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di Carlo Musilli
Dopo anni di marginalità forzata, l'Iran torna ad avere il coltello dalla parte del manico sul mercato del petrolio. La rivalsa di Teheran è legata non soltanto alla revoca delle sanzioni in seguito all'accordo sul nucleare, ma anche ai calcoli sbagliati dall'Arabia Saudita, che la settimana scorsa ha cercato invano di correggere la propria strategia.
Insieme a Qatar e Venezuela (entrambi Paesi Opec), martedì 16 febbraio Riyadh ha siglato un accordo con la Russia per congelare la produzione di greggio ai livelli di gennaio. Non si tratta di una svolta in grado di far risalire il prezzo del barile nel lungo termine, dal momento che l’attuale livello di produzione globale supera la domanda di almeno due milioni di barili al giorno, ma l'intesa è comunque importante, perché segna la fine di un muro contro muro durato 15 anni e l'inizio di una fase di disgelo fra Mosca e il cartello dei produttori.
Con questa mossa l'Arabia Saudita - dominus dell'Opec - rinnega per la prima volta la politica della sovrapproduzione inaugurata mesi fa per abbattete i prezzi e danneggiare così i Paesi concorrenti, guadagnando quote di mercato a livello globale. La prima parte del piano ha funzionato: se nella seconda metà del 2014 i prezzi del petrolio viaggiavano oltre i 100 dollari al barile, quest’anno sia il Brent sia il Wti sono scesi fin sotto i 30 dollari (oggi si attestano poco oltre questa soglia), toccando i livelli più bassi da oltre 10 anni.
Eppure, la caduta dei prezzo non ha dato finora i risultati che Riyadh sperava, visto che nel mirino dei sauditi c’era in primo luogo la produzione statunitense di shale oil (il petrolio ottenuto con la tecnica non convenzionale del fracking, la fratturazione idraulica della roccia). Anche se è stato raggiunto l’obiettivo minimo - evitare che gli Stati Uniti si affrancassero dai Paesi arabi per l’approvvigionamento di energia - le società Usa di shale oil costrette a dichiarare bancarotta sono state molte meno di quelle che ci si attendeva alcuni mesi fa. Secondo le ultime stime, i giacimenti di petrolio da scisto di almeno 10 contee del Texas potrebbero viaggiare in utile anche con prezzi inferiori ai 30 dollari al barile e in alcuni casi la soglia di sopravvivenza sarebbe addirittura a 22,5 dollari. Il settore, insomma, ha rivelato capacità di resistenza superiori a quelle pronosticate dai sauditi.
Il fallimento su questo fronte non è facile da accettare per l’Arabia, che per attuare la strategia dei prezzi bassi ha sacrificato anche i propri redditi da petrolio (il 90% delle entrate del Paese), chiudendo il 2015 con un deficit pubblico di circa 130 miliardi di dollari, pari a 118 miliardi di euro (per intenderci, più di tre volte l’ultima legge di Stabilità italiana). Il disavanzo record ha costretto Riyadh ad annunciare un taglio alla spesa e ai sussidi pubblici, provocando non poco malcontento.
A questo punto, però, invertire la rotta non è facile. Un semplice taglio della produzione non basterebbe a far risalire le quotazioni in modo significativo nel lungo periodo, almeno per due ragioni. Primo, perché per rivelarsi efficace la riduzione dovrebbe essere davvero molto significativa, addirittura superiore al 50% stando ai calcoli di vari analisti. Secondo, perché un’operazione del genere dovrebbe essere concordata perlomeno fra Opec e Russia: se fosse messa in pratica da un singolo Paese - anche dall’Arabia Saudita - equivarrebbe a un suicidio commerciale.
Non a caso, l’accordo siglato a Doha il 16 febbraio prevedeva una clausola: “I quattro Paesi - ha spiegato Mohammed Saleh al-Sada, ministro del petrolio del Qatar - hanno concordato di congelare la produzione ai livelli di gennaio a condizione che gli altri grandi produttori facciano lo stesso”.
Il riferimento è naturalmente all’Iran, che a gennaio, subito dopo la fine delle sanzioni - per colpa delle quali le sue esportazioni di greggio sono crollate da circa 2,5 milioni di barili al giorno nel 2011 agli attuali 1,1 mbg - aveva annunciato un piano per aumentare l’export di petrolio di 500mila barili al giorno.
