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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

Che la Striscia di Gaza sia una grande prigione a cielo aperto è una cosa ormai assodata, come è risaputo che in un’area di 360 kmq vive una popolazione di un milione e quattrocentomila palestinesi e che, dall’inizio della seconda Intifada, l’Intifada di al-Aqsa, i bulldozer israeliani hanno raso al suolo tremila case, rendendone inagibili altre quattromila. Purtroppo è altrettanto vero che negli ultimi sette anni sono morti più di tremila palestinesi - 500 dei quali bambini - e che la vita lungo la Striscia è diventata insopportabilmente pericolosa. Questi sono numeri, solo numeri che descrivono una tragedia che ormai sembra non avere più fine e che sembra essere entrata nella quotidianità. Numeri che considerati come fenomeno statistico dovrebbero essere meglio compresi da chi è indifferente a questa catastrofe umanitaria e vuole giustificate una strage come il risultato di uno scontro politico-religioso, una guerra tra fazioni, la lotta all’estremismo palestinese o quella al terrorismo jihadista. Per coloro che includono queste morti nella categoria dei “danni collaterali” è comunque insignificante che gran parte dei tremila morti non ha mai avuto una militanza politica, ne guerrigliera, ne è ha mai svolto un ruolo attivo nell’intifada. Le cifre, pubblicate dal centro per i diritti umani al-Mezan di Gaza City, prendono in considerazione il periodo che va da quel fatidico 28 settembre 2000, giorno in cui l’allora leader dell’opposizione israeliana Ariel Sharon varcò la soglia della Moschea al-Aqsa di Gerusalemme, ad oggi. Da molti palestinesi quel gesto “politico” venne considerato come un atto di provocazione ed i più oltranzisti diedero inizio ad una sanguinosa rivolta, cadendo così nella trappola della ritorsione. Questa fu però anche la risposta esasperata di coloro che avevano visto tradire le loro aspettative di autonomia nazionale, motivo del voto espresso nel 1996 e che aveva visto la schiacciante vittoria di Fatah. Le promesse elettorali parlavano del ritiro delle truppe israeliane entro la fine del 1999, smantellamento di tutti gli insediamenti coloniali dai territori occupati e creazione dello Stato Palestinese. Aspettative che risalivano al 1948, anno in cui le Nazioni Unite definivano i confini della Palestina seguendo la linea dell'armistizio stabilita dopo la guerra tra Egitto e Israele. Speranze che si erano riaccese con gli accordi israelo-palestinesi di Oslo del 1993 che posero la Striscia sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e che continuarono anche dopo il lancio della “Road Map”, il piano dell'amministrazione Bush concordato con Russia, Ue e ONU approvato a Madrid il 10 aprile 2002 e che avrebbe dovuto porre fine al conflitto israelo-palestinese attraverso un accordo basato sulle risoluzioni ONU 242, 338 e 1397.

Con la seconda Intifada è arrivato un notevole incremento delle attività terroristiche: attacchi contro l’esercito di Tel Aviv, incursioni in territorio israeliano e lanci di razzi katiusha, una strategia che oltre a colpire la popolazione ebraica ha fortemente destabilizzare il ruolo del governo di Fatah. Per paura di perdere il controllo della situazione ed impedire che la rivolta dilagasse in Cisgiordania, le Forze di Difesa Israeliane hanno scatenato una violenta repressione e hanno messo definitivamente in ginocchio le speranze di pace, senza però soffocare la ribellione. In una Gaza imbrigliata dalla spirale della corruzione, devastata dai bombardamenti e sotto la costante minaccia di una guerra civile, Fatah ha iniziato progressivamente a perdere consensi.

