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Categoria: Esteri
di Luca Mazzucato

Sono tempi duri per il bilancio del Ministero della Difesa israeliano, a poche settimane dalla fine della guerra in Libano. Negli ultimi tre giorni prima del cessate il fuoco, Israele ha sganciato sul Libano del sud una quantità impressionante di bombe a grappolo. Ufficiali dell'Onu hanno denunciato la presenza di circa 350.000 bombe a grappolo inesplose, che giorno dopo giorno continuano a mietere vittime tra i profughi, che fanno ritorno tra le macerie dei villaggi a sud del fiume Litani. Il risultato di questo massiccio bombardamento è stato la trasformazione di tutta questa zona in un immenso campo minato, per la cui bonifica le truppe UNIFIL stimano un lavoro di almeno trenta mesi. Finita la guerra, il governo israeliano deve metter mano al bilancio per ripristinare l'arsenale bellico che ormai langue e, forse per un fortuita coincidenza, mercoledì le truppe di occupazione in West Bank hanno messo a segno una serie di operazioni che sarebbe difficile definire diversamente da "rapine a mano armata". Nel cuore della notte, l'esercito israeliano, coordinato dallo Shin Bet, ha saccheggiato contemporaneamente undici cambiavalute nelle città di Nablus, Tulkarm, Ramallah e Jenin e attaccato la Banca Nazionale Giordana a Nablus, sequestrando un milione e quattrocentomila dollari in contanti. Cinque dei negozi di cambiavalute sono poi stati distrutti dall'esercito e sette proprietari e loro familiari arrestati. L'esercito sostiene che il denaro, di sospetta provenienza siriana e libanese, stava per essere trasferito a organizzazioni terroristiche. Un portavoce dell'esercito ha rifiutato di dare dettagli sul raid, ma ha affermato che i contanti, ora al sicuro in Israele, saranno analizzati nei prossimi giorni. Forse per stabilirne la destinazione? Non è tuttavia la prima volta che l'esercito israeliano "prende i soldi e scappa". Nel 2004, durante l'Intifada di Al-Aqsa, l'IDF attaccò due banche a Ramallah, confiscando in quel caso ben nove milioni di dollari.

In un articolo apparso su Haaretz mercoledì, la giornalista israeliana Amira Hass insinua un sospetto sulle recenti attività delle truppe di occupazione. Nei giorni scorsi, in seguito alle famigerate dichiarazioni di papa Ratzinger sull'Islam, alcune chiese cristiane nella West Bank e a Gaza sono state oggetto di atti di vandalismo, lanci di molotov a tentati incendi. La condanna di questi attacchi è stata unanime da parte di tutte le organizzazioni palestinesi, in nome dell'unità di arabi e cristiani contro l'occupazione israeliana. I media palestinesi hanno suggerito che l'identità degli attentatori non sia palestinese, ma che in realtà siano provocatori dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano. Il sospetto è suffragato da varie testimonianze di vicini e passanti. Lo scopo presunto di queste provocazioni sarebbe di esacerbare la tensione e gli scontri tra le diverse fazioni palestinesi, all'indomani del possibile nuovo governo di unità nazionale.

La teoria del complotto è storicamente molto comune tra i media palestinesi, riguardo alle motivazioni della politica di sicurezza dell'establishment israeliano. Tuttavia, nel recente libro "GoodArabs", lo storico israeliano Hillel Cohen dimostra, citando innumerevoli fonti documentali, che il complotto ai danni degli arabi - e in particolare degli arabi israeliani - è stato una esplicita motivazione delle scelte politiche delle forze di sicurezza israeliane. Nel 1949, ad esempio, i neonati servizi di sicurezza israeliani distribuivano armi a gruppi armati della resistenza araba con lo scopo documentato di "creare tensione tra la popolazione araba e permetterne il controllo". In certi casi si spingevano fino a provocare lo scontro tra i gruppi armati. In altri documenti riservati, si legge che i servizi di sicurezza si adoperavano per impedire alla minoranza araba di accedere agli istituti di educazione secondaria, con lo scopo di impedire la creazione di una leadership araba. All'epoca dei fatti, chi denunciava queste pratiche (il partito comunista e gli attivisti dell'opposizione) veniva bollato dai media israeliani come "paranoico". Ai giorni nostri, un'analoga paranoia porta a denunciare le persistenti pratiche discriminatorie nei confronti degli arabi israeliani, a cui si aggiungono le incursioni quotidiane dell'IDF nei territori, che rapina le banche e, forse, incendia le chiese cristiane palestinesi in nome del "divide et impera".