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Categoria: Esteri
di Giuseppe Zaccagni

Ora Erdogan ha la maggioranza. E così, forte del risultato uscito dalle urne (oltre il 47 per cento), si avvia a mettere in pratica la sua politica che è basata sui principi dell’unità nazionale, della democrazia e della laicità in vista - questo l’obiettivo centrale - di poter entrare a testa alta in Europa. Il primo annuncio, segnato ovviamente dalla emozione, riguarda il futuro del paese, che non dovra attraversare nessuna fase di transizione ma continuare il percorso delle riforme già avviate e tutte segnate nel programma del suo Partito, quello della “Giustizia e Sviluppo” (AKP) premiato con 342 deputati su 500 e un incremento del 13% rispetto alle ultime votazioni. In pratica il Paese - dopo questo vero e proprio referendum popolare che manda in soffitta un periodo di tristi previsioni - si avvia verso una strada laica pur senza rinunciare alle forti tradizioni nazionali e religiose. Con i due principali partiti di opposizione che sono riusciti, comunque, a superare la soglia di sbarramento del 10%, necessaria per accedere al Parlamento: il repubblicano CHP (laico e di sinistra) ha raggiunto il 20% dei voti pari a 112 seggi, mentre i “lupi grigi” del MHP (movimento nazionalista di estrema destra) hanno conquistato 70 seggi pari al 14% dei voti. Altri 27 seggi sono stati suddivisi fra i candidati indipendenti, alcuni dei quali appartenenti al movimento indipendentista pro-Kurdistan. Ma a questa ultima formazione Erdogan - forte del nuovo consenso popolare - ricorda che il governo “continuerà la battaglia” contro le forze ribelli curde nell’est del Paese. E con questo impegno di lotta la “nuova Turchia” si appresta a rivedere molte delle sue linee di gestione politica, interna e internazionale. Vince il pensiero forte di Erdogan che si lascia alle spalle una serie di forti contrasti politico-istituzionali. In particolare quella vicenda relativa al fatto che alcuni mesi fa il premier aveva cercato di far eleggere dal Parlamento il ministro degli Esteri Abdullah Gul alla carica di presidente della Repubblica. Il tentativo era stato però frustrato dall'opposizione laica, che riteneva quasi una profanazione che un politico - la cui moglie si vela il capo - potesse essere l'ultimo successore di Mustapha Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica turca, liquidatore dell'impero ottomano e del califfato.

Di fronte a quel diniego, Erdogan aveva messo in campo tutta la sua forza (professionalità e stile) decidendo di chiamare i turchi alle urne, sottoponendo loro un programma elettorale basato su una serie di riforme costituzionali, a partire dall'elezione diretta della più alta carica dello Stato. E con questa mossa aveva dato prova di essere disposto a giocare il tutto per tutto puntando ad un'investitura politica forte per procedere sulla via delle riforme.

Un gioco d’azzardo, comunque basato pero su alcuni dati incontrovertibili. E cioè quelli relativi ai risultati dei quasi cinque anni del suo governo, che hanno visto l'economia turca ottenere ottime performance. Con l'affidabilità democratica del governo che si è consolidata e, più in generale,con il risultato di cospicui passi in avanti sulla via della liberalizzazione politica ed economica. E si è visto che i venti della storia soffiavano nel senso giusto.

Erdogan ha vinto la battaglia operando anche una sorta di “grande purga” nelle file stesse del suo partito. Ha mandato alla deriva quei ceti popolari arretrati, tradizionalisti, politicamente impreparati. In pratica ha scaricato dalle stanze del potere gran parte di quella borghesia che, come in tanti altri Paesi d'Europa, è socialmente conservatrice ed economicamente liberale. Cioè l'opposto della borghesia "pubblica" cresciuta nel mito laico di Mustapha Kemal e che con l'establishment militare condivide valori tanto etici quanto economici.

