Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

“La restaurazione della monarchia, che viene chiamata controrivoluzione, non sarà una rivoluzione contraria, ma il contrario della rivoluzione “. Lo scriveva nel 1797 Giuseppe de Maistre, filosofo al servizio della Casa sabauda il quale partecipò agli sconvolgimenti politici che diedero vita alla Rivoluzione francese del 1789 e che poi divenne radicalmente ostile al pensiero giacobino di Robespierre e Saint-Just Sciacca. La repressione parigina e il terrore instaurato dal Comitato di salute pubblica che seguì la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino e che governò la Francia fino al 1794, terminò qualche anno dopo con gli scontri di potere tra i sostenitori di Robespierre, i Sanculotti e i Montagnardi, lasciando così spazio alla nascita del Direttorio e al successivo avvento di Napoleone."La Rivoluzione divora i suoi padri": una frase che circolava in Francia alla fine del XVIII secolo; forze un fatto oggettivo, forse una frase pronunciata da chi sperava di rovesciare un regime per istaurarne un altro o forse l’idea di giustizia di chi aveva capito che non sempre le grandi ideologie si trasformano in diritto alla libertà e alla democrazia. La Rivoluzione iraniana del 1979 ha trasformato la millenaria monarchia persiana in una Repubblica Islamica, la prima dell’era moderna; un fenomeno culturale che sostituisce ideologia marxista dell’Islam rosso con l’ideologia religiosa dell’Islam nero, che schiaccia il potere filo-occidentale e che da voce agli oppressi (mostazafin) contro gli oppressori (mostakbarin). Frutto del dissenso espresso dal Fronte nazionale di Mossadeq e dal partito comunista filo-sovietico del Tedeh, della guerriglia dei gruppi rivoluzionari Fedayn-e Khalq e Mujaheddin-e Khalq e dell’accanita lotta politica portata avanti dall’ayatollah Khomeini in favore dei mullah, la Rivoluzione iraniana è un’esperienza che dura ormai da quasi un trentennio. Oggi l’Iran vede di fronte la legittimazione popolare al ruolo predominante del clero, il laicismo degli organi Costituzionali alla secolare tradizione religiosa, elemento fortemente dominante che nel contesto di un paese secolarmente islamico ha portato ad una inevitabile alterazione degli equilibri interni, plasmandone lo sviluppo socio-culturale.

In Iran la metà della popolazione non ha ancora raggiunto i 30 anni e la scolarizzazione raggiunge percentuali invidiabili. L’università rappresenta un punto di aggregazione socio-culturale fondamentale ed è quindi naturale che al suo interno si sviluppino nuove correnti di pensiero, movimenti intellettuali che reclamano un’azione riformista del governo e che chiedono la cesura con l’esperienza rivoluzionaria, rivendicazioni che vengono soffocate dalla componente religiosa e dal ruolo antioccidentale che interpreta il Paese. La nascita di questo tumultuoso movimento studentesco prosegue di fatto l’esperienza tentata alla fine degli anni ’90 e reclama il diritto di partecipare alla vita politica, la libertà di pensiero e di espressione, l’emancipazione e il pluralismo, denunciando al tempo stesso la repressione e la negazione delle più elementari regole della democrazia. Richieste che si scontrano con la logica nazionalista del regime di Mahmoud Ahmadinejad - che punta a trasformare l’Iran in una potenza regionale egemone - e con le regole dettate dalla massima autorità religiosa del Paese, l’ayatollah e Guida Suprema Ali Khamenei, che cerca di mantenere il monopolio del sapere ascritto ai mullah.

