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Categoria: Esteri
di Agnese Licata

Nehru e Gandhi, i due grandi padri dell’India, avevano sempre avuto idee molto diverse su quale sarebbe dovuto essere il futuro di una nazione che oggi è abitata da oltre un miliardo di persone. Il primo, favorevole allo sviluppo industriale e a un progresso di stampo occidentale. Il secondo, la “grande anima” non-violenta, sostenitore dell’importanza di dare forza e centralità alla società rurale, come unica via per garantire la convivenza tra le mille etnie che da secoli abitano la penisola indiana. Lo scontro tra queste due ideologie non si è certo risolto con l’uccisione dei suoi leader. Anzi, giorno dopo giorno, nonostante tassi di crescita imponenti che potrebbero far pensare a un assoluto successo del modello occidentale, più di un Paese asiatico si trova oggi di fronte a disuguaglianze sociali enormi che condannano alla povertà chi vive nelle campagne. A dimostrare che i nodi stanno arrivando al pettine e che bisognerebbe ripensare il sistema, ci sono le manifestazioni di contadini e povera gente, sempre più diffuse e sempre meno facili da nascondere. Pochi giorni fa, mentre l’attenzione dei media era catturata dal piccolo genio d’origine indiana che impara una lingua l’anno, 25mila contadini senza terra e dalit “intoccabili” (l’ultimo scalino del sistema a caste indiano) sono arrivati a New Delhi, decisi a non tornare nei propri villaggi senza aver prima avuto risposte concrete dal Parlamento. Una marcia lunga quasi un mese e trecento chilometri per chiedere al, jangal, jameen, ossia acqua, foreste e terra. L’essenziale per sopravvivere, niente di più. P.V. Rajagopal, principale organizzatore della Marcia, ha denunciato le centinaia di migliaia di acri espropriate per industrie, miniere, dighe. “Negli ultimi anni di liberalizzazione economica – ha dichiarato – il programma per la distribuzione della terra a favore dei landless è stato dimenticato”. Il governo guidato da Manmohan Singh, dopo una campagna elettorale puntata sul dare un “volto umano alla liberalizzazione”, ha creato delle zone economiche speciali che hanno finito per avvantaggiare i più ricchi a danno dei contadini. Una tendenza che dura dal 1947, anno dell’indipendenza. Da allora ad oggi, venti milioni di persone sarebbero diventati “rifugiati nazionali”, senza un posto dove vivere dignitosamente, privi anche di quel poco che l’agricoltura di sussistenza poteva dare loro. Per molti, l’ultima possibilità è quella di spostarsi nelle città, finendo spesso nelle baraccopoli di periferia e senza alcuna speranza.

Una situazione insostenibile, spesso aggravata dalle dure repressioni. Il 14 marzo scorso, le forze di polizia hanno fatto irruzione nel villaggio di Nandigram causando almeno quattordici morti e duecento feriti. Nandigram si trova nel Bengala Occidentale, lo Stato indiano al quale si deve il 4 per cento dell’intera produzione nazionale di derivati dal petrolio. Ma di fronte all’ennesima espropriazione terriera a favore dell’industria, i molti hanno deciso di opporre resistenza. Alla fine, l’indignazione per il sangue versato ha costretto le autorità ad archiviare tutto, facendo marcia indietro sul progetto di un nuovo petrolchimico che avrebbe occupato nove mila ettari di campi.

Una situazione, questa, ben lontana dall’essere confinata all’Unione indiana. Anche in Cina – la nazione con cui New Delhi gareggia a colpi di tassi di crescita vicini o superiori al dieci per cento annui – la distanza tra i pochi privilegiati e i milioni di poveri non fa che aumentare. Nelle campagne cinesi vive ancora oggi la maggior parte della popolazione, circa il 60 per cento, ossia 1,3 miliardi di persone. Eppure, il contributo dell’agricoltura al Pil nazionale continua a diminuire. Se all’inizio degli anni Novanta rappresentava un quarto dell’intero, oggi vale il 12 per cento. Diminuiscono anche gli investimenti governativi, mentre una particolare tassazione favorisce le regioni più ricche, ossia quelle dove prevale (ancora una volta) la produzione industriale. E se il 40 per cento dei villaggi non ha accesso all’acqua corrente, a poco vale che il reddito pro capite nelle campagne aumenti del 6 per cento l’anno. In più, la corruzione delle autorità locali, un sistema sanitario non gratuito, hanno portato a crescenti proteste, spesso represse con la forza. È il caso delle ribellioni contro la costruzione della faraonica diga delle “Tre gole”, che ha portato l’allagamento di tantissimi campi e villaggi, oltre a causare una situazione sanitaria difficile.

Di fronte a tutto questo, il recente Congresso del partito comunista cinese nulla ha voluto decidere, preferendo discutere di questioni di partito. Significativo il fatto che i due delfini di Hu Jintao, tra cui si sceglierà la successione nel 2012, non abbiano idee diverse da quelle dell’attuale presidente. Tutti pronti a seguire la via già tracciata da Hu: uno “sviluppo scientifico” che a parole dice di voler ridurre disparità e corruzione, ma che nei fatti poco ha realizzato. Salvo che non si voglia considerare un successo la riforma del sistema sanitario che nel 2003 ha introdotto un’assicurazione anche per i contadini. Di comunismo, negli ospedali cinesi, c’è n’è davvero ben poco. Tutto è privato, a pagamento. E anche la nuova assicurazione, con costi non indifferenti per i guadagni di chi vive lontano dalle ricche zone industrializzate, non è in grado di coprire neanche le operazioni più semplici.

Su tutto dovrebbero riflettere e discutere sia le autorità cinesi e indiane, sia le organizzazioni internazionali. Ripensando l’eccessiva fede riposta in un modello capitalistico che fa del Prodotto interno lordo l’unico parametro per definire il progresso. Valutando sistemi diversi, all’interno del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, per aiutare le nazioni a coniugare sviluppo economico e sostenibilità sociale. Come, del resto, da anni propone il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz. Forse, basterebbe cercare un punto d’incontro tra Nehru e Gandhi.