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Il caso di Julian Assange potrebbe essere arrivato a una svolta dopo le dichiarazioni rilasciate da uno dei testimoni chiave utilizzati dal governo americano per costruire il castello di accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Visto il carattere persecutorio e illegale del procedimento di incriminazione ai danni del giornalista australiano, è più che probabile che la sorte di quest’ultimo rimarrà precaria, ma gli ultimi sviluppi confermano clamorosamente come il dipartimento di Giustizia di Washington abbia basato il proprio impianto accusatorio sulle menzogne di un testimone ultra-screditato in cambio dell’immunità garantitagli dallo stesso governo USA.

 

Il testimone in questione è il cittadino islandese Sigudur “Siggi” Ingi Thordarson, il quale in un’intervista alla rivista Stundin ha ammesso di avere fabbricato le accuse rivolte contro Jualian Assange. La sua testimonianza costituisce il fulcro del capo d’accusa aggiuntivo contestato dalla giustizia americana ad Assange nel giugno del 2020, sostanzialmente allo scopo di rafforzare la posizione di Washington nel processo di estradizione tuttora in corso a Londra.

Alla luce delle implicazioni per la libertà di stampa derivanti dall’incriminazione di un giornalista ed editore come Assange in base al dettato del cosiddetto “Espionage Act” del 1917, l’allora amministrazione Trump si era mossa per rendere più grave la sua posizione, accusandolo di avere favorito l’hackeraggio di sistemi informatici governativi al fine di ottenere informazioni classificate. Prendendo forse spunto da una dichiarazione pubblica di Joe Biden nel 2010, il dipartimento di Giustizia di Trump aveva cioè cercato di dipingere Assange non come un giornalista, ma come un vero e proprio “hacker”.

Biden aveva spiegato in quell’occasione che se si fosse dimostrato un eventuale “complotto con membri delle forze armate USA per ottenere documenti riservati”, il caso contro Assange sarebbe stato molto più solido rispetto a una situazione nella quale a un giornalista viene semplicemente consegnato del materiale segreto da pubblicare. Grazie alla falsa testimonianza di Thordarson, dunque, il governo americano aveva cercato di rendere più solida l’accusa, mai provata, della “cospirazione” tra Assange e Chelsea Manning per penetrare nei computer del dipartimento della Difesa e, parallelamente, per dimostrare un’iniziativa simile ai danni di una banca islandese e di personalità politiche di questo paese.

Secondo quanto sostenuto dal dipartimento di Giustizia americano, all’inizio del 2010 Assange aveva chiesto a Thordarson, indicato semplicemente come “Teenager” per via della sua giovane età, di entrare in possesso di comunicazioni telefoniche ed elettroniche di funzionari di alto livello dell’Islanda, definita come “paese NATO 1”, inclusi membri del parlamento di Reykjavik. Thordarson ha invece smentito questa versione nella sua intervista al giornale islandese Stundin. Egli stesso ammette che Assange “non gli ha mai chiesto di hackerare i telefoni dei parlamentari” islandesi. Al contrario, Thordarson ha ricevuto il materiale in questione da una fonte terza che sosteneva di avere registrato le comunicazioni dei membri del parlamento e desiderava condividerle con WikiLeaks senza conoscerne il contenuto.

Identico discorso vale per le informazioni riservate provenienti dall’interno della banca islandese Landsbanki, andata in crisi nell’autunno del 2008 assieme a praticamente tutte le altre istituzioni bancarie islandesi, precipitando il paese in una gravissima crisi economica. Anche per questo materiale non ci sono evidenze che esso fu “sottratto” alla banca, ma venne piuttosto “distribuito” da fonti interne all’istituto e, già nell’estate del 2010, condiviso da molti in rete.

La terza smentita di Thordarson riguarda la tesi sostenuta dal dipartimento di Giustizia USA in merito al presunto accesso non autorizzato di Assange ad un sito web governativo islandese utilizzato per il tracciamento dei veicoli della polizia e del primo soccorso. Thordarson ha rivelato che fu lui a penetrare questo sito grazie alle credenziali che aveva come volontario di primo soccorso, mentre Assange non gli avrebbe mai chiesto nulla in proposito.

Importantissimo infine è il chiarimento fornito circa le comunicazioni avvenute tra Thordarson e alcuni gruppi di “hacker” a cui venivano sollecitati attacchi informatici in Islanda. Stundin è in grado di confermare, grazie all’esame delle chat di Thordarson, che né Assange né altri all’interno di WikiLeaks gli avevano dato istruzioni per agire in questo modo né di ciò erano in qualche modo al corrente. WikiLeaks, oltretutto, non aveva alcun interesse a colpire l’Islanda, anche perché era in corso allora una collaborazione con alcuni parlamentari per l’approvazione di una legge sulla libertà di stampa.