Le dichiarazioni del presidente Mahmoud Ahmadinejad, rilasciate il 24 settembre scorso alla Columbia University, hanno stimolato la risposta dell’associazione “Tahkim Vahdat”, la maggiore organizzazione riformista studentesca iraniana che alcuni giorni dopo ha pubblicato una lettera aperta indirizzata allo stesso Capo dello Stato, classificando il suo discorso sconsiderato e un costo politico per la nazione, destinato ad essere pagato a caro prezzo. Mentre nel manifesto il Tahkim Vahdat si chiedeva come mai il presidente avesse voluto toccare ancora una volta l’argomento dell’Olocausto, a Teheran la prima pagina del Kayhan, il principale giornale di regine, esaltava le dichiarazioni del leader come la celebrazione di una vittoria. La critica degli studenti ha raggiunto il suo apice durante la cerimonia d'inaugurazione dell'anno accademico svoltasi pressi il campus dell'università di Teheran. Centinaia di manifestanti si sono assiepati fuori dall’ateneo e hanno inscenato in una violenta contestazione che è però stata soffocata dalla contromanifestazione organizzata dai volontari delle milizie islamiche, i Basiji, e dall’intervento delle Forze dell’ordine che hanno disperso i dimostranti.

Fondamentalmente gli studenti del Tahkim Vahdat chiedono di partecipare ad un faccia a faccia con il presidente Ahmadinejad per poter porre domande circa i loro diritti; chiedono il rilascio dei loro colleghi in carcere per motivi ideologici (70 giovani attivisti); il ritorno di alcuni docenti allontanati dagli atenei negli ultimi anni; la riapertura delle oltre 44 organizzazioni culturali studentesche chiuse dai comitati disciplinari universitari e la reintegrazione degli studenti espulsi dai corsi regolari, privati della possibilità di istruzione perché ritenuti reazionari e sovversivi. I ragazzi della Tahkim Vahdat si chiedono come mai nel Paese “più libero del mondo”, secondo quanto affermato da Ahmadinejad ai circa 700 studenti e professori che erano riuniti nella Lerner Hall della Columbia University, i docenti universitari di orientamento liberale vengono mandati in pensione d’autorità o vengono sospesi dall’insegnamento. Al Tahkim Vahdat si aggiungono poi i movimenti che lottano in difesa dei diritti delle donne, organizzazioni che stanno subendo un durissimo attacco da parte del regime e che negli ultimi mesi hanno sofferto l’arresto di 33 attiviste, sei delle quali sono state condannate a pene che vanno dai due ai quattro anni.

I voti raccolti dall’organizzazione Tahkim Vahdat, che il 9 luglio 1999 subì una durissima repressione, sono stati determinanti nella doppia elezione del presidente Mohammad Khatami, il leader pluralista che aveva basato il suo programma sulla riforma del sistema sociale e sulla definitiva chiusura con l’esperienza rivoluzionaria. Tutte aspettative deluse dalla ferrea opposizione dei conservatori che hanno invece favorito l’ascesa di Ahmadinejad, ex sindaco di Teheran appoggiato dal partito dei pasdaran e dai restauratori della rivoluzione tradita, i mostazafin. Oggi un dibattito pubblico dove scrittori, politici e attivisti si interrogano apertamente sulla legittimità delle decisioni prese dal Leader Supremo o sulla riforma costituzionale, non è neanche immaginabile. Il controllo del governo sui media non dà spazio ai problemi del Paese, alle difficoltà che attraversano larghi strati della popolazione, allo stato di trascuratezza in cui vengono lasciate le strutture pubbliche, al caos burocratico, al razionamento dei carburanti imposto nel giugno scorso e alle numerose impiccagioni che corro al ritmo di quasi una al giorno.

L’opposizione comunque non si ferma e le proteste inscenate dagli studenti del Tahkim Vahdat all’università di Teheran sono solo la punta dell’iceberg. Il regime clerico-militare generato dalla rivoluzione iraniana potrebbe vivere una nuova fase di grandi mutamenti che riprenderebbero quel filo conduttore che aveva ispirato Ali Shariati, uno dei più grandi leader filosofici della pre-rivoluzione iraniana che cercò modernizzare la concezione dello sciismo cercando di metterlo al servizio al poveri e degli oppressi, in un islam senza chierici e scevro dalle antiche quelle antiche regole religiose che avevano trasformato l’Iran in un monolite sciavo delle sue stesse superstizioni. Un pensiero maturato negli anni Settanta ma che ancora oggi rimane attuale.