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La giunta militare che ha preso il potere in Niger dopo il colpo di stato della scorsa estate ha ordinato nel fine settimana agli Stati Uniti di evacuare il proprio contingente militare presente sul territorio del paese del Sahel africano. Che Washington si adegui alla richiesta nigerina è ovviamente tutt’altro che probabile, ma il precipitare dei rapporti bilaterali, rimasti relativamente cordiali anche dopo il golpe, rappresenta l’ennesimo segnale della rapida perdita di influenza americana – e del resto dell’Occidente – in una regione dell’Africa che ha assunto un’enorme importanza strategica almeno a partire dalla finta rivoluzione in Libia oltre un decennio fa.

L’evoluzione degli orientamenti di politica estera del Niger sotto la guida del “Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria” si inseriscono nel quadro degli eventi che hanno riguardato negli ultimi anni svariati paesi dell’Africa sub-sahariana, come Mali e Burkina Faso, caratterizzati appunto dall’intervento dei militari contro governi ultra-corrotti e compromessi con le potenze occidentali, prima fra tutte la Francia. Quello che appare a tutti gli effetti un tentativo di liquidazione dei rapporti di forza neocoloniali, sia pure con tutte le problematiche e distorsioni del caso, si accompagna spesso all’apertura verso la Russia e, recentemente, anche all’Iran per soddisfare le esigenze di sicurezza dei nuovi regimi.

 

La perdita del controllo su un’area strategica del continente africano, così come il venir meno dell’accesso a ingenti risorse del sottosuolo, come l’uranio nel caso del Niger, e la penetrazione russa rappresentano elementi inaccettabili per Washington e Parigi, anche se l’indebolimento delle posizioni occidentali a discapito dei rivali è semplicemente la logica conseguenza delle politiche neocoloniali perseguite finora.

Per quanto riguarda il Niger, dove rimane per ora un contingente militare italiano, i problemi per l’amministrazione Biden sono iniziati subito dopo la visita di qualche giorno fa nella capitale, Niamey, di una delegazione americana composta dalla responsabile della diplomazia USA per l’Africa, Molly Phee, dal nuovo comandante del Comando Africano (AFRICOM), generale Michael Langley, e dall’assistente al segretario di Stato per la Sicurezza Internazionale, Celeste Wallander.

Secondo la versione americana, i tre avrebbero avuto una conversazione “molto diretta e schietta” con i leader nigerini circa il futuro dei rapporti militari bilaterali. In altre parole, gli inviati di Washington hanno intimato ai membri della giunta al potere di interrompere il processo di avvicinamento alla Russia e, a conferma dell’importanza delle ricchezze minerarie del Niger, a negare all’Iran l’accesso alle riserve di uranio del paese.

Il comunicato ufficiale del dipartimento di Stato sull’incontro ha citato anche una serie di argomenti che sarebbero stati trattati, tra cui il percorso verso il ritorno a un ordinamento democratico guidato da civili, la lotta al terrorismo e il ruolo in essa degli USA, la collaborazione con Washington sulle questioni della sicurezza e l’importanza del fatto che Niamey “gestisca le proprie partnership con paesi stranieri in accordo col diritto internazionale”. Al netto della retorica imperiale, la delegazione americana ha in sostanza prospettato sanzioni e iniziative minacciose anche di natura militare se le autorità del Niger dovessero privilegiare le relazioni con Russia e Iran nel quadro dei loro piani di stabilizzazione e sviluppo del paese.

Prevedibilmente, i toni e i contenuti della visita degli inviati americani hanno irritato i leader nigerini, anche perché è in seguito emerso che i dettagli dell’evento non erano stati nemmeno notificati in anticipo al governo di Niamey. L’arroganza USA ha finito così per provocare la rottura. Sabato, il portavoce della giunta militare, colonnello Amadou Abdramane, ha denunciato pubblicamente l’atteggiamento di superiorità degli americani, per poi annunciare la fine della collaborazione nell’ambito dell’antiterrorismo con i militari degli Stati Uniti stanziati in Niger.

La presenza americana in Niger è stimata in poco più di mille uomini tra soldati e “contractors”, dislocati in due basi militari. La prima si trova nella capitale, ma la gran parte dei militari USA è stata trasferita da alcuni anni in un’altra mega-struttura nella città settentrionale di Agadez, costata 110 milioni di dollari e utilizzata per le operazioni condotte con droni in tutta l’area del Sahel, ufficialmente per combattere le attività dei vari gruppi terroristici in essa presenti. Questa base ha assunto ancora maggiore importanza dopo che, all’indomani del colpo di stato del luglio scorso contro il presidente-fantoccio di Parigi, Mohamed Bazoum, era stato risolto bruscamente l’accordo di cooperazione militare con la Francia.

Le operazioni americane gestite da Agadez sono state comunque in parte sospese negli ultimi mesi. Alla luce dei fatti, Washington starebbe sondando altri paesi più “ospitali” per trasferire uomini e mezzi attualmente in Niger, come ad esempio Ghana o Costa d’Avorio. Le trattative sono però probabilmente ancora in alto mare e, soprattutto, la prospettiva di perdere una base costata moltissimo e la fine della presenza militare in un paese strategicamente rilevante per tutta l’Africa centro-settentrionale sollevano serie preoccupazioni a Washington.

