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La giustizia americana ha dovuto registrare un clamoroso fallimento questa settimana in un caso con serissime implicazioni per la “sicurezza nazionale” e collegato in maniera indiretta alla persecuzione di Julian Assange. Un giudice di un tribunale federale di Manhattan ha cioè annullato per comportamento irregolare dell’accusa, ovvero il governo di Washington, un processo che vede alla sbarra l’ex ingegnere informatico della CIA, Joshua Schulte, accusato di avere passato a WikiLeaks una mole enorme di documenti riservati sulle attività criminali dell’agenzia di Langley e pubblicati col titolo di “Vault 7”.

Un altro ex agente della CIA incriminato nel recente passato, John Kiriakou, ha sottolineato dalla sua pagina Facebook come la decisione di invalidare un procedimento o una parte di esso in un caso come quello di Schulte sia particolarmente grave per il dipartimento di Giustizia USA. Oltre all’importanza del processo in sé, in questi casi l’accusa dispone infatti anche di vantaggi considerevoli rispetto alla difesa. Ad esempio, richieste di documenti e testimonianze da parte dei legali dell’imputato sono quasi sempre negate se l’accusa fa appello alla necessità di segretezza per ragioni di “sicurezza nazionale”.

Ciò è esattamente quello che è accaduto nel processo a Schulte. Quest’ultimo, inoltre, è stato sottoposto a ripetute violazioni dei suoi diritti costituzionali. Un difensore dell’ex agente della CIA aveva rivelato qualche mese fa come la sua corrispondenza legale fosse monitorata dalle autorità federali e gli stessi legali minacciati di possibili denunce se fossero entrati in possesso di documenti classificati.

Non solo, alla difesa era stato fatto divieto anche di effettuare ricerche in rete sui testimoni della CIA apparsi sotto falso nome sul banco dei testimoni durante il dibattimento. L’intero processo, infine, si è tenuto nel silenzio praticamente assoluto dei media ufficiali americani, mentre i pochi giornalisti indipendenti che hanno seguito le sedute hanno avuto frequentemente difficoltà ad accedere all’aula o ai documenti del processo.

Lunedì, ad ogni modo, la giuria nel caso Schulte non è stata in grado di raggiungere un verdetto relativamente a otto capi d’accusa, ovvero quelli di gran lunga più gravi a suo carico e contestatigli secondo il dettato del famigerato “Espionage Act”, utilizzato anche per l’incriminazione di Assange. La ragione principale di ciò è stata la mancata comunicazione alla difesa di informazioni cruciali riguardanti il testimone chiave dell’accusa, un ex agente della CIA e amico dell’imputato noto solo con il nome di “Michael”.

Quest’ultimo aveva testimoniato di essere stato presente nel momento in cui Schulte stava scaricando il materiale riservato dell’agenzia. In seguito era però emerso come “Michael” si fosse rifiutato di collaborare con l’FBI nell’indagine e, per questa ragione, la CIA lo aveva sospeso dal suo lavoro. La situazione di “Michael” non era stata comunicata alla difesa se non sei mesi più tardi, cioè il giorno prima della sua testimonianza in aula, sottraendo in questo modo un’informazione che poteva mettere in discussione la regolarità e l’attendibilità dell’ex collega di Schulte.

Così facendo, l’accusa ammetteva anche di non avere la certezza della colpevolezza dell’imputato. Anche perché, nel corso del dibattimento, la difesa ha dimostrato come il server della CIA da cui furono sottratti i documenti finiti nelle mani di WikiLeaks aveva un livello di protezione molto basso e poteva dunque essere facilmente violato da molti.

Sempre secondo la difesa, Schulte è stato individuato come capro espiatorio della fuga di informazioni a causa della disputa con la CIA che aveva portato al suo addio all’agenzia nel novembre del 2016. Schulte aveva avuto parecchi diverbi con colleghi e superiori e in varie occasioni gli erano state per questo revocate le autorizzazioni di accesso a documenti riservati.

La giuria ha invece raggiunto un verdetto di colpevolezza sulle accuse decisamente meno gravi di oltraggio alla corte e falsa testimonianza all’FBI che pendevano su Schulte. In un procedimento separato, l’ex agente della CIA è accusato anche di detenzione di materiale pedopornografico, presumibilmente ritrovato durante la perquisizione condotta nella sua abitazione dopo l’arresto. Per il momento, Schulte resterà in carcere e sarà probabilmente sottoposto a un nuovo processo per i capi di imputazione basati sull’Espionage Act.

L’eventuale crollo definitivo delle accuse relative ai documenti della CIA pubblicati da Wikileaks potrebbe avere conseguenze anche sul caso Assange. Se estradato negli Stati Uniti, infatti, quest’ultimo potrebbe dover far fronte a nuove accuse, con ogni probabilità proprio in relazione al “Vault 7”. Ciò sarebbe contrario all’impegno preso con Londra dal governo di Washington, anche perché l’eventuale incriminazione per un reato che prevede la pena di morte impedirebbe automaticamente l’estradizione dal Regno Unito verso gli USA.

Oltre ai tentativi del governo americano di manipolare le procedure legali per ottenere la condanna di Joshua Schulte, va evidenziato come quest’ultimo o chiunque sia stato a fornire a WikiLeaks i documenti segreti della CIA in questione non solo non ha commesso alcun crimine, ma ha svolto un servizio dal valore inestimabile per la popolazione degli Stati Uniti e di tutto il pianeta.

La pubblicazione del cosiddetto “Vault 7” nel 2017 aveva scatenato comprensibilmente il panico a Langley. Nel corso del processo a Schulte, un esponente di vertice della CIA aveva raccontato di come, dopo la diffusione del materiale da parte di WikiLeaks, un collega lo aveva contattato telefonicamente dicendogli che quanto era appena accaduto “equivaleva a una Pearl Harbor digitale” per gli Stati Uniti.

Nella fuga di informazioni più grave nella storia della CIA, erano state rivelate a tutto il mondo alcune delle attività clandestine e, oggettivamente criminali, della principale agenzia di intelligence americana, dirette sia contro paesi nemici sia contro alleati storici. Tra le rivelazioni più clamorose c’era l’installazione di malware per assumere il controllo di qualsiasi dispositivo elettronico, incluse le “smart TV” e i computer di bordo delle moderne automobili, ma anche le procedure per hackerare sistemi informatici lasciando tracce che avrebbero condotto erroneamente ad attribuirne la responsabilità a paesi “canaglia”, come Russia, Cina, Iran o Corea del Nord.