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Categoria: Esteri
di mazzetta

Continua a peggiorare la situazione in Somalia, dove la violenza ha raggiunto livelli che non si vedevano da oltre dieci anni. Le truppe etiopi d’invasione e le bande dei signori della guerra ai quali è stato affidato il governo-fantoccio su indicazione del Dipartimento di Stato americano, hanno gettato nel caos il paese: Mogadiscio è un campo di battaglia e i suoi abitanti fuggono a centinaia di migliaia. Oltre quaranta organizzazioni umanitarie hanno redatto un appello, denunciando l’imminente pericolo di vita per oltre trecentomila persone; un po’ meno di quante ne sono morte nella tragedia del Darfur. Mentre la capitale somala è ridotta ad un campo di battaglia, sono scoppiati scontri anche tra le regioni semi-autonome del Puntland e Somaliland, lasciando ai somali ben poche aree del paese nelle quali rifugiarsi per sfuggire alla guerra. Il Governo Federale Transitorio, o chi per lui, rifiuta di distribuire il cibo nei campi-profughi, sostenendo che donne e bambini sono “terroristi”. Nell’ultima settimana è anche stato arrestato e detenuto per alcuni giorni il responsabile del Programma Alimentare Mondiale (PAM), accusato dalla banda governativa di sostenere i “terroristi islamici”: arrestato e detenuto senza che gli fosse contestata alcuna accusa. Continuano inoltre gli omicidi dei giornalisti, l’ultimo ha riguardato il capo di Shabelle Network e il numero di profughi in fuga da Mogadiscio ha superato la cifra di seicentomila (su un milione di abitanti), ma la Somalia sembra essere stata inghiottita da un buco nero informativo. Le uniche notizie che ogni tanto appaiono sulla stampa italiana riguardano i “pirati” somali o qualche lancio su un attentato degli “islamici”. Il 29 ottobre si è dimesso il primo ministro Ali Mohamed Gedi, si sentiva troppo contestato e ha deciso di dimettersi “per il bene del popolo somalo”; nessun media italiano se ne è accorto.

Tutto molto inadeguato, visto che dallo scoppio della “Guerra di Natale”, quando l’esercito etiope invase la Somalia imponendo una governo che non ha alcun sostegno popolare, ma quello fondamentale di ONU e Stati Uniti, in Somalia è andato tutto di male in peggio. Le truppe etiopi si trovano oggi impantanate non diversamente da quelle americane in Iraq e il contingente di peacekeeper ONU non si è mai costituito nella sua interezza, visto che può contare solo su un migliaio di soldati ugandesi e che nessun paese africano è corso in aiuto degli etiopi. Etiopi che godono ora del totale risentimento di tutta la popolazione somala. Bush e Rice non hanno avuto una grande idea nell’incaricare dell’invasione il nemico storico della Somalia, ancora meno aveva avuto una gran idea l’etiope Zenawi affermando che l’invasione era motivata dal timore di “una invasione somala dell’Etiopia”. La solita guerra preventiva, dove l’elefante attacca la formica dicendosi minacciato.

Finale tragico abbastanza scontato: visto che l’Unione Africana aveva condannato l’invasione etiope, era difficile immaginare che ci fosse la fila di paesi desiderosi di inviare le proprie truppe ad assistere alla prevedibile mattanza tra etiopi e somali. Come in Iraq il bollino ONU non è bastato a dare autorevolezza ad un governo somalo che non rappresenta nessuno, che non è stato eletto da nessuno e che vive solo grazie al sostegno militare dell’Etiopia e a quello politico-economico degli USA. La sostituzione di Ghedi dovrebbe essere approvata dal “parlamento” somalo (mai eletto), che però al momento è disperso, visto che più della metà dei suoi membri sono considerati “nemici” dal governo e dall’Etiopia. Abdullahi Yusuf Ahmed, il presidente somalo, è impegnato dalla crisi che vede il suo Puntland spararsi con il Somaliland. Alla fine il premier somalo lo sceglieranno gli etiopi, all’interno dello stesso clan di Ghedi, un “boss”, uno che sappia comandare, diverso dall’impacciato Ghedi; il nuovo premier sarà sicuramente accolto con calore dai somali.

Colpisce che mentre per i fatti in Birmania si è mobilitata l’infosfera globalizzata, per le stragi della dittatura etiope, in Somalia come nella regione “ribelle” dell’Ogaden, come ad Adis Abeba contro gli oppositori, non si muova nessuno. Non uno dei tanti campioni dei diritti umani, non un solo media tra quelli che mettono all’attenzione dei propri consumatori le sofferenze dei popoli del Darfur o della Birmania, fino a quelli che accusano paesi come l’Iran di essere “stati canaglia”, spende una parola contro la sanguinaria dittatura di Meles Zenawi o per la sorte di centinaia di migliaia di somali morenti.

Un fenomeno che sarebbe strano se non fosse addirittura scontato, quanto rivelatore di una realtà che vede ormai il prodotto-informazione assolutamente omologato e prono alle direttive dei consigli d’amministrazione dei grandi network globalizzati, i quali non hanno alcun interesse a disturbare le politiche occidentali, ancora meno per correre in aiuto di paesi poveri e lontani. Paesi dove vivono popoli ai quali da tempo immemore è negata l’opportunità di far arrivare le proprie sofferenze all’attenzione delle opinioni pubbliche dei paesi occidentali.