La conferenza di giovedì a Roma sulla ricostruzione dell’Ucraina è a tutti gli effetti l’ennesimo tentativo degli alleati del regime di Zelensky di auto-illudersi di potere influire in qualche modo sulle sorti della guerra in corso dal febbraio 2022. Viste le premesse, dichiarazioni e avvertimenti lanciati durante il vertice appartengono a una realtà parallela, plasmata dal terrore dell’ex comico televisivo ucraino per la sorte personale che lo attende e dalle velleità dei leader europei di evitare una sconfitta epocale nella “guerra per procura” di cui essi stessi, assieme alla precedente amministrazione americana, sono interamente responsabili. In teoria, ciò che conta nel concreto viene deciso sull’asse Mosca-Washington, ma anche in questo caso la fermezza e la coerenza del Cremlino continuano a scontrarsi con la volubilità, il narcisismo e l’indecisione dell’inquilino della Casa Bianca.

Per la prima volta dal ritorno al potere nell’agosto del 2021, il regime dei Talebani in Afghanistan ha ottenuto qualche giorno fa il riconoscimento ufficiale della propria legittimità da parte di un paese, anzi di una potenza globale come la Russia. La decisione di Mosca era nell’aria da qualche tempo e rappresenta non solo una presa d’atto della realtà oggettiva di chi governa a Kabul, ma anche una scelta diplomatica e strategica attentamente studiata. Secondo il Cremlino è ormai più utile e proficuo coinvolgere e responsabilizzare il governo talebano piuttosto che tenerlo ai margini della comunità internazionale o, tutt’al più, limitarsi a intrattenere con esso relazioni informali, come continuano a fare molti paesi anche occidentali.

La resistenza palestinese a Gaza continua a portare a termine operazioni complesse e altamente efficaci contro le forze sioniste di occupazione nonostante una situazione a dir poco catastrofica e l’avanzamento a passo spedito dei piani di pulizia etnica di Trump e Netanyahu. La visita di lunedì a Washington del primo ministro/criminale di guerra israeliano ha assunto, visti gli scenari complessivi, connotati grotteschi, sia pure ribadendo il sostanziale allineamento di USA e Israele sulla questione del genocidio palestinese. I segnali che arrivano dalla diplomazia, intanto, restano contraddittori. Per Hamas non ci sono ancora sviluppi positivi, vista l’assenza quasi totale di elasticità dei negoziatori di Tel Aviv, mentre dalla Casa Bianca e da fonti israeliane si insiste nel sostenere che l’accordo per un cessate il fuoco potrebbe essere a portata di mano.

Il governo libanese sta camminando letteralmente su un campo minato nel tentativo di conciliare le richieste americane – e israeliane – di disarmare Hezbollah con le esigenze di stabilità interna che non possono prescindere dalle legittime garanzie rivendicate dal partito/milizia sciita. Lunedì, l’inviato della Casa Bianca, Tom Barrack, è arrivato a Beirut per ascoltare la risposta delle tre più alte cariche del paese dei cedri alla “proposta” da lui stesso recapitata il 19 giugno scorso, nella quale chiedeva l’implementazione del principio che solo lo stato deve detenere il monopolio della forza e delle armi.

Il Congresso statunitense ha approvato in extremis il mega-progetto di legge promosso dal presidente Trump, che prevede tagli fiscali pagati con la sicurezza sociale degli statunitensi. Approvata con 218 voti favorevoli e 214 contrari, la legge aumenta enormemente la spesa pubblica per permettere il più grande banchetto della storia alle grandi aziende sistemiche. Per Trump rappresenta una vittoria importante ma fragile: dato l’ampio margine della sua maggioranza, si registra quantomeno una frattura all’interno dei repubblicani.

Il cuore del pacchetto è costituito da 4.500 miliardi di dollari in tagli fiscali per i più ricchi, già approvati nel 2017 durante il primo mandato di Trump. È inoltre prevista un’enorme spesa, pari a circa 350 miliardi di dollari, per la sicurezza nazionale, il programma di deportazione di Trump, e per contribuire allo sviluppo del sistema difensivo statunitense “Golden Dome”.


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