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di Daniele John Angrisani

Nel mezzo di una estate che si preannuncia con temperature record negli Stati Uniti, a Washington ci pensa la politica a dare una mano a tenere ancora più caldo il clima. La notizia di questa settimana è sicuramente la decisione della Casa Bianca di commutare la pena per "Scooter" Libby, l'ex braccio destro del vicepresidente Cheney ed una delle persone più influenti della Casa Bianca di George W. Bush. Libby è stato processato e poi condannato da una corte federale a 30 mesi di prigione e 250 mila dollari di multa, con l'accusa di aver mentito agli investigatori nell'ambito dell'indagine che aveva come obiettivo quello di capire chi aveva spifferato alla stampa che Valerie Plame era in realtà una agente della CIA, per vendetta contro la decisione del marito, l'ex ambasciatore americano in Iraq, Joseph C. Wilson, di denunciare apertamente sulla stampa, nel 2003, le menzogne dell'Amministrazione Bush che hanno portato alla guerra in Iraq. A seguito della decisione presidenziale di commutazione della pena, Libby non dovrà più scontare alcun giorno di galera, ma solo pagare la multa a cui è stato condannato, che, per quanto ingente possa essere, nulla è in confronto ad una condanna al carcere. Durante l'indagine che ha portato al rinvio a giudizio di Libby, il procuratore speciale Patrick J. Fitzgerald era stato più volte sull'orlo di accusare anche l'altra eminenza grigia della Casa Bianca, Karl Rove, di essere la mente del complotto contro Wilson. Rove però è riuscito a scampare al pericolo per la mancanza di sufficienti prove contro di lui. Nondimeno il processo contro Libby è stato considerando da molti media americani, come il "processo del secolo", per le sue implicazioni su quella che indubbiamente sarà ricordata dalla storia come la decisione più importante della presidenza di George W. Bush: la guerra in Iraq. Proviamo perciò a chiarire bene di cosa si tratta e quali sono le reali implicazioni di questa vicenda sull'Amministrazione Bush e sulla storia americana degli ultimi anni.

Se torniamo indietro con la nostra mente a quei giorni di inizio 2003, ci troviamo di fronte ad un Paese ben diverso dall'America di oggi: a seguito degli attacchi dell'11 settembre 2001, gli Stati Uniti erano stati pervasi da una atmosfera di intenso patriottismo ed il rating del Presidente Bush superava l'80% di popolarità. Nelle elezioni di mid-term del 2002, i repubblicani, guidati dal loro stratega, Karl Rove, erano riusciti a sfruttare questa situazione guadagnando la maggioranza in entrambe le camere del Congresso, grazie anche ad una campagna elettorale molto aggressiva che definiva "traditore" e "poco patriottico" chi criticava il presidente Bush.

Era il periodo in cui il Congresso faceva a gara ad approvare le leggi proposte dalla Casa Bianca, senza neppure discuterle, come nel caso del Patriot Act, con i media che riportavano come fossero oro colato quelle che in seguito si sarebbero scoperto essere menzogne della Casa Bianca. I principali esponenti dell'Amministrazione dichiaravano a turno alla stampa la minaccia del regime di Saddam Hussein e delle sue presunte armi di distruzione di massa. Lo stesso presidente George W. Bush, durante il Discorso sullo Stato dell'Unione del 2003, dinanzi al Congresso, aveva affermato: "Il governo inglese è venuto a conoscenza del fatto che Saddam Hussein ha recentemente tentato di acquistare diverse quantità di uranio da un Paese dell'Africa". Uranio che, secondo il presidente americano, sarebbe servito per costruire armi atomiche in spregio alle risoluzioni internazionali. Un’ accusa gravissima.

Peccato che fosse del tutto falsa e basata, come si sarebbe dimostrato in seguito, su dossier spazzatura, nella cui creazione, in parte, pare sia stato implicato anche il SISMI di Niccolò Pollari, di cui si narra un viaggio a Washington per tentare di convincere i colleghi della CIA della veridicità delle accuse ivi contenute.

Eppure, proprio in quel periodo qualche rara voce critica cominciava a farsi ascoltare. Qualcuno ebbe persino l'ardire di mettere in dubbio l'indubitabile: che l'Iraq avesse realmente quelle armi di distruzione di massa a causa delle quali si era scatenata la guerra. Tra questi, indubbiamente colui che ha dato il colpo maggiore alla credibilità della Casa Bianca, è stato Joseph C. Wilson.

Ex ambasciatore americano in Iraq, "eroe" nelle parole del presidente Bush padre ai tempi della prima guerra del golfo, Wilson aveva pubblicato il 6 luglio 2003 un editoriale molto critico nei confronti della Casa Bianca. In questo editoriale, intitolato "Cosa non troveremo in Africa", Wilson aveva documentato le conclusioni del suo viaggio investigativo in Africa del febbraio 2002, affermando che l'Iraq non aveva mai cercato di acquistare uranio dal Niger o da qualsiasi altro Paese africano fino alla fine degli Anni Novanta e, in definitiva, accusava l'Amministrazione Bush di aver "esagerato nella gravità delle minacce per giustificare la guerra in Iraq".

Un attacco pesantissimo per coloro che fino ad allora erano stati abituati agli osanna della stampa e dell'opinione pubblica. In risposta a queste accuse, da parte della Casa Bianca si mise subito in atto un piano di "distruzione" dell'immagine e della persona di Wilson, che ebbe il culmine in un articolo infamante di Robert Novak che, il 14 luglio 2003, sulle colonne sempre del New York Times, affermò che la moglie di Wilson, Valerie Plame, era una agente segreta operativa della CIA impegnata nella ricerca delle armi di distruzione di massa in Iraq, come affermato da "due alti funzionari" della Casa Bianca.

