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Categoria: Esteri
di Agnese Licata

I suoi avvocati non dovevano avere molto a cui aggrapparsi se la loro carta più importante era la testimonianza di alcuni esperti sulla fallibilità della memoria umana. Lo “smemorato” in questione è Lewis Scooter Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney, a sua volta numero due di George W. Bush alla Casa Bianca. Quello che dice di non ricordare riguarda il funzionario della Cia Valerie Plame, agente in incognito fino al il 14 luglio del 2003, quando la sua identità venne rivelata dal giornalista Robert D. Novak. Negli Stati Uniti, divulgare le generalità di un agente sotto copertura è un reato federale, come anche commettere spergiuro. E proprio per spergiuro Libby è stato condannato in primo grado dalla Corte federale di Washington. Pena: un anno e mezzo di carcere e 250mila dollari di multa. L’ex braccio destro di Cheney è accusato di aver mentito sia al grand jury sia agli investigatori dell’Fbi e di aver ostacolato le indagini, coprendo i responsabili della fuga di notizie. Lui ha provato a difendersi respingendo al mittente tutte le accuse e precisando che, in ogni caso, era oppresso da troppi impegni per potersi ricordare tutte le conversazioni su Valerie Plame. Alla storia della memoria sotto stress il giudice Reggie B. Walton non ha creduto per niente. Non ha neanche accettato che la difesa facesse testimoniare alcuni presunti esperti di sinapsi mentali. Nella sua sentenza, il giudice Walton afferma invece, senza giri di parole, che “prove schiaccianti dimostrano la sua colpevolezza” e che a mitigare la pena non può intervenire il peso del suo ruolo all’interno dell’amministrazione Bush. Anzi, scrive il giudice, “le persone che occupano questo tipo di posizione, in cui si ha il bene e la sicurezza della nazione nelle proprie mani, hanno l’obbligo speciale di non fare niente che possa creare qualsiasi problema”. A nulla è valso l’appello di Libby a “considerare, nel verdetto, la mia intera vita”.

Poca importanza hanno avuto anche le 150 richieste di clemenza consegnate al giudice e firmate da persone come l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, o Donald Rumsfeld, già segretario alla Difesa, o Paul Wolfowitz, recentemente estromesso dalla guida della Banca mondiale (per aver favorito un’impiegata sua amante). Il giudice Walton ha per ora respinto anche la richiesta della difesa di concedere la libertà su cauzione fino alla sentenza di appello. La decisione definitiva arriverà però la prossima settimana.

Insomma, a leggerla così, sembra che per una volta sia prevalsa la giustizia, al di là di “vie preferenziali” per chi occupa certe poltrone. Ma che qualcosa non torni è dimostrato dal fatto che le fonti di Novak, le persone che materialmente hanno fornito il nome di Valerie Plame al giornalista, non sono state accusate di nulla. Si tratta di Richard Armitage, ex deputato alla segreteria di Stato, e Karl Rove, consigliere politico del presidente George W. Bush alla Casa Bianca. Così si arriva al paradosso che va in carcere chi ha ostruito le indagini ma non chi ha commesso il reato. Difficile allora non considerare almeno in parte quanto affermato dall’avvocato difensore di Libby, Theodore Wells Jr., quando afferma che si vuole fare del suo cliente il capro espiatorio di tutto quello che è andato storto in Iraq.

Cosa c’entra l’Iraq in tutta questa storia è facile dirlo. Secondo l’accusa, Armitage e Rove avrebbero volontariamente fatto cadere la copertura dell’agente della Cia per vendicarsi del marito, Joseph Wilson. Nel 2002, Joseph Wilson fu incaricato, in quanto diplomatico del dipartimento di Stato, di scoprire per la Cia se l’Iraq di Saddam Hussein stava trattando con la Nigeria l’acquisto di uranio. Il marito di Valerie Plame scoprì che l’accusa era falsa e la comunicò alla Casa Bianca. La notizia non deve essere piaciuta per niente a George Bush che, in quel momento, stava imbastendo tutto per ottenere il consenso all’attacco all’Iraq. Saddam doveva aver commerciato quell’uranio, doveva lavorare all’atomica come doveva avere armi batteriologiche. Una verità diversa non era ammissibile. E allora, nonostante Wilson avesse verificato la falsità di quella notizia, il presidente degli Stati Uniti aveva continuato a dire nei suoi discorsi che il dittatore iracheno stava comprando uranio africano e che bisognava fermarlo al più presto, anche a costo d’invadere e devastare tutto l’Iraq.

Ma Wilson non ci sta. Racconta al The New York Times la verità. Risultato? Proprio subito dopo alcuni periodici ricevettero un’informazione riservata dall’interno del governo americano: che la moglie del diplomatico era un’agente operativo della Cia. Una vendetta. Né più né meno.

Adesso, l’ultima speranza per Lewis Scooter Libby è la grazia presidenziale. Il portavoce di Bush, però, ha fatto sapere che il Presidente non ha intenzione d’intervenire, almeno fino a quando anche l’appello non avrà dato il suo verdetto. In ogni caso, sembra difficile pensare che Bush scelga la grazia in un momento in cui il suo consenso è sempre più in crisi proprio per come la Casa Bianca sta gestendo la questione Iraq. Di cui, Valerie Plame, è in qualche modo una delle vittime statunitensi.