Il 15 gennaio ha segnato il 26° anniversario di una presunta strage avvenuta a Racak, in Kosovo, all'epoca parte integrante di ciò che restava della Jugoslavia. Il presunto massacro di civili albanesi da parte delle forze di sicurezza locali fu un elemento decisivo che innescò i bombardamenti illegali della NATO su Belgrado, durati 78 giorni tra marzo e maggio 1999, e la successiva occupazione della provincia, che continua ancora oggi. Come osservò all'epoca il Washington Post, questo episodio “trasformò la politica occidentale nei Balcani come raramente accade con eventi singoli.”

A fare in modo che Racak avesse il massimo impatto fu una messa in scena orchestrata il 16 gennaio da William Walker, un veterano delle operazioni coperte statunitensi e allora capo della Missione di Verifica in Kosovo (KVM) dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). Walker guidò giornalisti occidentali e funzionari europei su una collina vicino al villaggio, dove giacevano i corpi di albanesi del Kosovo vestiti in abiti civili, apparentemente uccisi a sangue freddo dal fuoco della polizia e dell’esercito jugoslavo. In una successiva conferenza stampa, Walker dichiarò con tono drammatico:

“Per quello che ho visto personalmente, non esito a descrivere l’evento come un massacro, un crimine contro l’umanità, né a accusare le forze di sicurezza governative della responsabilità dell’accaduto. Il governo [jugoslavo] deve fornire i nomi di tutti coloro che hanno preso parte alle operazioni di polizia e [militari] a Racak... chi ha dato gli ordini e chi li ha eseguiti.”

Walker avvertì che se la Jugoslavia non avesse permesso agli osservatori internazionali di visitare il sito e “indagare su questa atrocità” entro le successive 24 ore, sarebbero seguite gravi conseguenze. Immediatamente, le immagini della macabra scoperta della KVM e il racconto personale di Walker su quanto accaduto si diffusero in tutto il mondo grazie ai principali media. Di conseguenza, cittadini e governi occidentali, fino ad allora riluttanti, iniziarono a richiedere azioni guidate dagli Stati Uniti contro Belgrado, gettando le basi per l’assalto aereo della NATO due mesi e mezzo più tardi.

Come vedremo, quasi tutto ciò che politici, commentatori e giornalisti occidentali affermarono all’epoca sul “massacro” di Racak era una palese menzogna. Sebbene in gran parte dimenticato oggi, questo episodio rimane estremamente significativo. È un esempio tangibile e scioccante di come la propaganda sugli orrori, distorta, manipolata, se non del tutto fabbricata, possa essere utilizzata dalle potenze imperiali per giustificare guerre. La rilevanza di Racak per ogni conflitto istigato dalla NATO, passato, presente e probabilmente futuro, non potrebbe essere più evidente né più urgente.

“Avere amici serbi”

A gennaio 1999, le autorità jugoslave combattevano da diversi anni una sempre più brutale campagna di contro-insurrezione contro l’Esercito di Liberazione del Kosovo (KLA). Questo gruppo estremista, legato ad Al Qaeda, armato, finanziato e addestrato dalla CIA e dall’MI6, mirava a creare la “Grande Albania” – un progetto irredentista che unisse Tirana ai territori di Grecia, Macedonia, Montenegro e Serbia – attraverso la violenza insurrezionale.

L’obiettivo era massimizzare le vittime civili, in modo che la guerra tra Belgrado e il KLA potesse essere presentata al pubblico occidentale come un genocidio etno-nazionalista indiscriminato contro civili innocenti. Come spiegò un attivista indipendentista albanese del Kosovo, non collegato al KLA, in un’intervista alla BBC del marzo 2000:

“Più civili venivano uccisi, più aumentavano le possibilità di un intervento internazionale, e il KLA ovviamente lo sapeva. Un diplomatico straniero una volta mi disse: ‘Guarda, a meno che non superiate la soglia dei cinquemila morti, non avrete mai nessuno presente permanentemente in Kosovo dalla diplomazia internazionale.’”

