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- Scritto da Michele Paris
Il governo libanese sta camminando letteralmente su un campo minato nel tentativo di conciliare le richieste americane – e israeliane – di disarmare Hezbollah con le esigenze di stabilità interna che non possono prescindere dalle legittime garanzie rivendicate dal partito/milizia sciita. Lunedì, l’inviato della Casa Bianca, Tom Barrack, è arrivato a Beirut per ascoltare la risposta delle tre più alte cariche del paese dei cedri alla “proposta” da lui stesso recapitata il 19 giugno scorso, nella quale chiedeva l’implementazione del principio che solo lo stato deve detenere il monopolio della forza e delle armi. Le prime dichiarazioni pubbliche sembrano essere all’insegna dell’ottimismo, ma ciò che chiede Washington, assieme a Tel Aviv, è in definitiva la cancellazione della Resistenza in Libano come prerequisito per il rispetto da parte di Israele della tregua, sottoscritta lo scorso novembre e ripetutamente violata. Anche se ci sono settori della classe politica libanese pronti a consegnarsi nelle mani del nemico sionista, l’opposizione di Hezbollah, anche se indebolito, rende improbabile una soluzione in questo senso e prospetta anzi, se le posizioni americane non dovessero cambiare, una nuova rovinosa guerra civile.
Dopo la campagna militare israeliana in Libano che ha decapitato parte della leadership di Hezbollah e inflitto seri danni sia alle strutture dello stesso movimento di resistenza sia all’intero paese, Trump e Netanyahu hanno lanciato un’offensiva “diplomatica” nei confronti di Beirut per allineare il paese agli interessi dei due alleati. Hezbollah è l’ostacolo numero uno a questi piani, ma pressioni e minacce difficilmente riusciranno a favorire questo risultato, vista la forza residua del movimento sciita e il suo radicamento nella società libanese. Radicamento e autorità che derivano in primo luogo dalla funzione di salvaguardia della sovranità del Libano e di unica vera opposizione alla minaccia sionista, grazie in primo luogo a un arsenale militare solo in parte intaccato dall’aggressione israeliana.
Le pressioni americane sul Libano hanno assunto la forma di negoziati con il presidente, Joseph Aoun, il primo ministro, Nawaf Salam, e lo “speaker” del parlamento, Nabih Berri, leader del partito Amal, alleato di Hezbollah. Secondo le richieste USA, questo trio doveva stilare un piano per arrivare nell’arco di qualche mese al totale disarmo di Hezbollah, così da evitare un’escalation delle pressioni e, anzi, una probabile nuova aggressione militare da parte di Israele. Vincolato alla resa di Hezbollah c’è anche il finanziamento della ricostruzione del paese dopo i bombardamenti dello stato ebraico e l’impegno di Tel Aviv a rispettare finalmente i termini della tregua, che ha peraltro già sottoscritto, inclusa l’evacuazione dalle cinque postazioni militari che le forze di occupazione tuttora detengono in territorio libanese.
Le richieste americane e israeliane riflettono un livello di sicurezza tale da far passare in secondo piano, almeno apparentemente, le ripercussioni che un attacco frontale contro Hezbollah avrebbe per i già fragilissimi equilibri interni libanesi. Tra i tre esponenti di vertice delle istituzioni del paese, il premier Salam è quello che ha finora tenuto un’attitudine più aggressiva verso Hezbollah, agendo di fatto da portavoce di Washington e Tel Aviv nonostante la retorica della sovranità e dell’impegno a fare delle forze armate libanese l’unico soggetto deputato alla difesa e alla sicurezza. Il presidente Aoun ha invece invocato un percorso più cauto e condiviso verso il disarmo di Hezbollah, mentre Berri funge in sostanza da tramite del partito-movimento sciita.
Hezbollah, da parte sua, proprio alla vigilia del ritorno dell’inviato di Trump a Beirut ha ribadito per voce del suo segretario generale, Naim Qassem, i punti non negoziabili per l’eventuale accettazione della “road map” proposta da Washington. Qassem ha parlato pubblicamente domenica in occasione della festività sciita Ashura, spiegando che qualsiasi iniziativa del suo movimento dovrà essere preceduta dal rispetto da parte di Israele delle condizioni stabilite nella tregua di novembre, basata a sua volta sulla Risoluzione ONU 1701. Vale a dire il ritiro dalla parte di territorio libanese tuttora occupato, la fine dell’aggressione militare e il rilascio dei prigionieri libanesi fatti durante la guerra dello scorso autunno e successivamente.
Solo quando queste condizioni saranno soddisfatte, ha aggiunto il successore di Hassan Nasrallah, Hezbollah sarà pronto per passare alla seconda fase, che consiste nel “discutere della strategia relativa alla difesa e alla sicurezza nazionale” del Libano. Qassem non ha quindi parlato esplicitamente di consegna delle armi alle forze armate libanesi, ma ha inquadrato ogni iniziativa che tocchi l’aspetto militare in una nuova architettura della sicurezza che garantisca piena sovranità e indipendenza al paese, minacciate entrambe dalle ingerenze israeliane e americane, nonché dei loro alleati arabi.
Il punto centrale è rappresentato dal rischio più che concreto che la resa sostanziale di Hezbollah determini la consegna di fatto del Libano nelle mani di USA e Israele, con la fine della Resistenza in questo paese e un colpo ancora più pesante per il fronte di cui è espressione, soprattutto per l’Iran, proprio mentre è in corso il crimine più grave contro la popolazione palestinese dai tempi della Nakba. Tramite l’intervento pubblico di Naim Qassem e di altri leader del movimento sciita, Hezbollah ha quindi chiarito che non ci saranno compressi su questo principio. Nelle parole del segretario generale Qassem: “siamo impegnati a difendere i nostri diritti e a morire per essi, se necessario”.