Com’era prevedibile, mercoledì 17 febbraio Mehdi Asali, delegato iraniano all’Opec, ha definito “illogica” la richiesta di congelare la produzione: gli altri esportatori hanno approfittato degli anni di embargo nei confronti della Repubblica islamica per aumentare il loro output fino a 4 milioni di barili al giorno “e ora si aspettano che l’Iran paghi il costo di un riequilibrio. Se ci chiedono di diminuire la nostra produzione, la risposta è no”.Subito dopo il ministro del petrolio iraniano Bijan Zanganeh, al termine di un incontro con i suoi omologhi di Iraq, Qatar e Venezuela, ha detto che Teheran “appoggia la decisione presa da membri Opec e paesi non-Opec di mantenere un tetto alla produzione per stabilizzare il mercato e i prezzi a beneficio dei produttori e dei consumatori”. Parole sibilline con cui il ministro è riuscito a confondere i mercati, provocando un immediato e inspiegabile rialzo delle quotazioni che è stato riassorbito nei giorni seguenti.
In realtà, la posizione dell’Iran è piuttosto chiara: se gli altri Paesi si sforzano di far risalire il prezzo del greggio ben venga, ma non si può pretendere che questo obiettivo sia raggiunto con la collaborazione di Teheran, che dal 2013 a causa degli embarghi internazionali ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. Insomma, la produzione globale aumenterà invece di diminuire o di stabilizzarsi. Del resto, con l’Arabia Saudita in difficoltà, come si può chiedere all’Iran di non picchiare sulla ferita?
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di Carlo Musilli
Se nella tragedia greca le colpe dei padri ricadevano sui figli, nell’Italia contemporanea il potere dei figli dà una mano alle banche dei padri. Dopo il caso Boschi-Banca Etruria, a far discutere è il collegamento fra la riforma degli istituti di credito cooperativo e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il renzianissimo Luca Lotti.
Iniziamo dal principio: cosa sono le Bcc e in cosa si distinguono dalle altre banche? La caratteristica più importante del credito cooperativo è la mutualità. L'attività di queste banche non persegue l'obiettivo del profitto, ma del vantaggio: innanzitutto quello dei soci, cui le Bcc concedono la maggior parte del credito, poi quello della comunità locale e del territorio in cui gli istituti svolgono la loro attività.
Le banche di credito cooperativo devono destinare almeno il 70% degli utili netti annuali a riserva legale e il 3% dei profitti deve essere corrisposto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Ciò che resta degli utili dopo la distribuzione ai soci deve essere destinato a fini di beneficenza o mutualità.
Mercoledì 10 febbraio il Consiglio dei ministri ha varato un decreto sulle banche che contiene, fra l’altro, la riforma delle Bcc (il testo è stato approvato “salvo intese”, il che significa che potrà essere modificato ancora dall’Esecutivo prima di arrivare in Parlamento). Il provvedimento impone a questi istituti - in tutto 376 - di aderire a un unico gruppo bancario cooperativo guidato da una Spa con un patrimonio non inferiore al miliardo di euro. La maggioranza del capitale della holding sarà in mano alle banche del gruppo, mentre il resto potrà entrare nei portafogli di soggetti omologhi (gruppi cooperativi bancari europei o fondazioni) oppure essere quotato in Borsa.
L’obbligo di adesione al gruppo unico, però, non vale per tutte le Bcc: potranno scegliere di sottrarsi a questa regola le banche che hanno riserve per almeno 200 milioni di euro e accetteranno di versare su queste un'imposta straordinaria del 20%. Gli istituti che seguiranno questa strada, tuttavia, perderanno lo status di Bcc e dovranno trasformarsi in Spa (diventando perciò facilmente scalabili, viste le dimensioni di queste banche), altrimenti scatterà la liquidazione.
Il punto più controverso della riforma è proprio questo paracadute concesso alle poche Bcc che avrebbero riserve sufficienti per sfilarsi (“una decina” secondo il ministro Padoan, 14 stando ai dati di Mediobanca riferiti al 2014). Federcasse, l’associazione degli istituti di credito cooperativo, sostiene che questa norma creerebbe disparità di trattamento tra le banche, favorendo la frammentazione bancaria e indebolendo la coerenza cooperativa. Inoltre, c’è il rischio che sia incostituzionale.
