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Una delle accuse più gravi rivolte dagli Stati Uniti a Julian Assange è che la pubblicazione di documenti riservati su WikiLeaks, come quelli del dipartimento di Stato divulgati nel 2010, è stata un’azione irresponsabile che avrebbe messo in serio pericolo funzionari e militari americani di stanza all’estero. Il giornalista australiano ha invece sempre sostenuto di essersi adoperato per limitare eventuali conseguenze negative per il personale americano, offrendo anche la propria collaborazione al governo di Washington. A dimostrare come questi scrupoli fossero reali è stata una registrazione audio di una telefonata del 2011 tra Assange e un legale del dipartimento di Stato USA, pubblicata in questi giorni dal gruppo di attivisti ultra-conservatori Project Veritas.

 

L’episodio risale alla fine di agosto di nove anni fa. La prima parte dei 25 mila “cablo” classificati della diplomazia americana era già uscita nel novembre precedente dopo un lavoro di mesi per escludere dalla versione pubblicata i nomi delle fonti e altre informazioni sensibili, in modo da ridurre al minimo qualsiasi eventuale rischio.

Nella telefonata in questione, Assange informava il funzionario del dipartimento di Stato, Cliff Johnson, che di lì a breve i documenti sarebbero stati invece pubblicati senza censure. La responsabilità non era di WikiLeaks, ma dell’ex dipendente Daniel Domscheit-Berg, già “sospeso” dall’organizzazione diretta da Assange. A quel punto, Johnson chiedeva conferma del fatto che Domscheit-Berg avesse “la possibilità, fuori dal vostro controllo e senza la vostra autorizzazione”, di pubblicare i documenti nella sua interezza. Dopo avere confermato la situazione, Assange sollecitava il dipartimento di Stato USA ad “avvertire [dei possibili rischi] chiunque debba essere avvertito”.

In rete era presente una versione “non cifrata” dei file contenenti i “cablo” ottenuti da WikiLeaks e già un anno prima Assange aveva condiviso la password per accedervi anche con il giornalista del Guardian, David Leigh. Quest’ultimo e il suo collega Luke Harding sarebbero stati alla fine i veri responsabili della pubblicazione dei 250 mila documenti senza censura, visto che, contro la volontà di Assange, avevano riportata nel loro libro su WikiLeaks, uscito nel febbraio 2011, le chiavi per consentire a chiunque di accedere ai file originali. Questa informazione non era nota fino al giorno prima della telefonata tra Assange e Johnson, quando a rivelarla era stato un articolo del giornale tedesco Der Freitag.

Nella conversazione telefonica con Cliff Johnson, Assange aveva anche ipotizzato un’iniziativa che avrebbe permesso di intercettare e rimuovere i documenti in rete prima che potessero essere “de-criptati”. Assange spiegava però che la sua organizzazione non disponeva delle necessarie capacità tecniche, a differenza del governo americano. Inoltre, WikiLeaks aveva anche provato a bloccare la rilevazione del giornale Der Freitag chiedendo l’intervento della giustizia ordinaria, ma a farne richiesta doveva essere il proprietario degli stessi documenti, cioè il dipartimento di Stato USA, all’epoca guidato da Hillary Clinton.

Se anche le parole di Johnson dimostrano che l’amministrazione Obama era stata informata esaurientemente della situazione e che WikiLeaks si stava comportando in maniera del tutto corretta e responsabile nel gestire la pubblicazione di informazioni di estremo interesse pubblico, nessuna azione venne intrapresa per impedire che dalla diffusione legittima dei “cablo” potessero derivare eventi potenzialmente dannosi per Washington.

Nella telefonata appena resa pubblica, Assange sottolineava come egli stesso e i suoi collaboratori avessero cercato più volte di mettere al corrente il dipartimento di Stato della gravità della situazione e della necessità di agire con urgenza, ma nessuno aveva dato alcun riscontro prima di Cliff Johnson. L’avvocato del dipartimento di Stato aveva allora espresso il proprio apprezzamento per le informazioni trasmesse.

