Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

L’intervento dei militari nelle prime ore di lunedì contro il governo civile guidato da Aung San Suu Kyi ha riportato il Myanmar indietro di parecchi anni e arrestato bruscamente quello che era stato presentato in Occidente come un percorso di sviluppo democratico, sia pure fragile e contraddittorio. Il ricorso alla forza per ristabilire la supremazia militare non è un evento nuovo nella storia post-coloniale della ex Birmania, ma i cambiamenti avvenuti dopo la “normalizzazione”, inaugurata formalmente nel 2011, sono stati significativi e non è chiaro perciò, assieme alle ragioni più profonde del golpe, quali saranno i prossimi passi della probabile nuova giunta che dovrebbe assumere i pieni poteri nel paese del sud-est asiatico.

 

Aung San Suu Kyi è finita agli arresti assieme al presidente del Myanmar, Win Myint, a un numero imprecisato di membri di spicco del loro partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), di politici locali e attivisti democratici. Fin dall’alba di lunedì è stata segnalata la sospensione dei collegamenti a internet, mentre le linee telefoniche e le reti televisive bloccate ad eccezione di quelle controllate dai militari. I voli interni sono stati cancellati e chiuso l’aeroporto internazionale di Yangon, il più importante del paese.

I generali hanno dichiarato lo stato di emergenza per un anno, fino a quando cioè dovrebbero essere tenute nuove elezioni. Uno dei due vice-presidenti del Myanmar, l’ex generale Myint Swe, è stato nominato presidente ad interim, ma le leve del potere sono passate nelle mani del capo delle forze armate birmane, generale Min Aung Hlaing. Secondo l’annuncio diramato dalla TV dei militari, questi ultimi avrebbero preso l’iniziativa in base agli articoli 417 e 418 della Costituzione, ma essi prevedono che lo stato di emergenza e il trasferimento di tutti i poteri ai militari siano dichiarati dal presidente, cosa che quest’ultimo non ha fatto prima del suo arresto.

Il motivo ufficiale dell’intervento dei militari è da collegare ai brogli che avrebbero caratterizzato le elezioni legislative del novembre scorso, vinte largamente dalla LND di Aung San Suu Kyi. Gli alti ufficiali birmani e il partito a cui essi fanno riferimento (Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo, USDP) avevano per settimane chiesto indagini sulle irregolarità a loro dire diffuse durante il voto e alla base di una prestazione elettorale disastrosa (33 seggi su 498). La commissione elettorale aveva però respinto i ricorsi dei militari e Aung San Suu Kyi si era a sua volta rifiutata di piegarsi alle pressioni per sciogliere la commissione stessa.

La situazione nel paese era apparsa estremamente tesa nei giorni precedenti il golpe, con l’apparizione in più di un’occasione di veicoli militari nelle strade di Yangon e della capitale, Naypyitaw. Lo stesso generale Aung Hlaing aveva minacciato che la Costituzione sarebbe stata revocata in caso di “violazioni della legge”. Domenica, al contrario, almeno un paio di dichiarazioni delle forze armate sembravano aver rassicurato sul rispetto delle “norme democratiche”, ma la decisione di intervenire era stata probabilmente già presa dopo un vertice senza risultati tenuto giovedì tra rappresentanti dei militari e del LND. Il colpo di stato si è alla fine materializzato a poche ore dall’apertura dei lavori del nuovo Parlamento.

Secondo uno dei più autorevoli commentatori occidentali sulla ex Birmania, lo svedese Bertil Lintner, la ragione principale del golpe è “la frustrazione crescente dei militari nei confronti dei politici civili”, intenzionati a “modificare la Costituzione per ridurre il potere dei militari” stessi. Agli uomini in uniforme viene garantita una rappresentanza fissa in parlamento pari un quarto dei seggi totali, così che qualsiasi variazione della Costituzione, redatta e approvata dai militari nel 2008, non può essere ratificata senza il loro consenso. Oltre a ciò, i militari controllano tre dei ministeri più importanti: difesa, interni e “affari” di confine.

Quando Aung San Suu Kyi venne liberata dalla lunga detenzione domiciliare nel 2010 e dopo il successo del suo partito nelle elezioni andate in scena cinque anni più tardi, i militari birmani avevano con ogni probabilità ritenuto che valeva la pena cedere una parte del potere in cambio della rottura dell’isolamento internazionale del loro paese, sempre più in crisi a causa delle sanzioni internazionali e quasi del tutto dipendente dal sostegno della Cina.

Le garanzie della Costituzione scritta da loro stessi erano sufficienti a mantenere il controllo sugli indirizzi generali del Myanmar, ma, come spiega ancora Lintner in un’analisi pubblicata dal sito Asia Times, i militari non si aspettavano affermazioni così clamorose del LND nelle elezioni del 2015 e, ancor più, del 2020. Le promesse di cambiare la Costituzione, fatte dal partito di Aung San Suu Kyi, per limitare il potere dei militari, anche se impossibili da mantenere vista la realtà bloccata del parlamento, hanno continuato a rappresentare un elemento di destabilizzazione del sistema costruito attorno alle forze armate perché in grado di raccogliere un ampio consenso tra la popolazione.