In gioco ci sono infatti le cosiddette “riserve indivisibili”, accumulate dalle Bcc in regime di esenzione d’imposta per svolgere attività mutualistica, che in base all’articolo 45 della Costituzione italiana non può avere “fini di speculazione privata”. L’obiezione, perciò, è che dare questi soldi a una Spa dietro pagamento del 20% significherebbe privatizzare un bene comune.
“A me sembra una riforma che aiuta a consolidare il sistema delle Bcc”, replica il sottosegretario Lotti, considerato l’artefice dell’inserimento nel decreto della norma della discordia, peraltro non prevista nella versione originaria della riforma - su cui le Bcc avevano lavorato per mesi con il Tesoro e Bankitalia - e invisa a mezzo governo, dai ministri Alfano e Galletti alla minoranza Pd, da Scelta Civica ad Area popolare, più buona parte delle opposizioni. Il problema è che, in questa vicenda, Lotti non è proprio super partes. L’accusa mossa al sottosegretario, e di riflesso al Premier, è di voler favorire gli istituti toscani, i più insofferenti all’idea di aggregarsi alla holding unica (perché puntano a costituire un polo bancario regionale). Su tutte Chianti Banca e, soprattutto, la Bcc di Cambiano, che ha sede a Castelfiorentino, piccolo Comune in provincia di Firenze.
Di questo istituto è dirigente Marco Lotti, padre del sottosegretario, e presidente Paolo Regini, renziano della prima ora, già sindaco Ds di Castelfiorentino dal 1990 al 1999 e tuttora marito della senatrice Pd Laura Cantini (a sua volta sindaco di Castefiorentino dal 1999 al 2009, oltreché vicepresidente della Provincia di Firenze).
Non solo. Nel 2009 era stata proprio la Bcc di Cambiano a concedere a Renzi un mutuo di 72mila euro per la campagna elettorale che lo ha portato a diventare sindaco di Firenze e nel 2012 lo stesso istituto si è occupato della raccolta fondi per la candidatura dell’attuale capo del governo alle primarie del Pd. Una strategia azzeccata, a quanto pare.
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di Carlo Musilli
La parte peggiore della tempesta è forse alle spalle, ma il cielo sopra le banche italiane non è ancora sereno. Tutt’altro. Al di là del rimbalzo di venerdì scorso a Piazza Affari, trainato in larga misura dal riaccendersi del risiko sulle popolari - in molti considerano ormai scontata la fusione fra Banco Popolare e Bpm -, per diversi istituti del nostro Paese il riscatto è ancora lontano. Secondo i dati di Borsa Italiana, nella classifica dei 10 peggiori titoli da inizio anno, la metà sono bancari: Mps (-46,54%), Carige (-43,09%), Banco Popolare (-33,80%), Unicredit (-31,24%) e Ubi (-31,12%).
Come mai, visto che sia dalla Bce sia dalla Banca d’Italia sono arrivate rassicurazioni sui conti del nostro sistema creditizio? Si sbaglia Draghi, quando dice che “le banche italiane hanno accantonamenti simili a quelli dell'area euro e hanno anche un alto livello di garanzie e collaterali”? Oppure sbaglia Visco, secondo cui “le banche italiane sono ben patrimonializzate” e “i crediti deteriorati sono ampiamente coperti da svalutazioni e garanzie”? In realtà non sbaglia nessuno: neanche i mercati.
La spiegazione più ovvia è che, in larga parte, i crolli cui abbiamo assistito nelle ultime settimane siano frutto della speculazione dei grandi operatori, evidentemente orientata al ribasso. Lo strumento principe per mettere in pratica questo genere di strategia è la vendita allo scoperto (o short selling), che consiste nel vendere titoli non posseduti direttamente, impegnandosi ad acquistarli dopo un determinato periodo di tempo, in genere assai breve. Il margine di guadagno sussiste nel momento in cui il prezzo di vendita (oggi) è superiore a quello di acquisto (domani), per cui si parla di speculazione al ribasso. In sostanza, si scommette sul fatto che un titolo perderà valore. A volte, però, l’investitore che vende allo scoperto ha una potenza di fuoco e una reputazione tale da orientare il mercato, per cui l’esito della scommessa è in qualche misura condizionato.