Thordarson, va aggiunto, non ha mai fatto parte di WikiLeaks, ma si era insinuato nell’organizzazione giornalistica nel 2010 svolgendo tutt’al più l’attività di volontario. Il suo comportamento era apparso da subito sospetto, visto che in più di un’occasione si era presentato a giornalisti e “hacker” come un membro di spicco di WikiLeaks senza averne l’autorizzazione. Nell’estate del 2011, poi, WikiLeaks denunciò Thordarson per l’appropriazione di 50 mila dollari provenienti dalle donazioni dei sostenitori e dalla vendita di “merchandising”.

Il precipitare dei rapporti con WikiLeaks spinse Thordarson a rivolgersi al governo americano per offrire i propri servizi all’FBI, probabilmente anche in seguito ai contatti intrattenuti con un altro “hacker”, Hector Xavier Monsegur, anch’egli diventato informatore del “Bureau” dopo essere stato arrestato per una serie di attacchi informatici, alcuni dei quali contro istituzioni islandesi.

Nella stessa estate del 2011, funzionari del governo USA arrivarono a Reykjavik, ufficialmente per informare l’Islanda delle minacce alla propria sicurezza informatica. In realtà, si trattava di un pretesto per incontrare Thordarson, che sarebbe stato infatti trasferito negli Stati Uniti di lì a poco, e per mettere le mani sui documenti in suo possesso. Thordarson sarebbe stato in ogni caso condannato nel 2013 e nel 2014 per vari reati, dall’appropriazione indebita di fondi di WikiLeaks alle molestie su miniori.

Dopo l’arresto illegale di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra nell’aprile del 2019, Thordarson fu di nuovo riciclato dal governo americano. In cambio dell’immunità negli USA, sottoscrisse un accordo con il dipartimento di Giustizia per gettare fango su Assange e permettere appunto a Washington di provare a costruire un’accusa più solida nel procedimento di estradizione in corso nel Regno Unito.

L’intervista pubblicata da Stundin conferma così le manovre illegali del governo degli Stati Uniti per incriminare Assange e mettere il bavaglio non solo a WikiLeaks, ma anche a qualsiasi giornalista che intenda far luce sui crimini di Washington. In questa vera e propria cospirazione sono coinvolti almeno anche i governi di Regno Unito, Ecuador, Australia e Svezia, dove Assange è stato a lungo al centro di una farsa giudiziaria derivante da accuse ultra-manipolate di stupro.

Il ricorso alla testimonianza di un criminale con varie condanne sulle spalle come Sigudur Thordarson non è ad ogni modo l’unica operazione sporca a cui ha fatto ricorso il governo americano. Tra le altre, basti pensare alle operazioni di sorveglianza condotte ai danni di Assange e dei suoi visitatori durante la permanenza forzata nell’edificio che ospita l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Alcuni dei particolari di questa vicenda erano emersi in concomitanza con l’apertura di un procedimento legale in Spagna contro la società a cui la CIA aveva assegnato il compito di controllare le attività e le comunicazioni di Assange.

Le irregolarità e le violazioni della legge da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati nella persecuzione di Julian Assange sono tante e tali da determinare, in una situazione normale, un’archiviazione immediata del suo caso. Il numero di uno di WikiLeaks, alla soglia del suo 50esimo compleanno, continua invece da un decennio a essere vittima di un colossale complotto che lo priva ingiustamente della libertà e lo espone tuttora al rischio, se estradato negli USA, di una condanna fino a 175 anni di carcere, se non addirittura a morte. È quindi tutt’altro che scontato che le parole del testimone del governo americano Thordarson possano giocare a favore di Assange, nonostante la portata oggettivamente esplosiva e le implicazioni dirette sul suo caso.

Lo scorso gennaio, la giudice britannica che presiede alla vicenda giudiziaria, Vanessa Baraitser, aveva deliberato contro l’estradizione per via del rischio di suicidio a cui potrebbe andare incontro Assange se finisse nella rete del sistema carcerario americano. La stessa giudice aveva tuttavia appoggiato in pieno le tesi del dipartimento di Giustizia USA e disposto la permanenza di Assange nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh in attesa della sentenza di appello.

In un sistema realmente democratico, dove la libertà di stampa non ha vincoli né limiti, anche senza considerare il contesto o i precedenti, le recenti ammissioni di Sigudur Thordarson dovrebbero far giungere alla conclusione a cui è arrivato Edward Snowden. In un tweet postato nel fine settimana, l’ex “contractor” della CIA ha scritto che la pubblicazione dell’intervista a Thordarson  dovrebbe rappresentare semplicemente “la fine del procedimento contro Julian Assange”.