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The New York Times

E' tempo che gli Stati Uniti abbandonino l'Iraq, senza più alcun ritardo che non sia quello necessario per far si che il Pentagono possa organizzare una ritirata ordinata delle truppe. Come molti americani, abbiamo cercato di evitare di raggiungere questa conclusione, attendendo vanamente un segnale da parte del presidente Bush di cercare seriamente di far uscire gli Stati Uniti fuori dal disastro che lui stesso ha creato quando ha deciso di invadere l'Iraq senza avere un motivo sufficiente per farlo, in spregio all'opposizione dell'opinione pubblica mondiale e senza un piano per stabilizzare il Paese dopo l'invasione. All'inizio, credevamo che dopo aver distrutto il governo iracheno, il suo esercito, la sua polizia e le sue strutture economiche, gli Stati Uniti avessero quantomeno il dovere morale di raggiungere alcuni degli obiettivi che Bush proclamava di voler perseguire: in primo luogo costruire uno Stato iracheno stabile ed unito. Quando è divenuto chiaro che il presidente non aveva né la visione né i mezzi necessari per ottenere questo obiettivo, abbiamo comunque affermato che non era giusto decidere una data arbitraria per il ritiro delle truppe finché vi era ancora qualche speranza di mitigare il caos che ne sarebbe risultato. Mentre Bush rifiutava qualsiasi ipotesi di calendario per il ritiro delle truppe, egli continuava a promettere punti di svolta all'orizzonte: prima le elezioni, dopo la nuova Costituzione e dopo ancora l'invio di ulteriori migliaia di truppe nel Paese. Ma ognuna di queste pietre miliari veniva ed andava senza che fosse raggiunto alcun reale progresso verso l'obiettivo di un Iraq stabile e democratico, o quantomeno verso l'obiettivo del ritiro delle truppe. E' ora terrificantemente chiaro che il piano di Bush è quello di mantenere la linea seguita sinora fin quando rimarrà presidente, e poi lasciare l'onere di uscire dal disastro al suo successore. Qualsiasi sia stata la sua causa, ormai è persa.

I leader politici che Washington ha appoggiato in questi anni sono risultati essere incapaci di porre gli interessi nazionali dinanzi a quelli dei diversi gruppi etnici o religiosi del Paese. Le forze di sicurezza che Washington ha aiutato ad addestrare si comportano come milizie paramilitari agli ordini di quello o dell'altro gruppo politico. Le ulteriori forze militari che sono state inviate nella regione di Baghdad non sono riuscite ad ottenere alcun cambiamento della situazione sul terreno.
Continuare, in queste condizioni, a sacrificare le vite ed i desideri dei soldati americani è sbagliato.

La guerra in Iraq sta lentamente distruggendo la nostra nazione e le sue forze armate. E' una pericolosa diversione dalla guerra vitale contro il terrorismo internazionale. E' un onere sempre maggiore per i contribuenti americani e, allo stesso tempo, rappresenta il tradimento di un mondo che ha sempre bisogno della reale applicazione del potere e dei principi americani.

La maggioranza degli americani ha raggiunto queste conclusioni mesi addietro. Anche in una Washington polarizzata politicamente, le posizioni sulla guerra non sono più divise, come erano una volta, tra i due schieramenti politici. Quando il Congresso tornerà al lavoro questa settimana, il ritiro delle truppe americane dall'Iraq sarà la priorità della sua agenda per entrambi gli schieramenti politici.

La discussione al Congresso dovrà essere chiara e ben focalizzata. Agli americani deve essere chiaro che la situazione in Iraq, e nelle regioni confinanti, potrebbe diventare ancora più sanguinosa e caotica a seguito del ritiro delle truppe dall'Iraq. Potrebbero esserci vendette contro coloro che hanno lavorato con le forze americane, ulteriori pulizie etniche, e persino genocidi. Flussi di rifugiati iracheni potenzialmente destabilizzanti potrebbero arrivare in Giordania ed in Siria. L'Iran e la Turchia potrebbero avere essere tentate ad ottenere ulteriore influenza su quello che resta dell'Iraq. Ma forse, più importante di tutto, l'invasione americana ha già creato un paradiso per gli integralisti islamici di tutto il mondo, nel quale l'attività terrorista potrebbe proliferare.

L'Amministrazione presidenziale, il Congresso controllato dai democratici, le Nazioni Unite e gli alleati dell'America hanno l'obbligo di tentare di mitigare questi rischi potenziali e devono anche sapere che possono fallire. Ma gli americani devono anche essere onesti con se stessi riguardo al fatto che continuare a tenere le truppe in Iraq rischia soltanto di peggiorare ulteriormente la situazione. La nostra nazione ora abbisogna di una seria discussione su come raggiungere l'obiettivo del ritiro delle truppe e su come far fronte alle grandi sfide che ne potrebbero derivare.