Un investitore di questo calibro è George Soros, che a inizio gennaio ha paragonato le turbolenze finanziare globali, esacerbate dai crolli dei mercati cinesi, “alla crisi che abbiamo vissuto nel 2008”. Chi conosce un po’ le regole del gioco sospetta fortemente che il buon Soros - probabilmente uno degli speculatori più noti al mondo, senz’altro uno dei più spregiudicati - abbia un interesse preciso ogni volta che semina allarmismo a piene mani. Fece la stessa cosa nel settembre del 2011, quando parlò della crisi economica dell’Eurozona, e nel 1992, quando contribuì a portare la Lira sull’orlo del baratro.
Ora, nemmeno alla più nichilista delle cassandre verrebbe in mente di paragonare la congiuntura attuale a quella del 2008, per cui sembra lecito dedurre che il caro vecchio George abbia deciso di scommettere sui ribassi. Forse ha dettato la linea, forse ha scoperto carte che erano già in mano anche ad altri giocatori, fatto sta che in questo strano 2016 i mercati internazionali sembrano seguire la via indicata dal finanziere di Budapest.
Intendiamoci, i segnali negativi non mancano, dal crollo senza fine del prezzo del petrolio al rischio geopolitico legato al fronte mediorientale. Eppure, nella realtà dei conti spesso non esistono motivazioni valide per giustificare l’accanimento reiterato contro i medesimi titoli. Nel caso delle banche italiane, per qualche giorno si è provato a dire che l’ondata di vendite era legata a un’indagine Bce sui crediti deteriorati dei nostri istituti (ovvero quelli a rischio e quelli che certamente non saranno restituiti).In effetti, le sofferenze sono un problema reale per il nostro sistema bancario e non è ancora chiaro quanto le nuove bad bank “light” concordate dal Tesoro con Bruxelles saranno in grado di aiutare. Tuttavia, non c’è alcuna catastrofe alle porte. Lo stesso Mario Draghi ha chiarito che l’operazione della Bce è del tutto ordinaria: non coinvolge solo gli istituti del nostro Paese e soprattutto non prelude affatto alla richiesta di ulteriori accantonamenti o di nuovi aumenti di capitale.
Al contrario, a dicembre la Banca centrale europea aveva già condotto un esame piuttosto complesso sulla solidità patrimoniale di vari istituti dell’Eurozona, e tutte le grandi banche italiane erano state promosse, perfino la tanto bersagliata Mps.
In questo scenario, l’ultima conferenza stampa di Draghi a Francoforte è stata particolarmente istruttiva: dopo aver ripetuto più volte che non è suo compito giudicare l’andamento delle Borse, Supermario ha inchiodato tutti affermando che il comportamento dei mercati è “legato a una certa confusione” e che “la migliore risposta alle tensioni è assicurare che il comparto bancario è resistente: tutte le misure prese, sia in Europa che nel mondo, hanno prodotto un settore ben più forte di quanto fosse prima della crisi”. Con buona pace di Soros e di quelli come lui.
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di Carlo Musilli
Il nuovo sport invernale dei mercati europei è il tiro alla banca italiana. Dopo l’ecatombe di lunedì, quando praticamente tutti i titoli degli istituti hanno subito ribassi superiori al 5% a Piazza Affari, ieri l’ondata di vendite ha travolto ancora Monte Paschi (-14,3%), Carige (-11%), Unicredit (-3,4%) e Banco Popolare (-6,3%). Perché mai tanto accanimento?
Non esistono motivazioni plausibili sotto il profilo patrimoniale per giustificare una tempesta di ribassi così improvvisa e generalizzata. E’ vero, i mercati vivono anche - se non soprattutto - di sentimenti irrazionali e reazioni inconsulte, ma quello che è andato in scena a Milano nelle ultime sedute ha i connotati di un attacco speculativo apparecchiato in piena lucidità dai grandi fondi.
Si dice che le vendite a tappeto siano state innescate da una notizia in particolare: l’avvio di una nuova indagine Bce sulle banche italiane per quel che riguarda i cosiddetti crediti deteriorati (non performing loans, in English). Si tratta di tutti quei prestiti la cui riscossione è incerta sia in termini di rispetto delle scadenze sia per l’ammontare dell’esposizione: comprendono sia le sofferenze (che si hanno quando il debitore è insolvente) sia gli incagli (cioè quando il debitore è in difficoltà temporanea).