Lunedì, in ogni caso, l’inviato della Casa Bianca, Tom Barrack, si è incontrato a Beirut con i vertici dello stato libanese e, al termine dei colloqui, ha detto alla stampa di essere “incredibilmente soddisfatto” della risposta che gli è stata consegnata alla richiesta del suo governo di disarmare Hezbollah. Barrack ha proseguito con un tono conciliante per affermare che “Israele non vuole la guerra con il Libano, né occupare” il suo territorio, anche se il raggiungimento della pace “rappresenta una sfida”. Tornando alle minacce velate, il diplomatico americano ha avvertito che il Libano potrebbe essere “messo da parte” se non dovesse unirsi al “campo del cambiamento” in Medio Oriente, ovvero allo schieramento americano-israeliano e anti-iraniano.
Ancora, Barrack ha chiarito che il suo governo non impone una scadenza per la consegna delle armi di Hezbollah, ma intende soltanto “cercare di essere di aiuto”. Quest’ultima dichiarazione stride con le parole e le iniziative delle ultime settimane e ancora di più con l’aperta e ripetuta violazione dei termini della tregua da parte di Israele. Giovedì e domenica Netanyahu aveva nuovamente ordinato bombardamenti e attacchi mirati in territorio libanese, evidentemente con l’intenzione di fare ulteriori pressioni in vista dell’arrivo dell’emissario di Trump a Beirut. Dalla firma della tregua a novembre 2024, sono state documentate 3.800 violazioni da parte di Israele, causando quasi 200 vittime e oltre 430 feriti. Il tutto nella totale indifferenza dell’organismo internazionale di vigilanza sul rispetto della tregua che era stato creato con l’accordo di novembre.
Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dalla stampa libanese, Aoun, Salam e Berri avrebbero preparato una risposta “unitaria” alla richiesta di Barrack del 19 giugno. Ciò significa che i tre leader stanno cercando di ammorbidire le posizioni americane per via della natura esplosiva della questione. In altre parole, procedere con l’imposizione a Hezbollah di cedere preventivamente le proprie armi comporterebbe il rischio di fare esplodere una vera e propria guerra civile in Libano. Di questo pericolo ne è evidentemente conscio anche il governo USA. Da qui, forse, le parole relativamente caute di Barrack nella giornata di lunedì.
Venerdì scorso, il giornale libanese vicino a Hezbollah, Al-Akhbar aveva scritto inoltre che le trattative in corso vedono tra i protagonisti un importante cittadino libanese con stretti legami con l’amministrazione Trump, il quale sta tenendo i contatti con Hezbollah “dietro le quinte”. Queste discussioni si stanno concentrando sulle garanzie che potrebbero essere offerte al movimento sciita in cambio del “disarmo volontario”. L’intermediario citato da Al-Akhabar descrive un’atmosfera “positiva” e fa sapere che la leadership di Hezbollah è “aperta a discussioni serene e non provocatorie”.
L’obiettivo è di convincere Hezbollah a consegnare il proprio arsenale allo stato “senza pressioni, minacce o retorica populista”. In cambio dovranno essere messe sul tavolo “garanzie militari, politiche e di sicurezza, sia dall’interno del Libano sia dall’estero”, in modo che venga “protetta la base del partito, i suoi combattenti e la sua leadership”. In un eventuale accordo è necessario inoltre che sia incluso il ritiro di Israele dal territorio libanese e la fine di bombardamenti e assassini mirati, assieme a rassicurazioni su futuri conflitti e sulle iniziative per la ricostruzione del paese.
In definitiva, dietro le apparenze esteriori, tutte le parti, anche se ad esclusione probabilmente del regime di Netanyahu, sembrano volere procedere con cautela e prendere tempo viste le implicazioni della vicenda. Il fronte anti-Resistenza percepisce tuttavia che la (relativa) debolezza di Hezbollah e le dinamiche regionali di questi mesi costituiscono uno sfondo difficilmente ripetibile per infliggere un altro colpo decisivo all’Iran e ai suoi alleati e c’è perciò da attendersi un’intensificazione delle pressioni su Beirut e il partito/movimento sciita, a cominciare dalle manovre per alimentare le tradizionali divisioni settarie in Libano.
Hezbollah, da parte sua, comprende perfettamente la portata della minaccia che sta dietro a formule come “pacificazione” o “primato” dello stato e delle forze armate. Una soluzione che preveda la resa preventiva ai diktat di Washington e Tel Aviv resta perciò improbabile, per quante pressioni e minacce eserciti la casa Bianca e per quante violazioni della tregua e crimini lo stato ebraico intenda continuare a commettere nel paese dei cedri.
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- Scritto da Mario Lombardo
La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.
La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.
Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.
La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.
Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.
Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.
Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.
Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.
Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.
La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.
Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.
Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.
Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.
Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.
A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.
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- Scritto da Sara Michelucci
Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.
Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.
Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.
"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".
Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.
Felicità (Italia, 2023)
Regia: Micaela Ramazzotti
Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini
Distribuzione: 01 Distribution
Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Jacopo Quadri
Produzione: Lotus Production con Rai Cinema
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- Scritto da Sara Michelucci
Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell, narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.
Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.
Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.
A Thousand and one (Usa 2023)
Regia: A.V. Rockwell
Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox
Sceneggiatura: A.V. Rockwell
Fotografia: Eric Yue
Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague
Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy
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- Scritto da Sara Michelucci
Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.
Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.
Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.
Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.
L'ombra del giorno (Italia 2022)
Regia: Giuseppe Piccioni
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin
Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub
Distributore: 01 Distribution