di Michele Paris
Con il ritiro qualche giorno fa della candidatura a Segretario di Stato dell’attuale ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, il presidente Obama sembra vicinissimo ad assegnare la guida della diplomazia americana al senatore del Massachusetts, John Kerry. Il candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico nel 2004, vista la sua esperienza e il rispetto guadagnato tra i colleghi del Senato, appare come una scelta sicura per la successione a Hillary Clinton, anche se sarà da verificare fino a che punto il suo presunto pragmatismo nell’approccio alle questioni internazionali riuscirà a modellare la politica estera degli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.
La prima scelta di Obama per la Segreteria di Stato era appunto la delegata di Washington presso il Palazzo di Vetro di New York, la quale però si è vista costretta giovedì scorso ad inviare una lettera alla Casa Bianca nella quale ha comunicato la propria rinuncia ad un eventuale incarico. Susan Rice è infatti da tempo sotto il fuoco incrociato del Partito Repubblicano per le dichiarazioni rilasciate subito dopo l’assalto al consolato americano di Bengasi, in Libia, l’11 settembre scorso, che costò la vita all’ambasciatore, J. Christopher Stevens, e ad altri tre cittadini statunitensi.
Le accuse alla Rice, rivolte in particolare dai senatori repubblicani John McCain e Lindsey Graham, erano iniziate dopo la sua apparizione in alcuni talk show televisivi nei giorni successivi ai fatti di Bengasi. Pubblicamente, la Rice aveva definito l’attacco al consolato e ad un annesso edificio segreto della CIA come la conseguenza spontanea delle proteste esplose nel mondo arabo in seguito alla diffusione sul web di un video amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.
In realtà, ben presto divenne noto che l’episodio era una vera e propria azione terroristica studiata a tavolino e portata a termine da uno o più gruppi di ex “ribelli” libici legati ad Al-Qaeda, con i quali peraltro gli Stati Uniti e lo stesso ambasciatore Stevens avevano collaborato per rovesciare il regime di Gheddafi.
Secondo i repubblicani, la Rice aveva deliberatamente fuorviato l’opinione pubblica americana per favorire la rielezione di Obama, impegnato a propagandare i risultati della propria amministrazione nella lotta al terrorismo. Secondo la versione ufficiale del governo americano, invece, nelle sue dichiarazioni iniziali la Rice si era semplicemente basata su rapporti forniti dall’intelligence che avevano rimosso qualsiasi riferimento a possibili legami degli assalitori con Al-Qaeda.
Dal momento che il candidato ad assumere la guida del Dipartimento di Stato deve ottenere l’approvazione del Senato, e che anche un solo senatore può bloccare il processo di conferma, le polemiche seguite agli assassini di Bengasi minacciavano seriamente di ingolfare una nomina così importante e, soprattutto, di interferire con le già difficili trattative in corso tra democratici e repubblicani per raggiungere un accordo sul cosiddetto “fiscal cliff”.
Se fonti interne all’amministrazione Obama hanno assicurato che la Casa Bianca non ha avuto alcun ruolo nella rinuncia della Rice, è molto probabile al contrario che il presidente e il suo staff abbiano fatto pressioni sull’ambasciatrice all’ONU per farsi da parte volontariamente, così da evitare distrazioni e imbarazzi. Prolungate e accese audizioni per la conferma della Rice avrebbero potuto inoltre esporre particolari poco graditi sui torbidi rapporti intercorsi tra le milizie estremiste e gli Stati Uniti nel conflitto orchestrato per “liberare” la Libia e che si stanno ora riproponendo in Siria.
Oltre che dai repubblicani, la scelta di Susan Rice non era stata digerita nemmeno da molti nell’ala liberal del Partito Democratico a causa del suo atteggiamento all’insegna dell’arroganza nei rapporti con i diplomatici di altri paesi e per i legami che la ex funzionaria del Dipartimento di Stato durante la presidenza Clinton aveva instaurato con leader africani responsabili di crimini e repressioni varie, come il defunto premier dell’Etiopia, Meles Zenawi, o i presidenti di Ruanda e Uganda, Paul Kagame e Yoweri Museveni.
