti potrebbero risultare sia le sempre più complicate condizioni sul campo per le forze di occupazione israeliane sia i cambiamenti politici e degli equilibri strategici avvenuti in Medio Oriente nelle ultime settimane. L’accordo deve comunque ancora essere approvato in forma ufficiale dal gabinetto israeliano, all’interno del quale restano forti resistenze, dopo che verranno definiti gli ultimi dettagli del documento in discussione.

La tregua dovrebbe entrare in vigore domenica prossima e prevede tre fasi distinte. La prima, della durata prevista di sei settimane, prevede un limitato scambio di prigionieri, un parziale ritiro delle truppe israeliane dai centri abitati di Gaza e un afflusso massiccio di aiuti umanitari nella striscia, con un massimo di 600 camion al giorno. Israele consentirà ai civili di tornare nelle loro case nel nord di Gaza, dove la crisi umanitaria ha raggiunto livelli critici, e aprirà il valico di Rafah con l’Egitto dopo una settimana dall’inizio della tregua.

Il tentativo di sabotaggio da parte ucraina del gasdotto TurkStream in territorio russo nel fine settimana ha risvegliato per un momento la commissione europea dal sonno che sta trascinando il vecchio continente in una crisi politica, economica ed energetica irreversibile. Secondo le autorità militari di Mosca, le forze armate ucraine hanno cercato di colpire con nove droni l’infrastruttura strategicamente cruciale che trasporta il gas naturale russo verso la Turchia e, da qui, ad alcuni paesi europei, in particolare quelli balcanici e del fronte orientale dell’UE. L’operazione è alla fine fallita, ma riporta al centro dell’attenzione soprattutto europea l’intreccio letale tra la disperazione del regime di Zelensky e l’utilizzo di quest’ultimo da parte degli Stati Uniti per avanzare i propri interessi strategici, anche a spese degli alleati.

Sono tornate in queste ore a circolare in maniera insistente le voci di un possibile imminente accordo per un cessate il fuoco a Gaza. La partenza per Doha del numero uno del Mossad, David Barnea, ha rafforzato le speranze di molti per la fine del genocidio palestinese in tempi brevi. Nella capitale del Qatar è presente anche l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, mentre l’amministrazione democratica americana uscente è tornata a chiedere pubblicamente al regime di Netanyahu di favorire l’implementazione di una tregua. È possibile quindi che si stia preparando una sospensione della strage nella striscia in concomitanza con l’insediamento del nuovo presidente repubblicano, ma tutti i segnali indicano che lo stop all’aggressione potrebbe essere solo temporanea, se non addirittura una trappola per Hamas.

Sbruffoneggiavano su insurrezioni popolari e militari venezuelane, ma sono riusciti solo a organizzare comizi deserti. La figuraccia a cui si sono esposti gli Stati Uniti e l'UE appoggiando le ridicole performance di González Urrutia e Corinna Machado evidenzia l’incapacità della Casa Bianca di leggere il contesto latinoamericano. Alla fine, hanno dovuto assistere impotenti alla mobilitazione popolare in difesa del processo politico e istituzionale del Venezuela. La presenza del Presidente del Nicaragua, Comandante Daniel Ortega, e del Presidente di Cuba, Miguel Díaz-Canel, trasudava sovranità e fratellanza, e l’immagine dei presidenti socialisti del continente ha inviato messaggi chiari e incisivi. In quella cornice, nel cuore di Caracas, si è ricordato a amici e nemici che l’unità latinoamericana si costruisce su contenuti e sentimenti, su posizionamenti tattici e strategici, sulla volontà di resistere e vincere, sulla pratica della difesa di un modello socialista di democrazia popolare e sull’abitudine a partecipare uniti alle sfide internazionali.

Il discredito dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania, un territorio che controlla di fatto per Israele, sta toccando il punto più basso da circa un mese a questa parte dopo l’inizio di una campagna di polizia diretta non contro il regime di occupazione o lo strapotere dei coloni, ma contro la resistenza palestinese che minaccia il suo declinante potere. Al centro della repressione delle forze di sicurezza dell’AP c’è il campo profughi di Jenin e i militanti dell’omonimo Battaglione, molti dei quali appartenenti a formazioni rivali dell’Autorità, come Hamas e Jihad Islamica. Questo atteggiamento riflette una strategia ben precisa dell’organo guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), da ricondurre ai legami che intrattiene con Washington e Tel Aviv, ma rischia proprio per questo di trasformarsi in un boomerang, vista la rapida perdita dei consensi residui che esso determina tra la popolazione palestinese.


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