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La sconfitta senza precedenti incassata da Erdogan nel fine settimana è lo specchio della crisi politica ed economica che sta attraversando la Turchia e il suo governo in un contesto regionale e internazionale sempre più instabile. Nel voto amministrativo di domenica, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente è finito dietro all’opposizione kemalista del Partito Popolare Repubblicano (CHP) per la prima volta in termini di consensi su base nazionale. Il sostegno di fatto al genocidio israeliano, nonostante le feroci critiche di facciata rivolte a Netanyahu, e l’impennata dell’inflazione e dei tassi interesse, seguita all’imposizione di politiche economiche “ortodosse” dopo le elezioni presidenziali e legislative dello scorso anno, si sono tradotte in un sensibile aumento dell’astensionismo e nell’abbandono dell’AKP di ampie fasce dell’elettorato, talvolta anche nelle tradizionali roccaforti del partito.

 

Pur non avendo condotto una campagna in maniera particolarmente intensa, la presenza di Erdogan è stata comunque costante nella fase pre-elettorale, come conferma il fatto che il presidente aveva visitato tutte e 51 le province turche. L’AKP ha perso addirittura 11 città che guidava dopo il voto amministrativo del 2019, mentre tutte e cinque le più grandi metropoli del paese sono andate a candidati dell’opposizione. Ad Ankara e Istanbul i due sindaci del CHP in carica, rispettivamente Mansur Yavas e Ekrem Imamoglu, hanno prevalso nettamente sui candidati di Erdogan, con il 60% e quasi il 52% dei voti conquistati.

In molti distretti controllati dall’AKP, le sconfitte spesso di misura sono state determinate dalla performance del Nuovo Partito del Benessere (YRP), formazione di ispirazione islamista parte della coalizione di governo ma che ha presentato propri candidati nel voto di domenica. Questo partito ha puntato sui toni populisti, mettendo la guerra a Gaza al centro della propria campagna. Le critiche contro il governo di Ankara per non avere congelato le relazioni commerciali con Israele hanno avuto un certo successo nell’intercettare il consenso di quegli elettori frustrati dall’AKP ma non disposti a passare al CHP.

Oltre al genocidio palestinese, i candidati del YPR hanno denunciato le politiche economiche di Erdogan e proposto iniziative per alleviare il declino delle condizioni di vita di buona parte della popolazione nell’ultimo anno, come l’aumento del salario minimo. Il partito guidato da Fatih Erbakan, figlio del defunto ex primo ministro turco Necmettin Erbakan, è così passato dal 2,8% delle ultime elezioni al 6.2%, diventando la terza forza politica del paese.

Come accennato all’inizio, una parte degli elettori scontenti di Erdogan e del governo ha deciso di disertare le urne. A livello nazionale, l’affluenza è scesa di circa il 10% rispetto alle elezioni del maggio scorso e ci sono pochi dubbi sul fatto che la freddezza dei votanti abbia penalizzato soprattutto l’AKP. Un peso particolare ha avuto l’attitudine degli elettori nelle aree colpite l’anno scorso dal devastante terremoto, che aveva causato più di 50 mila morti. Nella provincia sud-orientale di Adiyaman, dove l’AKP aveva ottenuto il 68% nel 2023, si è registrato infatti un calo dei votanti pari al 14%.

Dopo il successo del maggio 2023, il nuovo ministro delle Finanze nominato da Erdogan aveva subito alzato drasticamente i tassi di interesse, arrivati ora al 50%, per cercare di tenere sotto controllo l’inflazione. Su base annuale, lo scorso febbraio l’inflazione è arrivata però a quasi il 70%, con la conseguente erosione degli stipendi reali. Il fattore economico è risultato ancora più decisivo se si pensa al genere di campagna elettorale condotta lo scorso anno da Erdogan. Prima delle presidenziali di maggio, quest’ultimo aveva fatto promesse che lasciavano sperare in un aumento della spesa sociale, alimentando le aspettative di lavoratori e pensionati. In questa tornata elettorale, al contrario, non c’è stata traccia di proposte simili, visto che Erdogan e l’AKP hanno insistito sulla necessità di proseguire con il rigore.

