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Alla terza elezione in dodici mesi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha riconquistato una parte del terreno perduto per rilanciarsi come principale forza politica dello stato ebraico nonostante i serissimi guai giudiziari che lo vedono coinvolto. Se gli sforzi per la mobilitazione della destra estrema hanno dato in larga misura i frutti sperati, il Likud e il suo leader si ritrovano ancora e almeno per il momento senza la possibilità di mettere assieme una coalizione che possa contare su un numero di seggi sufficiente a garantire una maggioranza parlamentare. Un ulteriore periodo di stallo o una qualche manovra più o meno pulita per sbloccare la situazione di crisi sembrano perciò le uniche opzioni in vista.

 

Il voto in Israele si è svolto nella giornata di lunedì, ma i risultati definitivi sono stati rinviati di parecchie ore per via delle nuove procedure adottate e a causa delle complicazioni legate allo stato di quarantena imposto agli elettori affetti da Coronavirus. Gli exit poll avevano però dato subito un’idea degli equilibri usciti dalle urne, confermatisi poi in buona parte corretti.

A differenza dei risultati dello scorso settembre, il partito di Netanyahu è tornato a ottenere il maggior numero di seggi (36), grazie ai passi indietro della formazione rivale – partito “Blu e Bianco” – guidata dal candidato premier Benny Gantz, fermatasi a 32. La maggioranza alla “Knesset” resta però ancora una volta sfuggente per entrambi. Il Likud e i suoi alleati ultra-ortodossi arrivano infatti a 59 seggi, cioè due in meno di quanto necessario per governare, mentre il centro-sinistra sarebbe teoricamente in grado di raccoglierne non più di 54.

Un dato apparentemente imprevisto che ha influito sul voto è quello dell’affluenza, attestatasi al 71%, cioè il dato più alto dal 2015, nonostante in molti si fossero aspettati un netto calo dopo le ripetute elezioni anticipate e la disaffezione nei confronti di tutto il sistema politico. A beneficiarne è stato in primo luogo lo stesso Netanyahu. Proprio l’insistenza dell’opposizione sulle vicende giudiziarie a suo carico ha suscitato la reazione opposta, così che la destra ha finito per recarsi alle urne in massa o quasi.

Sul fronte opposto, questa stessa dinamica ha motivato gli elettori arabo-israeliani a rinunciare al tradizionale atteggiamento di indifferenza verso un sistema che li emargina o, nel migliore dei casi, li ignora. Infatti, la “Lista Comune”, costituita principalmente da candidati arabo-israeliani, si è confermata la terza forza politica del paese e, con 15 seggi, ha ottenuto il migliore risultato dal 1949 a oggi.

Con l’intensificarsi della crisi politica, ad ogni modo, le elezioni di lunedì hanno riposizionato ancora più a destra il baricentro politico israeliano. I risultati, al di là della maggioranza di governo che eventualmente produrranno, hanno sepolto le ipotesi di una rotazione alla guida dell’esecutivo tra i leader del Likud e del partito “Blu e Bianco” e, quindi, di un governo di “unità nazionale” nel quale erano le forze nominalmente di centro-sinistra a partire da posizioni di vantaggio.

Già questa ipotesi non aveva nulla di vagamente progressista, né sul fronte della politica interna né tantomeno in merito alla questione palestinese, così che è facile intuire quale sarà l’assetto del gabinetto che potrebbe nascere nelle prossime settimane, dominato dal Likud e dai suoi alleati dell’estrema destra religiosa. La campagna elettorale ha dato d’altra parte più di un’indicazione in questo senso.

Alcuni media hanno per la verità spiegato come Netanyahu avesse messo da parte i toni aggressivi ed estremi delle precedenti tornate elettorali, per concentrarsi sui presunti successi ottenuti durante una lunghissima permanenza alla guida del governo di Tel Aviv. In realtà, le minacce di annessione illegale dei territori occupati non sono mancate nemmeno in questa occasione, così come le invettive apertamente razziste contro la minoranza araba di Israele. Inoltre, i risultati ostentati sono tutti e indistintamente di natura ultra-reazionaria, per non dire criminale, come l’ampliamento degli insediamenti stessi, il contributo alla creazione di un clima internazionale ostile all’Iran e l’influenza sulle decisioni favorevoli a Israele e contrarie ai palestinesi adottate dall’amministrazione Trump.

Per quanto riguarda l’arretramento del soggetto politico guidato da Benny Gantz, imitato dagli alleati riuniti nella fusione tra il Partito Laburista e quello di sinistra Meretz (“Labor-Gesher-Meretz”), è evidente che il fattore più importante da considerare sia la conduzione di una campagna segnata dalla rincorsa dei consensi a destra del panorama politico israeliano.

