Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

Il verdetto emesso martedì all’unanimità da una corte d’appello federale americana contro Donald Trump tiene in vita il procedimento legale più serio che grava sull’ex presidente repubblicano a pochi mesi dalle elezioni per la Casa Bianca. Il caso riguarda la presunta immunità che i legali di Trump avevano invocato in relazione alle sue responsabilità nel tentativo di ribaltare l’esito del voto del 2020, culminato nell’assalto all’edificio del Congresso del 6 gennaio 2021.

Per i tre giudici del tribunale di appello del circuito del District of Columbia, un ex presidente può essere incriminato per reati di natura penale commessi durante il suo incarico, inclusi quelli presumibilmente legati all’esercizio delle sue funzioni, anche se per questi fosse già stato giudicato e assolto dal Congresso tramite una procedura di “impeachment”. Trump non ha quindi diritto ad alcuna immunità, come aveva già stabilito un tribunale distrettuale nel grado di giudizio precedente.

 

Il processo a suo carico potrà così aprirsi più o meno nei tempi già stabiliti (inizio marzo), salvo un intervento della Corte Suprema a favore dell’ex presidente. La sentenza è stata infatti sospesa fino a lunedì prossimo per consentire ai legali di Trump di fare ricorso al più alto tribunale americano. La Corte Suprema è dominata da giudici di estrema destra, tre dei quali nominati dallo stesso Trump. Tuttavia, la sua candidatura alla Casa Bianca risulta estremamente controversa e divide anche la classe dirigente americana, così che l’esito dell’ultimo appello di Trump rimane al momento molto incerto.

Nelle 57 pagine della sentenza, i tre giudici federali hanno meticolosamente smontato la tesi della difesa. Da un lato hanno evidenziato la gravità delle accuse, derivanti dall’indagine del procuratore speciale Jack Smith, mentre dall’altro hanno insistito sul principio costituzionale della separazione dei poteri, che verrebbe di fatto smantellato se il presidente fosse messo al di sopra della giustizia.

Anche un ulteriore elemento della strategia dei legali di Trump è stato demolito dalla corte d’appello. Come accennato in precedenza, i suoi avvocati avevano sostenuto che un presidente, una volta lasciata la Casa Bianca, non può essere processato per reati commessi nel corso del mandato se è già passato attraverso un “impeachment”. I giudici hanno fatto notare una palese contraddizione in questa strategia, poiché nel procedimento al Congresso del 2021 per i fatti del Campidoglio Trump aveva sostenuto che il luogo adatto per indagini, incriminazione ed eventuale condanna era la giustizia federale. 30 dei 43 senatori repubblicani che avevano votato per il proscioglimento di Trump avevano affermato che quest’ultimo, in quanto ormai ex presidente, avrebbe dovuto essere giudicato in un aula di tribunale e non dal Congresso.

La difesa dei principi democratici alla base del verdetto contro Trump lascia comunque aperta una breccia tutt’altro che trascurabile e che era a un certo punto emersa durante una delle udienze davanti alla corte d’appello lo scorso gennaio. Uno dei giudici aveva discusso con uno dei legali di Trump sull’ipotesi che il presidente avrebbe potuto godere dell’immunità anche nel caso avesse ordinato alle forze speciali di assassinare un proprio rivale politico.

L’avvocato della difesa aveva in sostanza confermato che, secondo la sua tesi, anche per questa eventualità il luogo per giudicare il presidente non era un’aula di tribunale ma il Congresso per mezzo di una procedura di “impeachment”. In risposta, il giudice aveva espresso tutto il proprio sconcerto, ma va ricordato che esiste un precedente durante l’amministrazione Obama che rende la questione già in parte superata.

Nel 2011, l’allora presidente democratico aveva autorizzato unilateralmente l’assassinio mirato di un cittadino americano, il predicatore di origine yemenita Anwar al-Awlaki, ritenuto membro di un organizzazione affiliata ad al-Qaeda nel paese della penisola arabica. Il ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, era in seguito apparso a un’udienza al Congresso discutendo del caso e aveva proposto una nuova sconvolgente teoria giudiziaria per giustificare il potere auto-attribuitosi dal presidente di eliminare fisicamente un cittadino americano.

Holder aveva sostenuto che il diritto al “giusto processo” era nel caso di Awlaki soddisfatto dalla sola valutazione fatta – segretamente – dall’esecutivo dei presunti reati commessi e del rischio rappresentato per gli Stati Uniti. Con una semplice decisione del presidente, tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione potevano cioè essere cancellati, liquidando come accessori superflui i procedimenti giudiziari alla base della democrazia liberale e del principio della divisione dei poteri.