Al fallimento del movimento laico, che aveva ormai perso il controllo delle piazze, è seguita la crescita di Hamas che, al contrario, ha saputo raccogliere le grida di disperazione di un popolo spossato dalla violenza e tradito da ogni accordo di pace. Nelle elezioni politiche del gennaio 2006 il movimento islamico, iscritto da Stati Uniti e Unione Europea nella lista nera dei movimenti terroristici per i suoi legami con le cellule estremiste, ha ottenuto una straripante vittoria e la sconfitta di Fatah ha determinato l’isolamento politico dell’Autorità Palesatine.

Il presidente Mahmoud Abbas, unico interlocutore riconosciuto dalla comunità internazionale e da Israele, non ha però rinunciato al suo ruolo. In suo soccorso è arrivato l’occidente che ha dato vita ad un embargo totale sulla Palestina, rinforzando di fatto la posizione di Fatah. Questo “errore” politico ha inasprito ancora di più i rapporti tra le due fazioni e, nell’arco di pochi mesi, si è arrivati agli scontri di Gaza: una guerra senza quartiere per il controllo territoriale della Striscia. Nello spazio di poche settimane Hamas ha riaffermato sul campo la sua superiorità politico-militare e, nel giugno scorso, ha sbaragliato le fila dei sostenitori di Abbas che, ormai alle corde, ha deciso di sfiduciare il premier Ismail Haniyeh e ha nominato un nuovo primo ministro, Salaam Fayyad. Un vero colpo di mano che ha portato alla creazione di due governi: uno legittimamente eletto dal popolo palestinese che controlla la Striscia di Gaza e uno stabilito dall’Autorità Palestinese, che mantiene il potere in virtù dell’appoggio della comunità internazionale e il placet di Israele.

Haniyeh, che la settimana scorsa ha rilanciato una proposta di dialogo con Fatah e si è reso disponibile a cedere sul controllo della Striscia di Gaza (eccezion fatta per la questione sicurezza), è convinto che la Palestina sta attraversando un momento di grande tumulto politico che vede di fronte due diverse dottrine: la prima che fonda i suoi ideali sull’inalienabilità dei diritti dei palestinesi; la seconda che rinuncia a questi principi in cambio di promesse e di illusioni che di fatto svendono i sogni di un popolo. E il fatto che gli Stati Uniti stiano sostenendo un processo di pace dove non viene preso in considerazione il peso politico di Hamas è un’ulteriore conferma dello stato delle cose. Il segretario di Stato Americano, Condoleezza Rice, sta cercando di appianare le divergenze sulle questioni che saranno in agenda nella prossima conferenza di Annapolis dove Olmert e Abbas cercheranno ancora una volta di raggiungere un accordo sul futuro dei due Stati. Il dialogo fra Hamas e Fatah rischia però di far saltare il vertice proprio perché Israele non accetta di trattare con chi ha relazioni con il movimento islamico e proprio per questo sarà difficile che, almeno per il momento, l’Autorità Palestinese apra un tavolo di trattative con Hamas.

A questo punto ad Haniyeh non resta altro che stare alla finestra; le questioni in ballo sono molteplici e per Abbas non sarà certo facile gestire alcuni punti fondamentali dell’accordo senza svendere la questione palestinese e scatenare l’ira dei profughi. La spartizione di Gerusalemme, i territori occupati, gli insediamenti, i confini del futuro Stato Palestinese, la sovranità, la sicurezza, sono tutti nodi che dopo anni di negoziati potrebbero trovare una qualche soluzione che accontenti entrambe le parti. I problemi più spinosi però rimangono aperti: lo stato giuridico dei profughi e il “diritto al ritorno”, una questione fondamentale alla quale nessun palestinese rinuncerebbe; il “riconoscimento” di Israele come patria degli ebrei, un riconoscimento che Hamas considera come una resa e che condanna i palestinesi fuggiti in Giordania, Siria e Libano allo status di “rifugiati”. Tutte questioni che non determineranno solo i rapporti tra palestinesi e israeliani ma che saranno di fondamentale importanza per la sorte di centinaia di migliaia di palestinesi che sono condannati a vivere e morire lungo la Striscia di Gaza.