Il voto di domenica ha anche segnato un certo recupero del partito che rappresenta la minoranza curda, presentatosi sotto la sigla di Partito della Democrazia e dell’Eguaglianza del Popolo (DEM) dopo che il suo predecessore – Partito Democratico Popolare (HDP) – era stato messo fuori legge per i presunti legami con il PKK. Per la stessa ragione, in decine di municipalità, gli esponenti del HDP che avevano vinto le elezioni del 2019 erano stati rimossi e i loro incarichi assegnati a commissari governativi. Il DEM ha riconquistato molte di queste aree, anche se in alcune località la storia è sembrata ripetersi.

Nella città orientale di Van, ad esempio, nella notte di martedì si sono verificati scontri tra le forze di polizia e manifestanti che protestavano contro l’annullamento del successo elettorale del candidato sindaco del DEM, Abdullah Zeydan. Facendo riferimento a una precedente condanna per collusione con il PKK, il ministero della Giustizia alla vigilia del voto aveva presentato un’istanza per squalificare Zeydan. La commissione elettorale turca, dopo il voto, ha accettato il ricorso e dichiarato vincitore il candidato piazzatosi al secondo posto, quello cioè dell’AKP.

Le amministrative in Turchia segnano dunque una battuta d’arresto per Erdgan dopo oltre due decenni al potere. Le dinamiche prodotte dalla crisi mediorientale esplosa con l’aggressione di Israele a Gaza hanno influito sugli equilibri elettorali turchi. Non va dimenticato che nei mesi seguiti al voto del maggio scorso, il presidente aveva implementato cambiamenti nella politica estera del paese, sia pure mantenendo la consueta indipendenza che ha ad esempio portato negli ultimi anni a una solida partnership con la Russia. Facendo leva sulla ratifica dell’adesione alla NATO di Finlandia e Svezia, Erdogan aveva aggiustato i rapporti con gli Stati Uniti, ottenendo in cambio benefici come la fornitura di nuovi caccia F-16 e la modernizzazione della flotta già in dotazione.

Le critiche aperte alla NATO e le denuncie rivolte all’opposizione kemalista di essere uno strumento dell’Occidente, che avevano segnato la campagna elettorale del 2023, sono state così in larga misura abbandonate in questa occasione. Per Erdogan si è trattato con ogni probabilità di un rischio calcolato, vista l’attitudine anti-occidentale della maggioranza della popolazione turca, per non compromettere i nuovi orientamenti di politica estera.

Non ci sono dubbi che il risultato del voto e le pressioni popolari dovute alla guerra genocida di Israele a Gaza avranno un peso sulle scelte future di Erdogan. Per i prossimi quattro anno non sono però previsti altri appuntamenti con le urne ed è probabile che il presidente e il suo governo intendano procedere nella stessa direzione degli ultimi mesi. Ciò vale anche per la politica economica. Erdogan ha infatti chiarito subito dopo il voto che non ci saranno cambiamenti di rilievo in questo ambito, dal momento che, a suo dire, le misure adottate finora daranno i risultati previsti “nella seconda metà dell’anno”.

Sempre in merito alla politica estera, invece, saranno appunto le vicende israelo-palestinesi a influire sulle scelte di Ankara. Il quotidiano israeliano Maariv ha scritto martedì di come Erdogan avesse cercato di rassicurare il governo Netanyahu che la retorica anti-sionista degli ultimi mesi era solo una strategia elettorale, mentre l’intenzione della Turchia resta di migliorare le relazioni con lo stato ebraico. D’altra parte, i traffici commerciali con Israele procedono indisturbati, inclusi quelli di materiali necessari ad alimentare la macchina da guerra sionista.

La relativa tranquillità politica su cui Erdogan contava dopo il recente voto potrebbe essere messa così a repentaglio dalle tensioni sociali derivanti dalla situazione economica interna e dagli sviluppi della crisi nella striscia. Di certo, le mire del presidente per consolidare la sua posizione alla guida del paese diventeranno quanto meno complicate. Ad esempio, potrebbero cadere vittima della sconfitta elettorale di domenica le modifiche allo studio della costituzione turca, come la proroga del numero dei mandati alla presidenza, per consentire una nuova candidatura di Erdogan al termine di quello in corso, o l’abbassamento dal 50% al 40% della soglia necessaria per garantirsi l’elezione diretta ed evitare un pericoloso secondo turno di ballottaggio.