In questo scenario, la scelta di John Kerry, che salvo sorprese potrebbe essere annunciata ufficialmente già questa settimana, è sembrata essere la più logica, anche perché di fatto sponsorizzata apertamente da molti suoi colleghi repubblicani al Senato, i quali vedrebbero aprirsi così uno spiraglio per strappare un seggio ai democratici in rappresentanza dello stato del Massachusetts.
Secondo fonti interne alla Casa Bianca citate da alcuni giornali d’oltreoceano, le riserve che il presidente nutrirebbe tuttora nei confronti di Kerry deriverebbero esclusivamente dal fatto che con la nomina di quest’ultimo la sua amministrazione finirebbe per avere sempre meno donne o appartenenti a minoranze etniche al proprio interno. Al di là delle motivazioni puramente propagandistiche nella scelta di una donna di colore come Susan Rice al Dipartimento di Stato, è probabile che se riserve effettivamente sussistono da parte di Obama verso Kerry, esse dipendano piuttosto dalla relativa diversità di vedute tra i due candidati sulle questioni di politica estera.
Mentre la Rice, come Hillary Clinton, può essere ascritta alla categoria dei falchi della diplomazia a stelle e strisce, John Kerry viene considerato relativamente più moderato. In passato, ad esempio, pur affermando il legame indissolubile del suo paese con Israele, Kerry ha infatti criticato gli insediamenti illegali in Palestina, mentre relativamente all’Iran, nonostante abbia approvato tutte le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, ha a volte evitato i toni estremisti di molti suoi colleghi riguardo alla questione del nucleare.
Quest’ultimo atteggiamento di Kerry, secondo i commentatori più ottimisti, potrebbe indicare perciò una certa volontà di dialogo con Teheran da parte di Obama. Un altro segnale in questo senso potrebbe essere la scelta dell’ex senatore repubblicano del Nebraska, Chuck Hagel, per sostituire Leon Panetta al Dipartimento della Difesa. Anche Hagel è noto per le sue posizioni decisamente più moderate in politica estera rispetto agli standard del Partito Repubblicano e, in particolare, sull’Iran ha frequentemente espresso profondi dubbi circa l’opportunità di un intervento militare, così come la necessità di risolvere la crisi con il dialogo.
Se le nomine di John Kerry e Chuck Hagel non sono ancora del tutto certe è dovuto forse anche a qualche timore che essi suscitano in Israele. Queste preoccupazioni sono state espresse chiaramente da un recente articolo del quotidiano conservatore israeliano, Jerusalem Post, secondo il quale Kerry e Hagel - rispettivamente al Dipartimento di Stato e al Pentagono - non sarebbero esattamente la scelta preferita dal governo di Tel Aviv.
Kerry, in ogni caso, è un sostenitore della prima ora di Barack Obama e il presidente democratico nel corso del suo primo mandato lo ha spedito varie volte all’estero per risolvere alcune situazioni spinose, bypassando il Segretario di Stato Clinton. Dopo le elezioni presidenziali del 2009 in Afghanistan, seguite da una valanga di accuse di brogli nei confronti di Hamid Karzai, Kerry si recò ad esempio a Kabul per convincere quest’ultimo ad acconsentire almeno ad un secondo turno di ballottaggio. Allo stesso modo, dopo il raid che portò all’assassinio di Osama bin Laden nel maggio 2011, il 69enne senatore democratico cercò di placare le proteste delle autorità del Pakistan durante una visita prolungata in questo paese.
Se l’insuccesso della candidatura a Segretario di Stato di Susan Rice, alla luce soprattutto della sua incessante campagna per la promozione degli interessi americani nel mondo dietro la retorica degli interventi “umanitari”, non può che essere accolto positivamente, l’eventuale conferimento della responsabilità della diplomazia USA a John Kerry non sarà in ogni caso garanzia di una svolta sostanziale nella politica estera dell’amministrazione Obama.
Oltre al fatto che la Rice continuerà per ora ad occupare il posto di ambasciatrice all’ONU e che, secondo indiscrezioni, potrebbe presto addirittura diventare la consigliera del presidente per la Sicurezza Nazionale, ad ispirare le decisioni del nuovo numero uno del Dipartimento di Stato continueranno ad essere sempre e comunque le ragioni dell’imperialismo americano.