Il KLA rapiva e uccideva anche civili serbi e albanesi filo-jugoslavi, spesso prelevando i loro organi per finanziare la propria campagna terroristica. Questo significava che, come ammise l’allora segretario alla Difesa britannico Geoffrey Robertson al parlamento nel marzo 1999, “fino a Racak… il KLA era responsabile di più morti in Kosovo rispetto alle autorità jugoslave.” Hashim Thaci, capo del KLA e oggi alla sbarra per crimini di guerra, due anni dopo avrebbe dichiarato: “Ci siamo tolti un peso dal cuore” quando Walker “senza esitazioni” definì Racak “un massacro di civili.”

Il sollievo di Thaci è comprensibile. Oltre a giustificare l’imminente “intervento” della NATO a favore del KLA, Walker distorse fondamentalmente i fatti di Racak, eliminando qualsiasi indizio che le vittime fossero insorti del KLA uccisi in aspri combattimenti con le forze jugoslave, o forse persino civili albanesi del Kosovo assassinati dallo stesso Thaci e dai suoi uomini per scopi propagandistici. Eppure, in qualità di capo della KVM, Walker era in una posizione ideale per conoscere la verità.

La KVM (Kosovo Verification Mission) fu istituita nel novembre 1998 per monitorare il rispetto, da parte della Jugoslavia, di un cessate il fuoco negoziato dalle Nazioni Unite con il KLA. Secondo i termini dell’accordo, Belgrado ritirò le sue forze militari dal Kosovo. Tuttavia, non furono imposti obblighi analoghi al KLA, che sfruttò l’assenza dell’esercito per continuare a seminare il terrore nella provincia. La KVM non aveva alcun mandato per garantire che il gruppo terroristico non attaccasse o provocasse risposte violente da parte delle autorità locali. Il suo unico ruolo era monitorare se, e come, la Jugoslavia reagiva.

Racak: un punto strategico e una scena “truccata”

Racak era una posizione strategica fondamentale per il KLA, da cui poteva colpire obiettivi importanti. Situato su una catena montuosa alla fine di una strada principale che collegava la capitale del Kosovo, Pristina, ad altre città e paesi della provincia, il villaggio era ideale per installare postazioni di tiro. Da lì, il KLA poteva attaccare i veicoli del governo jugoslavo che attraversavano frequentemente la zona, sperando che attacchi riusciti attirassero la polizia e i servizi di sicurezza in una battaglia diretta.

Per prepararsi a questa eventualità, il KLA scavò preventivamente trincee intorno al villaggio. Nei mesi precedenti al gennaio 1999, un rapporto della KVM documentava numerosi atti provocatori da parte della milizia intorno a Racak, volti ad attirare l’attenzione delle autorità jugoslave. Tra questi, un’imboscata a un convoglio della polizia che ferì diversi civili albanesi in un taxi nelle vicinanze, il rapimento di “un certo numero di serbi del Kosovo” e l’“arresto” di albanesi per “crimini” come avere “rapporti amichevoli con i serbi.”

In modo scioccante, secondo il rapporto della KVM, il KLA sfruttò persino il funerale delle vittime di Racak – a cui partecipò casualmente anche Walker – l’11 febbraio 1999 per “arrestare” nove partecipanti albanesi. I loro “crimini” includevano “avere un fratello che lavorava con la polizia; bere con serbi; avere amici serbi; avere un agente di polizia serbo come amico.” Il loro destino rimane incerto, ma l’atto d’accusa del 2005 contro il primo ministro del Kosovo Ramush Haradinaj e il suo vice Idriz Balaj descrive il KLA mentre torturava, mutilava e uccideva brutalmente le sue vittime albanesi.