Proprio le sofferenze sono il tallone d’Achille del sistema bancario italiano. Appena ieri l’Abi ha certificato che la loro somma è tornata a superare i 200 miliardi di euro, pari al 17% del totale dei prestiti concessi dagli istituti di credito. Lo stesso dato in Germania è al 3%, in Francia al 4% e in Spagna al 7%.
Ma basta una verifica della Bce a spiegare il panico che si è scatenato sui mercati? Difficile, se non altro perché il monitoraggio da parte dell’Eurotower era stato annunciato lo scorso 12 gennaio e ieri la stessa Banca Centrale Europea ha ricordato che si tratta di procedure standard. Le ha fatto eco l’Abi, spiegando che “la richiesta rivolta a un campione di banche europee, tra cui anche alcune banche italiane”, rappresenta “un esercizio ordinario di raccolta di informazioni” e dunque “non di un’azione di vigilanza mirata all'adozione di misure specifiche nei confronti di alcune banche”. Anche il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha sottolineato che l'attività “della Bce è una delle solite rassegne che periodicamente avviene: non c'è alcun motivo specifico per le vendite” in Borsa.
Non solo: appena un mese fa tutti i più grandi istituti italiani hanno superato l’indagine Srep (Supervisory review and evaluation process), ovvero i test della Bce su capitale, liquidità, governance e modello di business. In particolare, Mediobanca, Intesa Sanpaolo e la Banca Popolare di Milano si sono piazzate in seconda categoria, mentre la maggioranza si è collocata nella terza fascia (è il caso di Unicredit, Ubi, Bper, Carige e perfino Mps, la più bersagliata a Piazza Affari).
A guardare i dati, perciò, sembra proprio che il problema numero uno delle banche italiane non sia di natura contabile, ma politica. L’impressione è che l’Europa utilizzi gli istituti di credito come strumenti per distribuire ricompense e punizioni a figli e figliastri. Lo dimostra, ad esempio, l’incredibile disparità di trattamento in tema di salvataggi.
Il 19 ottobre scorso Bruxelles ha approvato il piano per evitare il crack della tedesca HSH Nordbank, che prevedeva aiuti di Stato. Nemmeno due mesi dopo, però, ha proibito all’Italia di usare il Fondo Interbancario (finanziato dagli istituti, non dai contribuenti) per salvare Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Non solo: la Commissione Ue ha minacciato di aprire una procedura d’infrazione contro il nostro Paese per aiuti di Stato e ha di fatto costretto il Governo e Bankitalia ad attivare la risoluzione che ha causato le ormai note perdite ai risparmiatori titolari di bond subordinati delle banche.Un’altra vicenda da ricollegare all’alta tensione fra Roma e Bruxelles è lo psicodramma legato alla bad bank di sistema, la società di matrice pubblica che il governo Renzi vorrebbe creare per gestire, ristrutturare e rivendere i crediti deteriorati delle banche italiane. Ad altri Paesi europei, come la Spagna, è stato concesso di utilizzare questo strumento: l’Italia, invece, è in trattative ormai da mesi e non riesce a superare il no della commissaria Margrethe Verstagen, dietro cui c’è la secca opposizione tedesca.
In questa partita, il bail in poteva essere una moneta di scambio efficace. Il nostro Paese avrebbe potuto forse chiedere il via libera alla bad bank in cambio dell’approvazione in Parlamento delle nuove norme sui salvataggi bancari dall’interno (che prevedono il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e depositi superiori ai 100mila euro). Invece Camera e Senato hanno trasformato il bail in legge senza battere ciglio e solo dopo al Governo è venuto in mente di scagliarsi contro l’eurocrazia opprimente dei burocrati. Lancia in resta, ma senza niente in mano.
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di Carlo Musilli
Dopo nove anni di congelamento, a Teheran inizia il disgelo. Unione europea, Stati Uniti e Onu hanno revocato le sanzioni contro l’Iran, che torna così ad avere un ruolo di peso sulla scena economica e politica mondiale. La decisione è arrivata dopo che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha dato il via libera all'applicazione degli accordi di Vienna, certificando che le autorità iraniane hanno rispettato gli impegni sul nucleare sottoscritti lo scorso 14 luglio con sei potenze (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza Onu - Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina - più la Germania). Rimangono in vigore solo le sanzioni Usa legate alla sperimentazione dei missili balistici e al rispetto dei diritti umani.