Il meccanismo del ritiro

Gli Stati Uniti hanno circa 160mila truppe e milioni di tonnellate di materiale militare in Iraq. Fare in modo che tale forza possa ritirarsi in maniera sicura dall'Iraq sarà una sfida formidabile. La principale strada del sud verso il Kuwait è notoriamente vulnerabile ad attacchi terroristici. I soldati, le armi ed i veicoli militari andranno protetti all'interno di basi sicure mentre le operazioni di ritiro via area e via mare saranno organizzate. Le vie della ritirata dovranno essere ben guardate. L'uscita dall'Iraq dovrà essere tutto ciò che l'invasione non è stata: basata sulla realtà ed appoggiata da adeguate risorse militari.

Gli Stati Uniti dovrebbero esplorare la possibilità di usare il territorio curdo nel nord dell'Iraq come area sicura da cui far partire la ritirata. Avere la possibilità di usare le basi militari ed i porti della Turchia renderebbe inoltre il ritiro più veloce e sicuro. La Turchia sino ad ora è stata un alleato inconsistente durante questa guerra, ma, come altre nazioni, dovrebbe rendersi conto che accollarsi parte degli oneri di questa ritirata è nel suo stesso interesse. Ottenere tutto questo in meno di sei mesi è probabilmente poco realistico. Ma la decisione politica e la scelta della data finale del ritiro deve essere fatta ora.

La guerra contro i terroristi

Nonostante le ripetute dichiarazioni del presidente Bush, Al Qaeda non aveva alcuna significante presenza in Iraq prima dell'invasione. Grazie ad essa, oggi invece ha nuovi campi di addestramenti, nuove reclute e nuovo prestigio.
Questa guerra ha dirottato altrove le risorse che inizialmente il Pentagono aveva destinato all'Afghanistan, dove il nostro esercito aveva realmente la chance di colpire una volta e per tutte i leader di Al Qaeda. Ha alienato i nostri essenziali alleati nella guerra contro il terrorismo. Ha anche succhiato la forza e la prontezza di reazione delle truppe americane. Ed ha creato un nuovo fronte, a causa del quale gli Stati Uniti dovranno continuare a combattere le forze terroriste e cercare l'aiuto di alleati in loco che rifiutano l'idea di un Iraq dirottato dalle forze del terrorismo internazionale. I militari avranno bisogno di molte risorse e nuove basi militari per tamponare questa ferita auto-inflitta nel prossimo futuro.

La questione delle basi militari

Gli Stati Uniti potrebbero accordarsi con i curdi per creare tali basi nel nordest dell'Iraq. Oppure, il Pentagono potrebbe usare le sue basi in Paesi come il Kuwait o il Qatar, oppure la sua forte presenza navale nel Golfo Persico, come punti d'appoggio. Ci sono diversi argomenti a favore, o contrari, a tali opzioni. Lasciare le truppe in Iraq potrebbe rendere troppo facile - e forse anche troppo rischioso - una loro eventuale partecipazione alla guerra civile in Iraq e confermare così i sospetti che l'obiettivo reale di Washington sia in effetti quello di assicurarsi basi permanenti in Iraq. Montare invece attacchi da altri Paesi potrebbe mettere a rischio i governi di tali Paesi.

La Casa Bianca dovrebbe decidere dopo consultazioni con il Congresso e con i governi degli altri Paesi della zona, le cui opinioni, sinora, sono state essenzialmente ignorate dall'Amministrazione Bush. Rimane inteso che il Pentagono avrà la necessità di avere ancora abbastanza forze in zona per compiere con efficacia radi antiterroristici e bombardamenti contro le forze terroriste in Iraq, ma non tante per riprendere a combattere su larga scala.

La guerra civile

Uno degli argomenti di Bush contro il ritiro dall'Iraq è che tale mossa porterebbe il Paese diritto alla guerra civile. Il problema è che tale guerra è già in atto ora, e ci vorranno anni prima che finisca. L'Iraq, come risultato, potrebbe dividersi in tre repubbliche separate (una curda, una sunnita e l'altra sciita) e le truppe americane già ora non potrebbero fare nulla per impedirlo.
E' possibile, supponiamo, che l'annuncio di una data per il ritiro delle truppe americane dall'Iraq, possa condurre i leader politici iracheni ed i governi dei Paesi vicini ad una più stretta analisi della realtà.

Idealmente, potrebbe persino permettere ai politici iracheni di intraprendere quei passi verso la riconciliazione nazionale di cui tanto si è discusso, ma nulla si è fatto realmente per ottenere sinora. Ma è follia contare troppo su questo, come hanno fatto alcuni esponenti democratici che propongono il ritiro delle truppe. L'Amministrazione americana dovrebbe invece usare qualsiasi leva disponibile dopo l'annuncio della decisione del ritiro, per pressare i suoi alleati in Iraq ed i Paesi vicini a raggiungere una soluzione negoziale alla crisi.

I leader politici iracheni - sapendo di non poter più contare sugli americani per garantire la loro sopravvivenza politica e non - potrebbero essere più aperti a compromessi, forse ad una partizione dell'Iraq stile Bosnia, con risorse economiche spartite equamente ma con milioni di iracheni costretti ad andar via dalle prprie città. Sarebbe comunque meglio della lenta ma continua pulizia etnica e religiosa che ha contributo a rendere senza casa un iracheno su sette.
I soldati americani non possono risolvere il problema. Il Congresso e la Casa Bianca dovrebbero impegnarsi per guidare un tentativo internazionale per ottenere una soluzione negoziale. Per iniziare, Washington si dovrebbe appellare alle Nazioni Unite, le stesse che Bush ha disprezzato e ridicolizzato prima dell'inizio della guerra.