A pubblicare per primo i 250 mila documenti senza censure sarebbe stato il sito web Cryptome, mai accusato né incriminato, a differenza di Assange e WikiLeaks, per avere messo in pericolo diplomatici e funzionari americani. WikiLeaks decise invece di pubblicare i “cablo” nella versione integrale quando stavano già circolando in rete.

La registrazione audio diffusa da Project Veritas rafforza quindi quanto sostenuto dai legali di Assange durante le udienze del processo in Gran Bretagna per la sua possibile estradizione negli Stati Uniti. Secondo uno dei testimoni della difesa, peraltro, anche se WikiLeaks avesse pubblicato di propria iniziativa i documenti non censurati, la decisione sarebbe stata ugualmente legittima. Infatti, non esistono precedenti di condanne per un’azione di questo genere, interamente giustificata dal principio della libertà di informazione.

L’iniziativa di Project Veritas contribuisce dunque a screditare ulteriormente la vergognosa campagna persecutoria in atto nei confronti di Julian Assange ad opera dei governi di Stati Uniti e Gran Bretagna. Ai primi di gennaio, il giudice Vanessa Baraitser emetterà il suo verdetto sulla richiesta di estradizione americana. Anche queste ultime rivelazioni faranno tuttavia ben poco per modificare l’esito di un procedimento-farsa, manipolato fin dall’inizio per spedire Assange in America, dove lo attende un processo per spionaggio e una condanna fino a 175 anni di carcere.

Sul tempismo e i responsabili della pubblicazione del file audio della telefonata di Assange del 2011, tuttavia, sono necessarie alcune precisazioni. In primo luogo Project Veritas è un’organizzazione notoriamente faziosa che ha spesso usato nel recente passato registrazioni e filmati in maniera strumentale e disonesta per colpire bersagli politici ben precisi nel campo “liberal” e progressista. Ben noti sono anche i legami con gli ambienti trumpiani o, quanto meno, le simpatie del presidente uscente per il suo fondatore, James O’Keefe.

Sembra perciò da escludere che la decisione di diffondere un elemento a discolpa di Assange sia una mossa disinteressata. È possibile piuttosto che Project Veritas punti a fornire a Trump una giustificazione per un eventuale provvedimento di grazia a favore di Julian Assange. Di ciò si parla da tempo sui social media e un paio di giorni fa un alleato di Trump aveva scritto su Twitter che il presidente aveva deciso di “perdonare” il fondatore di WikiLeaks. La notizia era stata poi smentita da colui che l’aveva diffusa, non prima però di avere raccolto oltre 75 mila “like” e condivisioni in appena un’ora. Martedì, poi, i legali di Assange hanno sottoposto al presidente una richiesta formale di grazia.

Un esito di questo genere sarebbe altamente auspicabile e, al di là delle motivazioni, registrerebbe almeno un elemento positivo per la disastrosa presidenza Trump. Dietro alla celebrazione di Assange da parte Project Veritas ci sono in ogni caso manovre politiche da ricondurre al conflitto interno all’apparato di potere americano che ha caratterizzato gli ultimi quattro anni.

Da un certo punto di vista, Assange è visto con un qualche favore da determinati ambienti populisti di destra perché collegato alla lotta che essi presumibilmente conducono contro il “deep state” americano. Questa teoria trae origine dalla pubblicazione da parte di WikiLeaks nel 2016 delle e-mail di Hillary Clinton e della direzione del Partito Democratico, che avevano screditato enormemente la ex first lady alla vigilia delle presidenziali di quell’anno.

Assange era stato per questo attaccato soprattutto dai democratici e dai media a essi vicini, i quali lo avevano sommariamente dipinto come uno strumento di Putin nella presunta operazione orchestrata dalla Russia per installare Trump alla Casa Bianca. In questa prospettiva, la grazia per Assange sul finire della presidenza Trump rappresenterebbe un ultimo schiaffo a quei poteri forti americani che hanno operato in tutti i modi per boicottare l’amministrazione repubblicana.