La crisi politica in Niger, seguita al colpo di stato di fine luglio, si sta evolvendo nelle ultime settimane verso la creazione di un nuovo equilibrio che sembra penalizzare soprattutto la Francia e le ambizioni neo-coloniali africane del presidente Macron. Gli sviluppi più recenti della vicenda riguardano le iniziative americane per conservare presenza e influenza nel paese del Sahel, messe in atto al preciso scopo di trarre il maggiore vantaggio possibile dalle difficoltà francesi e dall’avversione dilagante nei confronti dell’ex potenza coloniale.

 

La giunta che ha preso il potere a Niamey deponendo il presidente filo-francese, Mohamed Bazoum, continua a essere esposta a forti pressioni internazionali, ma un passo importante verso la stabilizzazione del quadro interno e regionale è stato fatto in seguito a un possibile accordo raggiunto con gli Stati Uniti. Ad annunciarlo è stato settimana scorsa il comandante delle forze aeree USA in Europa e in Africa, generale James Hecker, il quale ha rivelato che il suo paese ha ripreso le “missioni di sorveglianza e intelligence”, operate dal territorio nigerino e che erano state sospese all’indomani del colpo di stato. “Grazie alla diplomazia”, ha spiegato il generale, le forze americane sono tornare a operare nella regione sub-sahariana ad un ritmo quasi uguale a quello precedente l’intervento dei militari in Niger.

Gli Stati Uniti avevano da subito assunto un atteggiamento più cauto rispetto alla Francia nei confronti degli autori del golpe, ben sapendo che denunciare formalmente l’accaduto come un colpo di stato avrebbe costretto l’amministrazione Biden e il Congresso ad attivarsi per ritirare il contingente americano di stanza in Niger. Il 7 agosto, così, il dipartimento di Stato aveva inviato a Niamey la vice-segretaria, Victoria Nuland, una delle artifici principali della finta rivoluzione ucraina del 2014. La visita della diplomatica “neo-con” americana era sembrata non avere ottenuto risultati concreti, ma i frutti si sono invece visti in questi giorni.

Gli Stati Uniti hanno alla fine spostato uomini e mezzi ospitati da una base militare nei pressi della capitale nigerina a quella di Agadez, più di 900 km a nord. Questa struttura è tra le più critiche per Washington in tutto il continente africano e da qui partono le “missioni” operate con i droni ufficialmente dirette contro le varie organizzazioni fondamentaliste presenti nella regione. Di fatto, quindi, mentre la giunta al potere continua a spingere per l’espulsione dei circa 1.500 militari francesi sul proprio territorio, gli USA si sono assicurati, almeno per il momento, la possibilità di mantenere i propri uomini, sia pure dopo qualche aggiustamento logistico.

La presenza di forze armate straniere in Niger, così come in altri paesi vicini, era iniziata dopo la guerra civile orchestrata dall’Occidente in Libia nel 2011. La caduta di Gheddafi aveva scatenato il caos nella regione, disperdendo forze terroristiche che per anni avrebbero destabilizzato l’area del Sahel. La confusione e le violenze innescate dall’operazione libica erano state a loro volta sfruttate soprattutto da Francia e Stati Uniti per allargare la propria presenza in paesi strategicamente importanti e dotati di consistenti risorse del sottosuolo, come appunto il Niger.

In questi ultimi anni, Washington e Parigi hanno però assistito al crescere di una vera e propria mobilitazione popolare contro la presenza militare occidentale, correttamente identificata come responsabile del degrado economico e della sicurezza dei rispettivi paesi. Una serie di colpi di stato militari, volti in primo luogo a evitare la destabilizzazione delle strutture di potere, hanno così deposto governi e regimi legati a doppio filo con l’Occidente. Dal Mali al Burkina Faso, dal Niger al Gabon, le forze golpiste hanno in varia misura assunto un atteggiamento anti-occidentale, aprendo talvolta alla cooperazione in ambito militare con la Russia o, indirettamente, con il gruppo Wagner.

Dietro a questa facciata c’è però un atteggiamento più pragmatico, com’è apparso chiaro nel caso del Niger. La giunta militare ha probabilmente accolto la proposta americana di garantire la presenza del contingente USA in cambio di un allentamento delle pressioni. Nel contempo, la presenza francese viene fortemente ridimensionata. Uno sviluppo, quest’ultimo, tutt’altro che sgradito anche a Washington, dove il prevalere anche sugli alleati nominali nella competizione per l’Africa resta un obiettivo strategico primario.

È probabile inoltre che l’accordo favorito da Victoria Nuland includa anche un qualche impegno a tenere fuori dai confini del Niger militari e “consiglieri” russi o uomini della Wagner. Per la giunta nigerina si tratta di un gioco degli equilibri, ritrovandosi a dover consolidare la propria posizione di potere in presenza di una insistente richiesta popolare di cacciare dal paese i militari occidentali, soprattutto francesi, e di guardare alla Russia per aiuti e assistenza.

D’altro canto, su Niamey resta la minaccia dell’intervento militare esterno per rimettere al suo posto il deposto presidente Bazoum. Un’operazione di questo genere verrebbe sostanzialmente affidata da Parigi alla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS). È evidente però che l’intesa verosimilmente raggiunta tra i nuovi detentori del potere in Niger e Washington rende meno probabile la minaccia militare. Inoltre, va ricordato che alcuni paesi ECOWAS, come Mali e Burkina Faso, e una potenza regionale come l’Algeria si sono detti contrati alla soluzione militare per la crisi nigerina.

L’incognita principale resta la reazione del governo di Macron a un’evoluzione degli eventi che vede penalizzati gli interessi francesi in un’area del continente africano tradizionalmente sottoposta al controllo di Parigi. Le tensioni in merito all’Africa tra Stati Uniti e Russia (o Cina) non sono dunque l’unico fattore destabilizzante. I fatti di questi ultimi mesi indicano anche crescenti frizioni tra Stati Uniti e Francia, acuite anzi proprio dall’inasprirsi della competizione per l’Africa e dalla presa di coscienza, da parte di popoli e classi dirigenti locali, di occasioni di crescita e sviluppo alternative a quelle improntate alle logiche neo-coloniali.

A Parigi, i malumori per il comportamento americano stanno già circolando da tempo. Un recente articolo del quotidiano Le Figaro sull’argomento ha a questo proposito citato un funzionario anonimo del ministero degli Esteri francese che, in riferimento agli Stati Uniti e alla situazione africana, affermava che, “finché avremo alleati di questo genere, non avremo bisogno di nemici”. Resta da vedere se la Francia intenderà rassegnarsi a perdere terreno nelle sue ex colonie oppure se deciderà di portare la crisi nigerina al limite e insistere per un intervento militare, al momento però escluso dall’amministrazione Biden.

I segnali per la Francia continuano in ogni caso a essere tutt’altro che positivi. Qualche giorno fa, il presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin Touadera, in un incontro a Parigi ha ad esempio spiegato esplicitamente a Macron che i rapporti tra il suo paese e la Russia non sono affari della Francia. L’Eliseo aveva probabilmente insistito su Touadera per rompere i rapporti, intensificati negli ultimi anni, con Mosca e il gruppo Wagner. Settimana scorsa, infine, il governo del Burkina Faso ha deciso l’espulsione dell’addetto all’ambasciata (“attaché”) francese perché impegnato in “attività sovversive”. I leader di questo paese, protagonisti anch’essi di un golpe militare lo scorso anno, hanno annunciato inoltre la prossima chiusura della “missione militare” francese nella capitale Ouagadougou.

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