Infatti, il Pentagono ha per ora ignorato l’ordine di evacuazione delle autorità nigerine. Pur riconoscendo la richiesta di lasciare il paese, gli Stati Uniti hanno affermato di volere cercare “chiarimenti” da parte della giunta, visto che il desiderio americano sarebbe di “prolungare la partnership” con il Niger. La richiesta di “chiarimenti” si tradurrà evidentemente in minacce più esplicite per convincere i militari al potere in Niger a ritornare sui propri passi e a sganciarsi da Mosca.

L’atteggiamento americano è tanto più assurdo se si considera che, dopo i temporeggiamenti iniziali, lo scorso ottobre l’amministrazione Biden aveva definito formalmente un “colpo di stato” quello avvenuto nel luglio precedente ai danni del presidente Bazoum. In questo modo, erano scattate le misure previste dalla legge USA, incluso lo stop allo stanziamento di fondi e restrizioni ai programmi di collaborazione in ambito militare. In definitiva, la presenza di soldati degli Stati Uniti in Niger è illegittima anche per la legge americana, ma il ritiro del contingente stanziato in questo paese continua a essere respinto, almeno per il momento, nonostante l’ordine impartito dalle autorità locali.

Dopo il golpe, in ogni caso, la nuova giunta militare non aveva sollevato il problema della presenza americana in Niger. Come già spiegato, solo ai francesi era stato dato il benservito, ma i primi segnali delle trame degli Stati Uniti erano arrivati nel mese di agosto con la visita a Niamey del vice segretario di Stato, Victoria Nuland, principale artefice del disastro ucraino e recentemente dimessasi dal suo incarico di governo.

Anche se non è dato sapere il reale contenuto dei colloqui di quest’ultima con i militari nigerini, è molto probabile che le richieste di Washington avessero a che fare con il reinsediamento del deposto presidente Bazoum o con la richiesta di garanzie in merito al contingente USA nel paese, nonché con l’accesso alle riserve di uranio e la collaborazione della giunta con la Russia. In tutti i modi, gli ufficiali al potere non hanno nemmeno in seguito discusso pubblicamente la questione delle basi americane, evidenziando la chiara preferenza per una politica estera improntata al multilateralismo.

Ciò ha portato al rafforzamento delle relazioni con Mosca nell’ambito della sicurezza, così come con l’Iran nello stesso settore e in quello energetico. Il rifiuto della giunta nigerina a tornare sotto il controllo esclusivo dell’Occidente, passando semplicemente dalla Francia agli Stati Uniti, si è alla fine scontrato con l’attitudine neocoloniale di Washington. Di fronte al consolidarsi della rete di influenza russa e iraniana in Niger, l’amministrazione Biden ha deciso di fare la voce grossa mettendo Niamey davanti a una scelta. L’iniziativa è risultata però controproducente e i nuovi leader del paese africano, forti proprio dell’appoggio russo e dell’allentamento delle pressioni degli organi regionali transnazionali, hanno consegnato l’ordine di sfratto ai militari americani. Resta da verificare se la decisione della giunta militare verrà confermata nei prossimi giorni o se rappresenta una sorta di leva per ottenere qualche concessione da Washington.

Il Pentagono stesso ha comunque fatto sapere di avere comunicato ai propri interlocutori nigerini tutte le preoccupazioni del governo degli Stati Uniti per l’evolversi dei loro rapporti con Russia e Iran. La mossa non è stata evidentemente delle più opportune, visto il crescente appeal rappresentato soprattutto da Mosca per i paesi del “Sud Globale” dopo l’esplosione della crisi ucraina. D’altra parte, il bilancio degli USA e dell’Occidente in generale in Africa risulta oggettivamente disastroso, così che i nuovi leader africani emersi dalle iniziative militari degli ultimi anni si sono ritrovati a scegliere un percorso quasi obbligato dal punto di vista strategico, non da ultimo per legittimare la propria autorità agli occhi dei rispettivi popoli.

Gli eventi di questi giorni in Niger, anche se tutt’altro che definitivi, parlano quindi ancora una volta del fallimento epocale delle politiche neocoloniali dell’Occidente e, in primo luogo, degli Stati Uniti, imposte dietro il paravento della democrazia e del diritto internazionale. Il clima sta insomma completamente cambiando, ma a Washington si continua a rimanere legati alle vecchie logiche unipolari. L’udienza al Senato americano di settimana scorsa del già ricordato generale Langley ha contribuito a confermare questa realtà. Discutendo proprio delle vicende africane, il comandante dell’AFRICOM ha spiegato che altri paesi del Maghreb e del Sahel “sono vicini a entrare nella sfera d’influenza della Federazione Russa”. Invece di fare un minimo di autocritica, Langley ha attribuito la crescente popolarità di Mosca alla campagna di disinformazione promossa dal Cremlino.

Secondo il generale, l’importanza di quest’area dipende dal fatto che essa è “il fronte meridionale della NATO” e, perciò, gli Stati Uniti devono “poter conservare accesso e influenza nel Maghreb, dal Marocco alla Libia”, dove Russia e Cina stanno perseguendo strategie a lungo termine con un grado di successo per il momento impossibile da avvicinare per gli Stati Uniti, se non con i consueti metodi basati principalmente su minacce e corruzione.