Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali


A cinque anni dal rapporto delle Nazioni Unite sullo stato dei diritti umani in Uzbekistan, Human Right Watch pubblica una nuova relazione con la quale denuncia l’uso sistematico della tortura fisica e psicologica utilizzata dalle forze di sicurezza uzbeke. La pratica delle sevizie e dei maltrattamenti ricorda i sistemi usati dal Kgb ai tempi dell’Unione Sovietica e, nonostante i numerosi appelli lanciati dalle organizzazioni e dei comitati per i diritti umani, il governo di Tashkent non sembra intenzionato a prendere alcun provvedimento per fermare questa infame barbarie. Al contrario, mentre gli organi ufficiali si affannano a convincere la comunità internazionale e l’opinione pubblica che nel Paese il processo di trasformazioni è ormai avviato, le autorità si stanno adoperando per impedire che le informazioni difformi dalla versione ufficiale vengano rese note all’esterno. In realtà, dopo alcuni anni di dibattito, in Uzbekistan le riforme nel campo delle giustizia registrano alcuni passi avanti: leggi a tutela della libertà personale, contro la detenzione arbitraria (habeas corpus) e per l’abolizione della pena capitale, approvata lo scorso giugno dal Senato e sostituita con l’ergastolo. Al contrario, la polizia continua a ricorrere in modo sistematico alla coercizione fisica e psicologica per estorcere informazioni e confessioni; un fenomeno significativo che coinvolgerebbe gli organi di sicurezza e che verrebbe ignorato dall’intero sistema giudiziario e la cui denuncia verrebbero insabbiata dal governo e dagli organi di informazione ufficiale.
Il rapporto pubblicato da Human Rigth Watch si basa sugli eventi accaduti negli ultimi due anni e documenta come la tortura sia parte di un prospetto ben più ambio di abusi, che iniziano dal momento del fermo di polizia e proseguono anche dopo il verdetto del tribunale; manipolazioni mentali e violenze fisiche di ogni genere che mirano ad estorcere confessioni e testimonianze. Stati di carcerazione al limite della sopportazione, pressioni psicologiche e minacce contro le stesse famiglie dei detenuti che finiscono per firmare qualsiasi cosa pur di mettere fine a questo incubo.

Oltre ai pestaggi fatti con l’uso di manganelli e di bottiglie piene d’acqua, l’organizzazione umanitaria denuncia l’impiego di scosse con la corrente elettrica, asfissia per mezzo di sacchetti di plastica o maschere anti-gas, umiliazioni sessuali e minacce fisiche ai parenti più prossimi. Gli arresti colpiscono soprattutto i movimenti cristiani di matrice protestante ed evangelica (testimoni di Geova, cristiano pentecostali, cristiani battisti) che rappresentano una esigua minoranza e che secondo le autorità sono colpevoli di professare un “estremismo” religioso con il possesso di libretti del Vangelo o riunioni legate ad eventi quali compleanni o riunioni di preghiera.

Ufficialmente, il governo uzbeko nega che nel Paese venga perpetrata alcuna forma di persecuzione nei confronti delle minoranze religiose, ma in realtà mantiene lo stretto controllo su tutta la letteratura religiosa e lascia che si moltiplichino i casi in cui i credenti subiscono arresti e multe anche per il semplice possesso di “materiale religioso” o per “riunioni non autorizzate”. Nel suo report Human Right Watch denuncia l’aumento del numero di processi che si svolgono a porte chiuse e di restrizioni a carico degli organi di stampa indipendente, ai quali non è permesso attingere informazioni riguardanti le attività svolte dagli inquirenti durante la fase investigativa e di indagare in relazione alle denuncie relative a maltrattamenti o torture.

Il rapporto si conclude con un appello al governo guidato da Shavkat Mirziyoyev perché autorizzi la creazione di una commissione indipendente che possa portare avanti un’inchiesta credibile ed indipendente sui fatti accaduti il 13 maggio 2005, ad Andizhan, quando le forze di sicurezza aprirono il fuoco in maniera indiscriminata contro i dimostranti che partecipavano ad una manifestazione pacifica indetta per protestare contro la repressione e la stato di povertà in cui si trova il Paese. Secondo Amnesty International, il regime continua ad usare il massacro come un alibi per reprimere la libertà di espressione in nome della sicurezza nazionale e della guerra al terrorismo.

In seguito ai fatti del 2005, l’autorità giudiziaria ha emesso diversi verdetti di condanna che in molti casi hanno colpito personaggi di rilievo della società e della cultura uzbeka, persone che hanno cercato di raccontare i fatti e la verità sulla drammatica situazione in cui versa il Paese e che non si limitano alla sola repressione del diritto di coscienza ma che riguardano lo sfruttamento dei lavoratori e l’utilizzo di manodopera minorile nella coltivazione del cotone. Secondo un’inchiesta della BBC, nonostante il divieto della legge quasi mezzo milione di bambini viene strappato alla scuola e viene impiegato nei campi per la raccolta del prezioso “oro bianco”, lo stesso cotone che viene poi utilizzato dalle aziende europee per la produzione dei capi di abbigliamento.

Piccoli schiavi di otto, nove, dieci anni che vengono caricati sugli autobus e portati nelle piantagioni del Stato dove rimangono per tutto il periodo del raccolto. Per qualche chilo di cotone al giorno ricevono un salario di pochi centesimi e molte volte si ammalano per la fatica e per le condizioni di lavoro a cui sono sottoposti; costretti alle intemperie, a dormire ammassati in fredde camerate, a non lavarsi e a bere l’acqua delle pozzanghere muoiono di polmonite o di infezione intestinale. Un prezzo di sangue pagato dagli innocenti in nome delle quote di produzione e per ingrassare le casse del regime di Islam Karimov.