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Categoria: Esteri
di Alessandro Iacuelli

Secondo il New York Times, il raid aereo israeliano in Siria dello scorso 6 settembre era diretto alla distruzione di un impianto di tipo nucleare in costruzione; il quotidiano d’oltreoceano ha pubblicato un ampio e dettagliato articolo sull'argomento, che in Italia non è stato ripreso. L'impianto distrutto, sempre secondo il quotidiano statunitense, richiedeva ancora diversi anni di lavoro per il suo completamento ed era probabilmente basato sul modello di una analoga struttura creata in Corea del Nord per creare combustibile nucleare. Secondo la ricostruzione fatta dal giornale, sarebbe stato lo stesso Israele ad informare, alcuni mesi fa, i servizi segreti americani dell'esistenza di un impianto in costruzione in Siria: gli Stati Uniti, tramite i satelliti spia, avrebbero trovato poi conferma di quanto stava accadendo, dando così il via a un dibattito interno nell’ Amministrazione Bush su un'eventuale risposta. L'intelligence israeliana ritiene che la Corea del Nord, che in passato ha fornito tecnologia missilistica alla Siria, negli ultimi mesi abbia iniziato a fornire anche materiale nucleare. Stando sempre al New York Times, il vicepresidente Dick Cheney sarebbe stato favorevole fin dal principio a dare ad Israele il via libera per un attacco aereo preventivo. Ma la fazione dei moderati, comprendente il segretario di stato Condoleezza Rice e il ministro della difesa Robert Gates, era invece per un atteggiamento più prudente. Si deve ricordare che all'indomani dell’operazione, il primo ministro Ehud Olmert aveva imposto il blackout mediatico sul raid aereo, il più audace della sua aviazione da quando i suoi jet distrussero un reattore nucleare in Iraq nel 1981.

Il governo israeliano non ha voluto rilasciare commenti in merito, e alla stampa israeliana è stato proibito di scrivere qualunque cosa sull’argomento. Interrogato sul raid da giornalisti stranieri, il primo ministro Olmert si è sempre rifiutato di fornire dettagli, rilasciando dichiarazioni come "I servizi di sicurezza e le Forze di difesa israeliane stanno dimostrando un coraggio non comune. Naturalmente noi non possiamo mostrare sempre le nostre carte in pubblico". Alcuni alti funzionari, più loquaci, si sono detti "orgogliosi" dell’operazione, che avrebbe restaurato la "deterrenza militare" nella regione.

Qualche indiscrezione è però trapelata, rigorosamente su testate straniere. Secondo la maggior parte di queste, otto bombardieri F-15 sono entrati nello spazio aereo siriano nelle prime ore del 6 settembre. Hanno eluso con successo i radar e le difese aeree siriane e hanno attaccato l'impianto sul fiume Eufrate nel nord della Siria, distruggendolo completamente. Abbandonando la Siria, i velivoli israeliani hanno scaricato in volo il loro carburante in eccesso sulla Turchia.

Anche gli Stati Uniti, come Israele, a distanza di un mese dal raid non hanno voluto fornire alcun dettaglio sull'operazione, preferendo mantenere il massimo riserbo. Appena domenica scorsa, Condoleezza Rice si è rifiutata di confermare o smentire la ricostruzione del New York Times.

Al di là dell'aspetto militare, restano però alcune incognite che andrebbero definite al più presto, domande importanti per quali la comunità internazionale dovrebbe pretendere delle risposte: per quale motivo si cerca di mantenere disinformata la comunità internazionale? Nell'impianto siriano era già presente materiale radioattivo? Se sì, di che entità è la dispersione di materiale nucleare nell'ambiente? Quante tonnellate di materiale inquinante, nello specifico si tratterebbe di carburante, è stato scaricato sulle coste della Turchia senza che questa fosse avvisata? Per quale motivo è stato imposto il black out alla stampa israeliana? Forse neanche i cittadini di Israele dovevano sapere cosa è accaduto? Per quale motivo il governo siriano tace sull'accaduto, e non ha denunciato a livello internazionale di essere stato attaccato sul proprio territorio?

Interrogativi aperti, che ancora una volta pongono un forte problema di diritto internazionale: quello dei "due pesi e due misure" applicati di volta in volta a seconda di chi sono gli Stati che effettuano aggressioni armate oltre i loro confini.