La cosa non passò inosservata, in quanto, tra le altre cose, affermare l'identità di un'agente segreto della CIA è un reato federale ai sensi delle leggi americane. Furono perciò avviate indagini, affidate al procuratore speciale Patrick J. Fitzgerald, per accertare chi avesse spifferato alla stampa il nome di Valerie Plame. Da subito l'attenzione fu posta sul potentissimo Karl Rove, il consigliere del presidente Bush e vera anima grigia della Casa Bianca. Più volte la Casa Bianca fu perciò costretta ad affermare la totale estraneità di Rove nella vicenda e lo stesso presidente George W. Bush ci tenne ad affermare nel febbraio 2004: "Se è stato qualcuno che fa parte della mia Amministrazione, voglio sapere di chi si tratta... Se c'è una persona che ha violato la legge, deve fare ora i conti con essa. Sono favorevole alle indagini e ho assoluta fiducia che il Dipartimento della Giustizia farà bene il proprio dovere. Voglio conoscere la verità... rendere pubbliche informazioni riservate è una cosa molto grave".

Si entrava nel frattempo nella stagione elettorale del 2004 che avrebbe visto la riconferma di Bush alle elezioni presidenziali e la sconfitta di John Kerry, che pure aveva fatto del cosiddetto "Plamegate" uno degli argomenti di punta della sua campagna elettorale. Ciononostante le indagini di Fitzgerald continuarono senza sosta. Si arriva così all'autunno del 2005, quando su una Casa Bianca già profondamente colpita nella credibilità dal fallimento della missione in Iraq e dalla pessima gestione dei disastri provocati dall'uragano Katrina, piomba come un masso la decisione del procuratore speciale di rinviare a giudizio "Scooter" Libby con l'accusa di ostruzione della giustizia e di aver mentito ripetutamente sotto giuramento. A Libby altro non resta che dimettersi dalla carica di consigliere della Casa Bianca e prepararsi ad un processo per nulla facile.

Nel frattempo delle armi di distruzione di massa irachene di cui si era tanto parlato prima della guerra non si era trovata alcuna traccia, mentre lo stesso New York Times aveva pubblicamente chiesto scusa ai propri lettori per non aver fatto il proprio dovere nel cercare di confutare le dichiarazioni della Casa Bianca.

Il resto è storia dei giorni nostri. Il 6 marzo 2007 Libby viene condannato, come abbiamo già detto, a 30 mesi di carcere, per 4 dei 5 capi d'accusa per cui era stato sottoposto a giudizio. Pochi giorni fa, il 2 luglio 2007, la Corte d'Appello decide di non concedere la sospensione della pena per Libby. Per evitare che l'ex consigliere presidenziale finisca in carcere, interviene però la Casa Bianca, che decide di commutare la pena mantenendo solo quella pecuniaria. Bush ha spiegato le sue motivazioni nel provvedimento di clemenza affermando che "la Corte, nel decidere la sentenza, non ha tenuto conto dei consigli dell'ufficio probatorio, che raccomandavano una sentenza più lieve" ed ha perciò concluso affermando che la sentenza a 30 mesi di carcere è stata "eccessiva".

Immediate le reazioni del mondo politico e giudiziario. Il procuratore speciale Fitzgerald ha affermato che "è importante che tutti siano uguali dinanzi alla legge", mentre i leader democratici del Congresso hanno affermato tutto il loro sdegno di fronte a "l'abrogazione della giustizia", annunciando anche, come ha fatto il deputato John Conyers, la possibile indagine ufficiale del Congresso sulla decisione di Bush.

Alla fine di tutta la storia quindi "Scooter" Libby è riuscito a scampare al pericolo del carcere. Con grande gioia di chi ha paura di fare la sua stessa fine in futuro. O di chi, e si tratta di molti all'interno dell'Amministrazione, aveva paura che Libby potesse parlare, stavolta non più alla stampa, ma agli inquirenti, con implicazioni decisamente più distruttive per la residua credibilità della Casa Bianca, se fosse stato mandato in galera. Ma nonostante la fine giudiziaria della vicenda, le molte domande che la vicenda Libby ha portato alla luce del sole, rimangono ancora senza risposta ed è facile immaginare che molte di esse saranno riproposte ancora durante la prossima campagna elettorale.

Ciò che più conta è però che, anche grazie a questa pessima storia, l'opinione pubblica americana sia finalmente diventata pienamente cosciente delle menzogne di questa Amministrazione: stando agli ultimi sondaggi oltre la metà degli americani, il 51%, vorrebbe l'impeachment di George W. Bush (ed il 54% quella di Dick Cheney), mentre solo il 26% degli americani approva la politica del presidente. Un rating così basso non è mai stato raggiunto da alcun presidente americano, soprattutto alla fine del suo mandato. A distanza di 6 anni dall'inizio del suo mandato, sono questi numeri, più di ogni altra cosa, a dare il senso del discredito che è stato gettato sulla Casa Bianca da questa Amministrazione.

Sarà ora, più che mai, compito del prossimo presidente lavorare duramente per ridare dignità e lustro ad una istituzione che da troppo tempo è infangata dagli scandali, per essere ancora credibile agli occhi dell'opinione pubblica americana e mondiale.