di Michele Paris
La prevista ascesa di Xi Jinping al vertice del potere in Cina ha segnato il proprio punto d’arrivo nella giornata di giovedì, quando l’Assemblea Nazionale del Popolo lo ha eletto alla presidenza della Repubblica Popolare. Il nuovo leader si era già garantito le ben più importanti nomine di capo del Partito Comunista e delle Forze Armate durante la prima fase del decennale processo di transizione all’interno della classe dirigente cinese, andato in scena lo scorso novembre durante il 18esimo congresso del partito stesso.
Nella Grande Sala del Popolo, lo spettacolo meticolosamente coreografato di quella che secondo la versione ufficiale dovrebbe essere un’elezione ha garantito a Xi, unico candidato alla presidenza, 2.952 voti dei delegati del partito. Un solo voto contrario è stato invece espresso, mentre 3 sono stati gli astenuti. Il nuovo leader ha così diligentemente ringraziato i membri dell’Assemblea per poi stringere la mano al suo predecessore, Hu Jintao, seduto al suo fianco.
Assieme alla nomina del neo-presidente, il corpo legislativo cinese ha anche approvato una serie di misure volte a razionalizzare gli organi di governo, accorpando alcuni ministeri e agenzie statali. Le fasi finali di questa sessione del parlamento prevedono venerdì la nomina a primo ministro del numero due del Partito Comunista, Li Keqiang, e sabato la scelta del governatore della Banca Centrale e degli altri ministri del nuovo governo.
La Cina che il 59enne Xi Jinping ha preso in mano già da qualche mese si trova di fronte una serie di problematiche senza precedenti, causate da un’economia globale in continuo affanno e dalle contraddizioni di un sistema nominalmente egalitario ma che continua a produrre enormi disparità sociali e di reddito.
Ben consapevole della crescente avversione della maggioranza della popolazione per una classe dirigente vista come corrotta, al di sopra della legge e che utilizza le strutture e gli organi dello stato per arricchirsi enormemente, fin dallo scorso novembre Xi ha cercato di mettere in atto una serie di misure di facciata per contenere gli sprechi e gli abusi e per dare un’immagine di sobrietà ai funzionari di vertice del partito.Allo stesso tempo, la nuova dirigenze cinese si trova a dover rispondere ai grandi interessi economici indigeni e agli ambienti finanziari internazionali, i quali chiedono a gran voce una svolta più decisa verso la liberalizzazione del mercato interno e lo smantellamento dei rimanenti monopoli pubblici.
Definito pressoché universalmente un “riformista moderato”, secondo molti commentatori Xi Jinping appare meglio attrezzato di Hu Jintao per traghettare pacificamente un paese di oltre un miliardo e duecento milioni di abitanti verso un’ulteriore apertura al capitale internazionale. Il suo compito, che secondo i media dovrebbe essere quello di adottare le “riforme” necessarie per ridare slancio alla crescita economica, appare tuttavia complicato.
Non solo tali misure dovranno essere implementate tenendo conto degli interessi delle varie fazioni all’interno del partito, ma anche di fronte ad una crescente resistenza tra la popolazione nei confronti di politiche che, inevitabilmente e al contrario di quanto viene affermato a livello ufficiale, aumenteranno ulteriormente il divario nelle condizioni di vita tra una ristretta classe privilegiata e la maggioranza dei cinesi.
Le campagne anti-corruzione intraprese recentemente, assieme all’irrigidimento della posizione di Pechino riguardo alle contese territoriali con i paesi vicini e alimentate dagli Stati Uniti - prima fra tutte quella con il Giappone per le Isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi) nel Mar Cinese Orientale - servono precisamente allo scopo di sviare l’attenzione del popolo dalle difficoltà economiche e dalla gravità delle conseguenze che produrranno le annunciate “riforme” economiche e ad unire il paese all’insegna del populismo e del nazionalismo.
L’influenza delle fazioni che si spartiscono il potere all’interno del partito, e di cui Xi dovrà tenere conto, è poi apparsa evidente nella giornata di giovedì con la nomina a vice-presidente di Li Yuanchao. Questa posizione viene assegnata solitamente ad uno dei sette membri del Comitato Permanente del Politburo del Partito, l’organo che di fatto governa la Cina, del quale Li invece non fa parte.
Quest’ultimo viene però considerato uno stretto alleato di Hu Jintao e la sua elezioni a vice-presidente, secondo i giornali occidentali, sarebbe una sorte di premio di consolazione per il presidente uscente, dal momento che il Comitato Permanente, rinnovato lo scorso novembre, è dominato da una maggioranza di fedelissimi di Jiang Zemin, un altro ex presidente che continua a manovrare dietro le quinte.La direzione che prenderà Xi Jinping, in ogni caso, sembra essere inequivocabilmente quella di un progressivo disimpegno dello stato in ambito economico. Come ha scritto giovedì Francesco Sisci sulla testata on-line Asia Times, infatti, mentre “le riforme del 1998 furono intraprese per dare maggiore potere economico alle aziende statali”, tanto che “un decennio più tardi esse avrebbero finito per dominare l’economia cinese, creando monopoli e marginalizzando le compagnie private”, oggi “la vera urgenza è quella di dare spazio al mercato”.
Se un massiccio programma di privatizzazioni è stato in realtà portato avanti negli ultimi due decenni, è altrettanto vero che i colossi statali rimasti rappresentano attualmente, per la fazione “riformista” della classe dirigente cinese, un ostacolo da rimuovere.
Contemporaneamente, la nuova leadership del Partito Comunista, secondo quanto indicato all’Assemblea del Popolo dal premier uscente, Wen Jiabao, dovrebbe agire per fronteggiare la crisi sociale che affligge il paese, migliorando, ad esempio, l’accesso alle cure mediche e all’educazione, creando più in generale un’economia più equa e bilanciata.
Una simile evoluzione del sistema, tuttavia, comporterebbe la trasformazione di un modello economico basato fin qui sullo sfruttamento di una vasta manodopera a basso costo per la produzione di beni destinati all’esportazione. Lo stimolo ai consumi domestici per ridurre la dipendenza dell’economia cinese dall’andamento dei mercati esteri richiederebbe al contrario un sensibile innalzamento dei livelli medi delle retribuzioni, causando una perdita di competitività dell’export, proprio mentre si sta facendo sentire sempre di più la concorrenza di altri paesi del sud-est asiatico con costi del lavoro ad un livello infimo.
Questa contraddizione risulterà difficile da sciogliere per la nuova leadership di Xi Jinping, la quale sarà chiamata alla fine ad operare scelte impopolari che con ogni probabilità faranno aumentare ulteriormente le tensioni sociali che già attraversano il paese. Una prospettiva di cui i vertici del partito sono ben coscienti e pronti a contrastare senza scrupoli, come dimostra il crescente bilancio destinato all’apparato della sicurezza interna, da tre anni ormai decisamente superiore sia alla spesa militare complessiva che a quella prevista per il rafforzamento di uno stato sociale che, nella vuota retorica di Pechino, dovrebbe essere il punto centrale per la creazione di una società più equa nella cosiddetta Repubblica Popolare Cinese.