In definitiva, anche se formalmente sicuri del proprio potere di veto sugli affari cruciali dello stato, i militari sentivano di avere sempre meno legittimità “democratica”. Da qui il tentativo di screditare il voto del novembre scorso attraverso accuse non dimostrate di brogli e, una volta fallito, l’intervento diretto per rovesciare il governo civile di Aung San Suu Kyi. La mossa dei generali deve essere stata studiata anche in considerazione del deterioramento dell’immagine del Premio Nobel in Occidente in questi ultimi anni. È possibile, cioè, che nuove sanzioni possano essere imposte in seguito al golpe, ma la perdita di credibilità di Aung San Suu Kyi potrebbe forse limitare l’impatto delle ritorsioni occidentali e consentire ai militari di raggiungere i propri obiettivi.

La situazione interna al Myanmar si sovrappone ad ogni modo a quella internazionale, che vede questo paese al centro delle manovre di molte potenze regionali e globali da almeno un decennio. Va ricordato, per cominciare, che il reintegro di Aung San Suu Kyi nel sistema politico birmano era stato letto negli Stati Uniti e in Europa come il segnale di una probabile svolta filo-occidentale e anti-cinese. Questa tesi era stata rafforzata tra l’altro dalla cancellazione, da parte dei militari, di un progetto per la costruzione di una mega-diga in Myanmar grazie a investimenti cinesi proprio alla vigilia dell’inaugurazione del nuovo corso nel paese asiatico. Nel 2012, poi, Obama era stato il primo presidente americano in carica a recarsi in visita nella ex Birmania.

Le cose non sono andate però come previsto dall’Occidente. I ritardi delle “riforme” interne e nell’afflusso di capitali stranieri hanno a poco a poco spinto i generali a guardare nuovamente verso Pechino. Aung San Suu Kyi, a sua volta, si è trovata a dover cercare un punto di equilibrio tra i piani di apertura del paese verso l’Occidente e la necessità di mantenere buoni rapporti con i militari per evitare un nuovo golpe. A poco a poco, l’idolo dell’Occidente è diventata bersaglio di critiche feroci, soprattutto dopo la sua difesa dei generali in seguito alla durissima repressione della minoranza Rohingya di fede musulmana, intensificata nel 2017.

La posizione internazionale di Aung San Suu Kyi si è così indebolita, mentre sul fronte domestico è rimasta solida e, anzi, si è rafforzata in parte proprio per via dei sentimenti nazionalisti alimentati dalla crisi dei Rohingya, come hanno dimostrato i risultati del voto di novembre. Ironicamente, l’avere assecondato i militari e irritato i suoi sponsor occidentali ha decretato la fine della sua esperienza politica proprio per mano delle forze armate, così come il ritorno a uno stato detentivo la cui forma e durata sarà tutta da verificare.

I contorni del colpo di mano dei militari birmani sono ugualmente non del tutto chiari e dovranno fare i conti in primo luogo con un’opposizione vastissima nel paese, anche se per il momento poco evidente. Il ritorno formale alla democrazia un decennio fa ha d’altra parte stimolato una certa crescita della società civile in Myanmar che include anche numerose ONG e pubblicazioni più o meno indipendenti.

La risposta di USA, UE, India, Giappone e di altri paesi asiatici vicini all’Occidente, infine, è stata prevedibilmente di condanna del golpe, anche se alcuni di questi stessi governi hanno evitato toni troppo aggressivi. Il timore è che una linea eccessivamente dura finisca per essere controproducente e spingere un paese strategicamente cruciale e su cui è stato investito non poco ancora di più verso la Cina.

A questo proposito, è plausibile che i generali birmani abbiano informato preventivamente il governo cinese dell’azione di lunedì. Ciò non significa che Pechino abbia coordinato o approvato il golpe. I rapporti tra la Cina e la leadership militare del Myanmar sono tradizionalmente complessi, malgrado la vicinanza dei due paesi, come testimonia anche il sostegno garantito da Pechino ad alcune organizzazioni separatiste attive nelle aree di confine. Lo scivolamento verso il caos e la destabilizzazione del vicino meridionale rappresentano scenari per nulla graditi alla Cina, anche se è fuori discussione che il ritorno a una posizione dominante dei militari sia tutto fuorché svantaggiosa per Pechino, quanto meno a livello teorico.

Ciò che conta per la Cina è comunque la certezza dell’integrazione della ex Birmania nei piani della “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI). Questo paese è infatti e almeno in prospettiva un nodo nevralgico nella rotta che collega la regione sud-occidentale dello Yunnan al Golfo del Bengala, niente meno che fondamentale per bypassare le vie marittime dello Stretto di Malacca più a est, esposte a un potenziale devastante blocco in caso di conflitto con gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia sud-orientale.