La vittoria di Erdogan segna pertanto un ulteriore "strappo" della tradizione kemalista. Pur se questa nuova Turchia è destinata ancora ad essere un osservato speciale soprattutto per i governi europei e per la Commissione Europea. Ma Erdogan conosce i rischi del sistema. Insiste sulle promesse di liberalismo e di laicita. Sa bene che sulle grandi questioni strategiche, (le modifiche della Costituzione, ad esempio) dovrà contrattare con gli altri partiti e con diversi eletti laici del suo stesso gruppo parlamentare, il che sembra escludere nuove crisi come quella che il 27 aprile scorso spinse i militari turchi ad un duro comunicato in cui chiarivano che il capo dello stato in Turchia "deve essere un laico nei fatti e non solo a parole". Intanto i mercati e gli ambienti finanziari turchi (favorevoli ad un governo monocolore chiunque ne sia il leader) sembrano aver accettato i risultati del voto.

Quanto alla società religiosa dell’intero paese ci sono, comunque, una serie di problemi che non vanno sottovalutati. E’ noto, infatti, che il Patriarcato ecume¬nico di Costantinopoli ha fatto il tifo per l'Akp, che é, appunto, il partito filo-islamico di Erdogan. I riformisti di questo schieramento, negli ultimi mesi, sono stati attaccati dai loro avversari che li hanno accusati di essere le quinte colonne della "saudizzazione" della laica Turchia. E sono stati (e sono) in molti a ritenere che sia in pericolo la sopravvivenza stessa della Chiesa madre dell'Ortodossia. Ma a convincere il Patriarca Bartolomeo - sulla attendibilità di questo ennesimo paradosso turco - è stata l'escalation di colpi e di avvertimenti abbattutisi in rapida sequenza sul Fanar - la residenza patriarcale affacciata sul Corno d'Oro - in coincidenza col rush finale della campagna elettorale.

Va anche ricordato che ben due settimane fa, una sentenza della Cassazione ha negato al Patriarcato di Costantinopoli il diritto di definirsi "ecumenico", dando espressione giuridica alle tesi riduzioniste che vogliono relegare il Patriarcato a mera entità religiosa turca adibita alla cura della locale minoranza greca. E c’è stato un fatto di estremo pericolo. Perché dopo la sentenza, la sede del Patriarcato è stata circondata da estremisti nazionalisti che volevano impedire l'ingresso a quei vescovi del Sinodo che non hanno la cittadinanza turca.

Poi è arrivata la revoca del permesso per il concerto di chiusura della seconda Conferenza della gioventù ortodossa, organizzata dallo stesso Patriarcato a Istanbul. Infine è arrivata una citazione a giudizio contro Bartolomeo, accusato di avere utilizzato di nuovo il titolo "abusivo" di Patriarca ecumenico durante la kermesse dei giovani ortodossi.

A denunciare il patriarca è stato Buijidar Cipof, un ex membro della Chiesa dell'esarcato bulgaro di Costantinopoli che si trova sotto la giurisdizione del Patriarcato ecumenico. Particolare significativo: alla debolezza del Patriarcato concorrono anche le gelosie “modello fratelli-coltelli” che serpeggiano contro il primus inter pares dei primati ortodossi. Ma, dietro le meschinità bulgare, Bartolomeo e gli altri capi delle comunità cristiane hanno intravisto quello che in gergo è definito come lo "Stato nascosto": il blocco militare, l'apparato burocratico statale e i servizi segreti, che mandano segnali intimidatori alle minoranze cristiane della Turchia sospettate di appoggiare Erdogan.

Per quanto possa sembrare strano, le minoranze cristiane in Turchia hanno goduto nell'ultimo ventennio di una certa tolleranza soltanto con i governi di Ozal e di Erdogan. Mentre il blocco di potere che da sempre si identifica nell'esercito e nell'onnipotenza degli apparati di polizia, a parole sbandiera gli slogan del laicismo kemalista, e nei fatti fomenta i partiti e i gruppi - come il movimento dei Lupi grigi e il Partito repubblicano - segnati da un nazionalismo sempre più xenofobo e intollerante delle minoranze religiose. Ecco, quindi, che Erdogan oltre all’Europa dovrà guardare alla vita interna del suo Paese. La religione - proprio perché contenitore di diversità - potrebbe essere motivo di nuovi scontri.