Gantz ha attaccato più decisamente Netanyahu rispetto alle due precedenti elezioni, ma lo ha fatto assecondando le tendenze reazionarie, guerrafondaie e talvolta razziste del primo ministro in carica. Un esempio di ciò è stata la sua vergognosa apparizione a Washington in occasione del lancio da parte di Trump della ridicola “proposta di pace” per la Palestina. Un’iniziativa, quest’ultima, che ha indubbiamente contribuito a screditarlo agli occhi degli elettori laici e progressisti.

Stesso effetto ha avuto anche l’inseguimento delle fasce più retrograde dell’elettorato, peraltro già intercettate dal Likud e dalla galassia ultra-ortodossa, accompagnato da un più o meno velato disdegno per la “Lista Comune” arabo-israeliana, considerata invece come un potenziale partner di governo.

L’incapacità di costruire un’alternativa alla destra risulta particolarmente grave, anche se non sorprendente, se si considera lo stato di degrado economico e sociale che interessa una parte sempre più ampia della popolazione israeliana. Dietro a dati macroeconomici apparentemente incoraggianti si nasconde infatti una situazione segnata da disuguaglianze tra le più marcate dei paesi “avanzati”, ma anche da pesanti carenze nel settore sanitario, in quello dell’educazione e dei trasporti, da ricondurre alla costante riduzione degli investimenti pubblici.

L’incriminazione di Netanyahu per corruzione e altri reati peserà ora sulle dinamiche politiche post-voto. Il 17 marzo si aprirà il processo a carico del premier ed è probabile che quanto accadrà in tribunale finirà per influire sulle manovre dei vari partiti. L’obiettivo minimo di Netanyahu è stato comunque già raggiunto, visto che anche il solo persistere dello stallo gli consente di conservare la carica di primo ministro che, secondo la legge israeliana, non comporta dimissioni automatiche in caso di incriminazione.

Per qualcuno, tuttavia, non sarebbero del tutto chiare le norme che regolano la questione della compatibilità tra la massima carica politica del paese e un procedimento giudiziario in corso. La Corte Suprema israeliana potrebbe perciò intervenire sull’argomento, ma è fuori discussione che la posizione di Netanyahu risulti rafforzata dopo il voto di lunedì.

Di certo, alla luce dei risultati, il Likud cercherà in tutti i modi di arrivare a una maggioranza che permetta a “Bibi” di continuare a governare. L’ipotesi di un accordo di “unità nazionale” con il centro-sinistra resta teoricamente sul tavolo, ma è improbabile che Gantz e i suoi accettino un’intesa col Likud oggi dopo averla di fatto scartata lo scorso settembre quando partivano da una posizione di vantaggio. Da valutare sarà anche la posizione dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, il cui partito di estrema destra laico Yisrael Beiteinu, ha anch’esso registrato una flessione rispetto a settembre. Lieberman chiedeva e chiede un governo composto dai due principali partiti israeliani, che escluda la destra religiosa, ma non è chiaro quale peso negoziale potrà avere dopo il voto di lunedì, né il suo approccio al “problema” Netanyahu, al quale aveva chiesto un passo indietro visti i suoi guai giudiziari.

Le prime indicazioni che stanno emergendo suggeriscono piuttosto una sorta di “campagna acquisti” da parte del primo partito israeliano, per convincere almeno un paio di deputati dell’opposizione a defezionare e sostenere un nuovo gabinetto Netanyahu. Il ministro degli Esteri, Israel Katz, in un’intervista alla testata on-line Ynet News ha ad esempio avuto parole di elogio per la “co-leader” dell’alleanza tra i partiti Laburista e Meretz, Orly Levy-Abekasis, la quale sarebbe a suo dire “un ottimo ministro della Sanità”.

Su un altro piano, anche se con lo stesso obiettivo, si pongono invece le manovre come quelle descritte martedì dal quotidiano Haaretz. Il Likud starebbe cioè facendo pressioni o, per meglio dire, ricattando la deputata del partito “Blu e Bianco”, Omer Yankelevich, per passare allo schieramento che sostiene Netanyahu. La Yankelevich è stata protagonista settimana scorsa di un’intercettazione diffusa dalla stampa nella quale un ex consigliere strategico del suo partito le attribuiva un giudizio molto duro su Benny Gantz, definito uno “stupido perdente inadatto a diventare primo ministro”.

Nei giorni scorsi, la deputata avrebbe già intrattenuto discussioni con esponenti del Likud per una possibile defezione, ma, secondo Haaretz, il partito di Netanyahu avrebbe minacciato di pubblicare ulteriori registrazioni imbarazzanti in proprio possesso per convincerla definitivamente ad appoggiare la coalizione di destra uscita vincitrice dalle elezioni di lunedì.