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di Agnese Licata

Non è certo un bel periodo, questo, per le case farmaceutiche statunitensi. Principi attivi con profitti annui da capogiro, ma brevetti in scadenza. Ridotta capacità d’innovare e di creare nuove e redditizie molecole. E poi, soprattutto, farmaci messi in commercio con enormi speranze che però, uno dopo l’altro, si sono rivelati più pericolosi che utili per i pazienti a cui erano stati somministrati, costringendo la Food and Drug Administration (Fda) a ritirarli dal mercato. È il caso del Vioxx, un antidolorifico che aveva la piccola controindicazione di raddoppiare il rischio di attacchi di cuore in chi lo assumeva. La Merk, l’azienda che lo produceva e che dal 2004 non ha più potuto venderlo, è ancora alle prese con le migliaia di cause fatte da persone che lo assumevano. Percorso simile anche per il Ketek, l’ennesimo antibiotico destinato ad affollare i banchi di farmacie e ospedali, salvo poi scoprire che era responsabile di danni al fegato. Più di recente, è finita male anche l’avventura di Avandia, creato dalla GlaxoSmithKline per i diabetici, come quella di Zimulti della Sanofi-Aventis che, certo, aiutava gli obesi a perdere peso, ma in cambio aumentava in loro pensieri e atteggiamenti suicidi. Di fronte a una situazione del genere, in cui è evidente che a non funzionare sono i criteri con cui la Fda verifica e concede l’autorizzazione ai nuovi farmaci, il Congresso americano, invece di ripensare profondamente un sistema che lascia nelle mani delle stesse aziende farmaceutiche i trial clinici (le sperimentazioni destinate a controllare gli effetti collaterali), pensa di risolvere tutto aumentando i controlli che la Fda fa nel periodo successivo alla messa in commercio del farmaco. Come? Per pagare il maggior personale necessario, pur di non far uscire un solo euro dalle casse statali, il Parlamento sembra intenzionato a usare i soldi delle multinazionali, rischiando di radicalizzare un meccanismo che sempre più commistiona controllore e controllati.

Per il momento, la legge di riforma è stata approvata solo dal Senato, ma alla fine del mese il voto dovrebbe arrivare alla Camera e non sembra ci siano proposte alternative. Troppo impellente la data del 30 settembre, giorno in cui scadrà il Prescription Drug User Fee Act. Con la sigla Pdufa ci si riferisce a una legge federale che consente alle Fda di riscuotere tasse direttamente dalla case farmaceutiche. Obiettivo? Accelerare il processo di autorizzazione dei nuovi farmaci. Nel 1992, quando il Pdufa fu votato per la prima volta dal Congresso, il voto favorevole arrivò velocemente perché metteva d’accordo due lobby in genere in contrasto. Da un lato i produttori di farmaci (in assoluto il più grande gruppo di pressione a Washington) che continuavano a lamentare la lentezza con cui la Fda concedeva le autorizzazioni, lentezza che andava a ridurre il periodo di sfruttamento economico delle royalties. Dall’altro, le associazioni dei pazienti, ansiose di avere a disposizione nuove cure.

Tutti uniti nel considerare quasi come tempo perso quello speso a verificare, analizzare, valutare i risultati dei trial clinici, quelli cioè che dovrebbero scoprire prima che un farmaco venga messo a disposizione di milioni di persone, se e quanto questo può risultare pericoloso per la salute. Grazie a questi interessi trasversali si è arrivati al paradosso che un’agenzia governativa nata per controllare il lavoro fatto dalle case farmaceutiche, per garantire che i nuovi farmaci messi in commercio siano il più sicuri possibile, finisce per essere ampiamente finanziata dagli stessi soggetti che dovrebbe controllare.

I risultati portati negli ultimi dieci anni da una legislazione del genere sono lampanti. Dal 1993 al 2003 il tempo medio per approvare un farmaco è sceso da 22 a 14 mesi. Per i principi attivi che hanno ottenuto la procedura d’urgenza (in genere i salva-vita) è passato da 13 a 6 mesi. Tomas J. Philipson e quattro suoi colleghi dell’Università di Chicago hanno provato a tradurre tutto questo in cifre, stimando che per le multinazionali la riduzione dei tempi si è trasformata in almeno 11 miliardi di dollari di profitti in più.

Una media di circa 39 milioni per ogni nuovo farmaco. Per i pazienti, invece, grazie al Pdufa si sarebbero saltati 180-310mila anni di vita. Peccato che, dall’altro lato, 56mila anni di vita sarebbero stati persi a causa degli effetti collaterali provocati da farmaci prima approvati e poi ritirati per motivi di sicurezza.

Quello che bisogna in ogni caso sottolineare è che la maggior parte dei farmaci lasciati in stand-by dalla Fda durante i suoi controlli non sono farmaci realmente innovativi, di quelli che possono fare la differenza tra la vita e la morte, di quelli destinati a curare malattie rare, o anche “solo” di quelli capaci di migliorare la condizione dei malati. Nella maggior parte dei casi si tratta di farmaci cosiddetti mee-too, ossia prodotti da aziende concorrenti per replicare farmaci redditizi e aggirare la tutela del brevetto. Basta dire che nel 2002 la Fda ha autorizzato 78 nuovi farmaci, ma di questi solo 17 contenevano nuove molecole. E su 17, solo sette erano realmente innovative, cioè rappresentavano un “miglioramento significativo”. E allora, perché tutta questa fretta se oltre il 91 per cento dei nuovi principi attivi aggiungono poco o niente a quanto già esiste in farmacia?

Neanche di fronte a casi come il Vioxx, il Ketek, l’Avandia, lo Zimulti, il Congresso americano sembra intenzionato a fare marcia indietro. Anzi, prevede di aumentare le tasse riscosse dalla Fda, portandole a quasi 400 milioni di dollari (393, per essere esatti), ossia 87 in più rispetto al 2007. Soldi che però non sarebbero più destinati solo ad accelerare le autorizzazioni, ma verrebbero usati anche per aumentare il personale preposto a monitorare i rischi dei farmaci subito dopo la loro messa in commercio. Nel testo di legge approvato dal Senato (e che dovrà essere discusso alla Camera) c’è però anche qualche limitato tentativo di guardare a interessi più ampi rispetto alla salvaguardia delle casse dello Stato e delle aziende.

È infatti prevista la possibilità di multare le multinazionali fino a 2 milioni di dollari se non si adeguano al nuovo sistema di controllo sui farmaci già sul mercato. Un sistema che mira soprattutto a creare degli ampi database elettronici che permettano di scoprire in anticipo la comparsa di effetti collaterali imprevisti. Multe invece fino a 250 mila dollari per le aziende che verranno condannate per aver usato messaggi pubblicitari falsi o tendenziosi.

Piccoli aggiustamenti che poco cambiano del quadro complessivo. Basta dire che al Senato è stato bocciato persino un tiepido emendamento che avrebbe reso più difficile per gli scienziati con conflitti d’interesse lavorare come consulenti per l’Fda. Neanche la più piccola proposta, poi, di vietare totalmente gli spot per i prodotti farmaceutici, come avviene invece in tutto il resto del mondo.

Lontana anni luce anche la vecchissima - e mai accettata - proposta di introdurre qualche forma di controllo sul prezzo dei farmaci, come fanno tutti gli altri Paesi occidentali. Troppo forte il peso delle industrie farmaceutiche per pensare a una riforma vera, soprattutto in vista della lunga e costosa campagna elettorale che attende gli Stati Uniti.