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Categoria: Esteri

In parallelo al massacro nella striscia di Gaza, Israele continua a mandare segnali di un possibile allargamento delle operazioni militari al fonte settentrionale, dove uno scontro a intensità relativamente bassa con il partito/milizia sciita libanese Hezbollah è peraltro già in atto dall’ottobre scorso. Il regime di Netanyahu si ritrova a fare i conti con un dilemma complicato in relazione al Libano, con le esigenze di sicurezza e deterrenza impossibili da soddisfare senza chiudere i conti una volta per tutte con il “Partito di Dio”, ma allo stesso tempo col timore di andare incontro, in caso di guerra aperta, a una disfatta che rischia di minare irreparabilmente l’intero progetto sionista.

 

Come per l’aggressione israeliana nella striscia, anche la questione libanese e le macchinazioni di Israele su questo fronte restano avvolte dalla fittissima nebbia della propaganda. Le dichiarazioni bellicose dei vari esponenti del gabinetto Netahyanu nei giorni scorsi sull’inevitabilità di una guerra contro Hezbollah vanno perciò approcciate con cautela. Viste da un altro punto di vista, le parole pronunciate ad esempio dal ministro degli Esteri, Yisrael Katz, durante il faccia a faccia di lunedì col suo omologo francese lasciano intendere che a Tel Aviv ci sia maggiore appetito per una soluzione pacifica piuttosto che per uno scontro armato a tutto campo.

Katz ha avvertito che “il tempo sta scadendo per una soluzione diplomatica in Libano” e che Israele è pronto a intraprendere la strada della guerra, se necessario. Dopo l’operazione di Hamas del 7 ottobre scorso, Hezbollah è entrato in azione in appoggio alla Resistenza palestinese, portando a termine centinaia di incursioni contro le postazioni israeliane. Almeno 80 mila residenti israeliani nelle zone di confine con il Libano sono stati inoltre evacuati verso sud per non incorrere nei bombardamenti di Hezbollah.

Quest’ultima è una questione particolarmente scottante per Netanyahu. Il governo aveva promesso una soluzione e la possibilità di tornare alle loro abitazioni entro fine gennaio, ma gli scenari lungo la frontiera non sono cambiati per il meglio. Israele insiste nel volere costringere le milizie di Hezbollah a ritirarsi al di là del fiume Litani, circa 30 chilometri dall’attuale linea di demarcazione di fatto col Libano, fissata dopo il ritiro dei militari sionisti da questo paese nel 2000. A stabilirlo sarebbe anche la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Israele, però, dovrebbe al contempo restituire i territori libanesi che continua a occupare e mettere fine alle continue violazioni della sovranità del vicino settentrionale.

Partendo dall’intesa del 2022 con Beirut sulla definizione del confine marittimo, Tel Aviv punta a trovare un accordo simile per la questione molto più complicata del confine terrestre, come in quell’occasione con la “mediazione” degli Stati Uniti. L’inviato speciale dell’amministrazione Biden, il diplomatico Amos Hochstein, ha proposto un piano in tre fasi per evitare la guerra, che prevede lo stop al lancio dei missili di Hezbollah, l’arretramento di dieci chilometri dal confine delle sue milizie, il posizionamento in quest’area dell’esercito regolare libanese e degli uomini della missione ONU in Libano (UNIFIL), il ritorno dei residenti israeliani nelle loro abitazioni e l’apertura di un negoziato tra Beirut e Tel Aviv su una linea di confine permanente.

La proposta sul tavolo ha però pochissime possibilità di essere accettata da Hezbollah, poiché implica una netta disparità di trattamento tra le due parti, con Israele in sostanza libero da qualsiasi concessione di rilievo. La questione centrale è ovviamente la fine del genocidio a Gaza. Il numero due di Hezbollah, Naim Qassem, in relazione alle possibili trattative con Tel Aviv ha riassunto così la situazione: “Il partito [Hezbollah] non è interessato al momento a nessuna discussione relativa alle richieste di Israele sul fronte meridionale… La nostra posizione è chiara, la fine della guerra a Gaza chiuderebbe automaticamente il fronte libanese”.

Israele vorrebbe chiaramente neutralizzare la minaccia di Hezbollah senza rischiare un confronto militare e tenendo aperto il file Hamas a Gaza. I motivi per temere il “Partito di Dio” sono ben fondati per Netanyahu e le forze armate sioniste. Hezbollah ha oggi un potenziale decisamente maggiore rispetto al 2006, anno in cui la guerra con Israele si concluse con un’umiliazione di fatto per lo stato ebraico. Sul potenziale bellico di Hezbollah non esistono informazioni certe, ma alcune stime gli attribuiscono un arsenale di 150 mila missili, molti dei quali a lungo raggio e quindi in grado di colpire le regioni centrali e meridionali di Israele. I suoi uomini sono inoltre molto ben addestrati, anche grazie all’esperienza sul fronte siriano, per non parlare dell’unità di élite “Radwan”, in grado di penetrare le linee del nemico.

Il problema per Israele è anche l’impiego di un numero molto elevato di forze a Gaza, che limita la concentrazione di uomini lungo il fronte settentrionale, anche se nelle ultime settimane è iniziato un graduale ritiro dal nord della striscia, secondo alcuni osservatori proprio in previsione di un conflitto aperto con Hezbollah.

Il piano di Israele per il Libano si potrebbe in ogni caso fondare sulla speranza di coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra totale con Hezbollah, nonostante sia tutt’altro che scontato che il contributo di Washington consenta a Netanyahu di liquidare la minaccia sciita. Al di là dei contrasti con l’amministrazione Biden e dell’ostentazione di prudenza del presidente americano, il primo ministro israeliano sa perfettamente che una sconfitta di Hezbollah risponderebbe allo stesso obiettivo strategico degli Stati Uniti, vale a dire l’indebolimento della posizione dell’Iran in Medio Oriente.

Hezbollah è l’elemento non statale più formidabile dell’asse della Resistenza anti-americana e anti-israeliana e un suo drastico ridimensionamento comporterebbe la rimozione di uno degli ostacoli principali al controllo di Washington e Tel Aviv della regione. In definitiva, l’aggressione a Gaza ha innescato un confronto aperto con la Resistenza, che gli Stati Uniti sostengono di volere contenere, malgrado il rovescio militare di quest’ultima darebbe benefici enormi alla posizione strategica americana.

Da ciò deriva probabilmente l’ambiguità del comportamento degli USA nella crisi in corso. Il genocidio a Gaza ha da un lato avvicinato la resa dei conti definitiva con i nemici di Stati Uniti e Israele, ma, dall’altro, l’ingresso a tutti gli effetti di Washington nel conflitto rischia di fare esplodere una conflagrazione da cui la posizione americana e dello stato ebraico potrebbe uscire pesantemente ridimensionata, a tutto beneficio di Russia, Cina e Iran.

Il fronte libanese è in questo senso il più delicato e forse decisivo, perché avvicinerebbe pericolosamente uno scontro diretto con la Repubblica Islamica. L’amministrazione Biden sembra per il momento oscillare senza un progetto chiaro, assicurando di non volere un’escalation mentre continua invece a bombardare obiettivi della Resistenza in Siria, Iraq e Yemen. Qualche giorno fa, infine, il consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, durante un’intervista alla NBC si è rifiutato di escludere eventuali attacchi militari contro obiettivi in territorio iraniano.