La crisi umanitaria

Ci sono quasi due milioni di rifugiati iracheni, la gran parte in Siria ed in Giordania, ed almeno altri due milioni che sono rifugiati all'interno del loro Paese ma lontani dalle loro case. Senza l'attiva cooperazione di tutti e sei i Paesi che confinano con l'Iraq - Turchia, Iran, Kuwait, Arabia Saudita, Giordania e Siria - e l'aiuto delle altre nazioni, questo disastro umanitario potrebbe ancora peggiorare. Oltre alla sofferenza, un numero ingente di rifugiati - molti dei quali con risentimenti politici ed etnici - potrebbe portare la guerra civile irachena ben al di fuori dei confini dell'Iraq.

Il Kuwait e l'Arabia Saudita si devono impegnare a garantire l'ospitalità per i rifugiati. La Giordania e la Siria, già ora strapieni di rifugiati iracheni, hanno bisogno di maggiore aiuto internazionale. Prima di tutto, soldi. Le nazioni europee ed asiatiche hanno un loro interesse e devono perciò contribuire. Ma gli Stati Uniti dovranno accollarsi la gran parte di questi costi, ed allo stesso tempo guidare uno sforzo internazionale, forse una conferenza dei donatori, per racimolare i soldi necessari a far fronte alla crisi umanitaria dei rifugiati iracheni.
Washington deve anche riallacciare i rapporti con i Paesi alleati. Ci sono nuovi governi in Gran Bretagna, Francia e Germania che non hanno partecipati alla battaglia diplomatica prima della guerra e sono ora disponibili ad aiutare a dare una mano per risolvere la crisi.

Ma questo richiede comunque una misura di umiltà ed un impegno ad azioni multilaterali che questa Amministrazione non ha mai mostrato sinora. E, comunque possano essere arrabbiate con il presidente Bush per aver causato questo disastro, tutte queste nazioni devono capire di non poter ignorare le conseguenze di questa tragedia. Per dirlo chiaramente, il petrolio iracheno ed il terrorismo rendono impossibile ignorare cosa succederà in Iraq dopo il ritiro degli americani.

Gli Stati Uniti d'America hanno la maggiore responsabilità, incluso quella di dover ammettere in via permanente sul proprio territorio un gran numero di questi rifugiati. L'obbligo principale è nei confronti di quelle decine di migliaia di iracheni coraggiosi e di buona volontà - traduttori, impiegati nell'ambasciata americana, operai della ricostruzione - le cui vite sarebbero in pericolo perchè hanno fatto l'errore di credere alle promesse degli americani ed hanno cooperato con loro.

I Paesi vicini

Uno degli obiettivi principali da raggiungere sarà quello di evitare eccessive conseguenze in Iraq a seguito del ritiro delle truppe americane, mediante il contributo dei Paesi vicini, indistintamente, sia gli amici dell'America che i suoi avversari.

Così come la comunità internazionale dovrebbe pressare l'Iran per permettere agli sciiti del sud iracheno di sviluppare il proprio futuro indipendentemente dalle decisioni di Teheran, allo stesso modo Washington dovrebbe cercare di persuadere le potenze regionali sunnite, come la Siria, a non intervenire a favore dei sunniti iracheni. La Turchia inoltre dovrebbe evitare di inviare truppe nei territori curdi del nord del Paese.

Affinché tali sforzi possano avere una possibilità di successo, anche se remota, Bush dovrebbe lasciar decadere la propria indisponibilità ad aprire negoziati diretti con Iran e Siria. La Gran Bretagna, la Francia, la Russia, la Cina ed altre potenze internazionali hanno la responsabilità di dare una mano per la soluzione della crisi. La guerra civile in Iraq è una minaccia per tutti, soprattutto se si espande al di fuori dei confini dell'Iraq.

Il presidente Bush ed il vicepresidente Dick Cheney hanno usato sino ad oggi la demagogia e la paura per non rispondere alle domande degli americani che chiedono la fine di questa guerra. Essi continuano ad affermare che il ritiro delle truppe americane causerà laghi di sangue, caos ed incoraggerà i terroristi. Il problema è che, attualmente, tutto questo è già successo - e non è il risultato del ritiro delle truppe, ma di una invasione militare non necessaria e dell'incompetente gestione di questa guerra da parte dell'Amministrazione americana.

Il nostro Paese si trova di fronte ad una scelta. Possiamo da una parte permettere a Bush di continuare questa guerra senza un fine o un proposito. O possiamo dall'altra parte insistere nel richiedere delle truppe nel modo più immediato e sicuro che è possibile ottenere ed allo stesso tempo sforzarci quanto più possibile per impedire che il caos abbia il sopravvento.

tradotto da Daniele John Angrisani per Altrenotizie.org