L’accordo sul nucleare iraniano prevede che Teheran fornisca garanzie sul fatto che non si doterà dell’arma atomica. L’Occidente, in cambio, revocherà gradualmente le sanzioni adottate a partire dal 2006, tra cui il congelamento dei beni di individui e società collegate al programma di arricchimento.
Dal 2013, a causa degli embarghi internazionali, l’Iran ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. A fronte di una popolazione di oltre 77 milioni di persone, sotto le sanzioni il Pil del Paese ammontava a poco più di 400 miliardi di dollari (per avere un termine di paragone, basti pensare che l’Italia ha circa 60 milioni di abitanti e un Pil da 2.150 miliardi). A questo punto, perciò, davanti a Teheran si spalancano le porte della crescita, che naturalmente passerà per la ripresa delle esportazioni di petrolio e gas naturale, di cui l’Iran detiene rispettivamente il 9,3% e il 18,2% delle riserve mondiali.
Dal greggio, Teheran ricava già l’80% del proprio export e a breve conta di poter esportare mezzo milione di barili in più ogni giorno. Il problema è che dovrà reinserirsi in un mercato dominato da sovrapproduzione e prezzi bassissimi. La prima responsabile di questo scenario è l’Arabia Saudita - nemica dell’Iran a livello economico, politico e religioso -, che ha interesse a tenere il barile a prezzi stracciati per danneggiare i principali concorrenti (su tutti i produttori americani di shale oil) e conquistare così quote di mercato a livello globale.
L’egemonia di Riyadh sullo scacchiere del petrolio è però fortemente minacciata dal ritorno sulla scena di Teheran (non a caso ieri l'indice Tasi della Borsa saudita, che è aperta la domenica, ha chiuso in calo del 5,44%, scivolando ai minimi dal marzo 2011). Per questa ragione, oltre che per la contesa in Iraq e in Siria, dove l’Iran è alleato di Assad e di Putin, nelle ultime settimane la tensione fra i due Paesi è salita alle stelle. L’Arabia di re Salman - fondamentalista sunnita - ha dato inizio all’escalation con l’esecuzione dell’Imam sciita Nimr al-Nimr, cui hanno fatto seguito l’assalto all’ambasciata saudita nella capitale iraniana e la decisione di Riyadh d’interrompere le relazioni diplomatiche con il Paese rivale.
L’Arabia non è però riuscita a mettere in discussione l’applicazione degli accordi di Vienna e a questo punto è prevedibile che continuerà ancora a lungo la battaglia sul prezzo del barile, nel tentativo sempre più affannoso di rimanere il dominus internazionale del petrolio. L’Iran, dal canto suo, punta a indirizzare nel più breve tempo possibile il proprio greggio verso i mercati asiatici (in particolare India e Cina, visto che Giappone e Corea del Sud già compravano petrolio iraniano, con gli Stati Uniti che chiudevano un occhio). Secondo alcuni osservatori internazionali, 13 super petroliere sarebbero già pronte a partire.L’eccesso di petrolio sul mercato, perciò, aumenterà ancora invece di ridursi e ciò avrà conseguenze di varia natura per l’Europa. Da una parte, il prezzo dei carburanti sempre più basso rallenterà ancora l’inflazione, riducendo l’efficacia delle misure monetarie espansive varate dalla Bce. Dall’altra, molte aziende che hanno già incrementato i propri guadagni grazie al minor costo dell’energia beneficeranno del ritorno sulla scena dell’Iran anche perché - una volta ritirate tutte le sanzioni - Teheran ha le carte in regola per diventare il più grande mercato del Medio Oriente per l’export occidentale.
La settimana scorsa il ministro dei Trasporti iraniano ha annunciato l’intenzione di comprare 114 aerei Airbus, mentre il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tolto il bando per l’export verso l’Iran di aerei civili. Quanto all’Italia, la Sace, società che si occupa di assicurare le operazioni di export delle nostre aziende, stima che la fine delle sanzioni contro l’Iran potrebbe portare a un incremento dell’export italiano nel Paese fino a tre miliardi di euro nei prossimi quattro anni. Con l’eccezione dell’Arabia Saudita, perciò, il disgelo di Teheran conviene a tutti.