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Categoria: Esteri
di Elena Ferrara

Le agenzie turistiche lo reclamizzano come “terra di folklore”, “Svizzera indiana”, paese di “esotica bellezza”, “paradiso per gli stilisti”, mondo ideale per “sfuggire alla frenesia e al trambusto della vita di città e dove la vita scorre al ritmo di una scena al rallentatore”. Sarà anche vero, ma la realtà del Nagaland (uno dei sette stati dell’India con due milioni di abitanti e un territorio di 17mila chilometri quadrati a cavallo tra le foreste birmane e gli attuali Stati indiani dell’Assam, dell’Arunachal Pradesh e di Manipur) è anche un’altra. Perchè le notizie che arrivano dalla capitale Kohima rivelano che il paese è una “Restricted area” dove si accede solo con un lasciapassare del ministero degli Interni di Delhi. E questo non per le antiche storie che ricordano che qui, un tempo, abitavano feroci guerrieri noti come “cacciatori di teste”. Ma per il fatto che il Nagaland dal 1956 rivendica l’indipendenza con un movimento separatista di grande portata. Al governo centrale indiano si chiede, infatti, che vengano ridisegnati i confini in modo da inglobare i vicini stati di Manipur, Assam (il terzo stato per produzione di greggio) e Arunachal Pradesh. I quali, però si oppongono fortemente a questo eventuale tipo di annessione. Perciò il movimento per l’autonomia è sceso in campo anche con formazioni armate, che dal 1988 sono divise in due schieramenti. Si verificano continui e spesso violenti scontri tra la fazione del leader Khaplang (quella che ha sferrato attacchi contro l’esercito e gli edifici pubblici indiani) e quella del suo rivale Muivah, protetto da Pechino e noto per essere stato in Cina per oltre quattro anni ed aver compiuto, negli anni della guerra vietnamita, un giro nel Vietnam per acquisire un’esperienza diretta della guerra partigiana. A Delhi, quindi – ormai fin dal giugno 1997 - non resta che prendere tempo e tentare di sviluppare una politica di negoziati che si sviluppa con una fortissima tensione politica e, ovviamente, militare.

La situazione si aggrava particolarmente con il Nagaland, che alza il tiro mentre si susseguono avvenimenti non facilmente decifrabili. In pratica c’è una sorta di dichiarazione di guerra strisciante nei confronti della grande India. Con i separatisti che ricattano Nuova Delhi gettando sul terreno della contestazione la questione del petrolio. “Fino a quando il governo centrale - dicono gli esponenti della rivolta - non avrà riconosciuto il Nagaland come una nazione autonoma e non avrà accettato che quanto sta nel nostro sottosuolo appartiene a noi, non consentiremo a nessuna compagnia indiana di esplorare ed estrarre risorse naturali”. E così è guerra, per bloccare l’estrazione petrolifera nel nord-est e dettare nuove condizioni in contrasto con quelle ritenute inaccettabili presentate dal governo federale.

Vengono avanti formazioni di rivoluzionari, filomaoisti, filomarxisti e autonomisti pronti a tutto. Alla testa del movimento anti-Delhi c’è, in particolare, il Consiglio nazionalista socialista del Nagaland che è il braccio politico dei separatisti che in tempi recenti ha avanzato richieste di soldi, offrendo in cambio di permettere alcune operazioni estrattive all’Oil National Gas Corporation, la compagnia statale petrolifera. Continua, quindi, il braccio di ferro con le autorità centrali.

C’è stato, è vero, un tentativo di distensione con la proclamazione unilaterale - da parte del Nagaland - di un cessate il fuoco, ma tutto questo non ha ammorbidito le posizioni di Delhi. Ora però c’è una nuova escalation, perchè gli uomini che da Kohima dirigono la protesta e la guerriglia fanno sapere che solo se il Nagaland otterrà l’indipendenza, la nuova nazione consentirà che nei suoi campi petroliferi si svolgano esplorazioni da parte delle compagnie centrali. Se le richieste non verranno accolte, l’India vedrà inutilizzato il suo più vasto campo petrolifero.

Il gioco si fa pesante. Perchè a Kohima sanno che il grande paese asiatico ha bisogno di petrolio per sostenere l’impetuoso boom economico che lo caratterizza. E non è un caso, infatti, se l’India - come già avviene in Cina - sta importando grandi quantità di grezzo dall’Africa, dall’Iran e dalle repubbliche centroasiatiche. Ma questa dipendenza dall’estero comporta costi sempre più alti come risulta dai dati del 2005 (ultimo anno di riferimento) che rivelano come l’India ha prodotto 700mila barili al giorno, mentre ne ha importati due milioni. E, al netto delle quantità accantonate per le riserve, ciò significa che il 65 per cento del petrolio consumato viene dall’estero.

Sempre sul piano delle trattative tra Delhi e Kohima, c’è all’esame un altro punto importante avanzato dai separatisti, praticamente alternativo alle tante questioni che sono sul tavolo: ottenere per il "Grande Nagaland" uno speciale statuto di collegamento con la federazione indiana. "Abbiamo rinunciato alla nostra richiesta di assoluta indipendenza – dichiara Thuingaleng Muivah, segretario generale del NSCN, il Consiglio nazionale socialista – ma in cambio chiediamo uno speciale legame federale con Nuova Delhi". Muivah accusa comunque il governo indiano di appoggiare le forze del suo rivale Khaplang.

Ma l’India - basandosi sulla sua politica pragmatica del divide et impera - smentisce che esista un qualche collegamento diretto con il leader dei ribelli anche perchè non vuole ammettere che il suo Nord-Est è fuori controllo, solcato da conflitti fra comunità profondamente diverse, che giocano la carta separatista per affermare i propri interessi. Come, appunto, è il caso del Nagaland. Una terra dove i soldati dell’impero inglese incontrarono una dura resistenza che riuscirono a domare solo ricorrendo ad azioni brutali che ridussero -come è scritto nella storia - “interi villaggi a comunità di vedove”.

Oggi, comunque, le agenzie nostrane che spediscono turisti in Asia parlano del Nagaland come “terra di folklore”. Petrolio e rivendicazioni di autonomia non figurano nel carnet di viaggio.