Una scena “truccata”

Ma cosa accadde davvero a Racak? I media in lingua inglese non si interessarono ai dettagli, accettando senza esitazioni la versione di Walker come verità assoluta. Un atto d’accusa del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) contro il leader jugoslavo Slobodan Milosevic, emesso nel maggio 1999, citava “45 albanesi del Kosovo disarmati” uccisi nel villaggio. Due mesi prima, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton aveva giustificato il bombardamento aereo di Belgrado senza l’autorizzazione dell’ONU durante una conferenza stampa internazionale:

“Ricordiamoci di quanto accaduto nel villaggio di Racak a gennaio. Uomini, donne e bambini innocenti portati via dalle loro case, costretti a inginocchiarsi nel fango, crivellati di colpi. Non per qualcosa che avevano fatto, ma per quello che erano… Non sbagliatevi: se noi e i nostri alleati non avremo la volontà di agire, ci saranno altri massacri… Davanti agli aggressori nei Balcani, l’esitazione è una licenza di uccidere.”

I giornalisti stranieri raccontarono però una storia molto diversa. Le autorità jugoslave avevano pubblicamente annunciato un’operazione di “contro-terrorismo” a Racak il 15 gennaio, in risposta all’uccisione di quattro agenti di polizia da parte del KLA una settimana prima, e avevano invitato i media internazionali a presenziare. Un team dell’Associated Press accettò l’invito. I giornalisti francesi esaminarono le loro riprese e li intervistarono. Cinque giorni dopo, Le Figaro raccontava di come la polizia fosse entrata in “un villaggio vuoto… muovendosi vicino ai muri,” prima di essere coinvolta in un intenso scontro a fuoco:

“I colpi erano intensi, poiché venivano sparati dai guerriglieri del KLA dalle trincee scavate sulle colline. I combattimenti si intensificarono sulle sommità delle colline sopra il villaggio… I guerriglieri del KLA, circondati, cercavano disperatamente di fuggire. Una ventina di loro ci riuscirono, come ammise la stessa polizia.”

Un villaggio abbandonato e una scena sospetta

Anche Le Monde documentò come, all'epoca dei fatti, Racak fosse stato abbandonato da “quasi tutti” i suoi abitanti civili. Occupato dal KLA, il villaggio appariva quasi deserto in un rigido inverno, con fumo visibile provenire da appena “due camini” nella zona. Quando le forze di sicurezza jugoslave entrarono nel villaggio, “seguendo un veicolo blindato della polizia,” trovarono una località “quasi deserta”:

“Avanzarono per le strade sotto il fuoco dei [combattenti del KLA] in agguato nei boschi sopra il villaggio. Lo scambio di colpi di arma da fuoco continuò per tutta l’operazione... I combattimenti principali si svolsero nei boschi... Il [KLA] era intrappolato nel mezzo. [Racak] era una roccaforte dei combattenti per l’indipendenza albanese.”

Alla fine, la polizia si ritirò sotto una pioggia di proiettili. Il KLA avvisò la KVM 24 ore dopo che decine di civili morti si trovavano a Racak. Come le autorità jugoslave avrebbero potuto trascinare “uomini, donne e bambini innocenti” fuori dalle loro case in un villaggio nemico praticamente deserto, costringendoli a inginocchiarsi per poi giustiziarli, il tutto mentre erano sotto il fuoco incessante del KLA, resta un mistero. Di fatto, questo scenario era letteralmente impossibile, anche perché tra i morti non vi erano né donne né bambini.

Le immagini esplicite del presunto sito di esecuzione, catturate il 16 gennaio dal quotidiano kosovaro-albanese KOHA Ditore prima dell’arrivo di Walker e del suo seguito, mostrano esclusivamente maschi in età da combattimento. Ci sono inoltre forti indizi che la scena sia stata manipolata successivamente. Uno dei cadaveri fotografati, evidentemente colpito alla testa, indossava un tradizionale berretto bianco albanese al momento della visita della KVM, ma ne era privo nelle immagini pubblicate da KOHA Ditore.

Nell'aprile del 2002, durante il processo contro Slobodan Milosevic al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), l’ex leader jugoslavo interrogò Karol Drewienkiewicz, assistente personale di Walker, circa la scena del presunto “massacro” di Racak. Milosevic chiese:

“Come è possibile che qualcuno venga colpito alla testa e il suo cappello rimanga intatto sulla testa?” Aggiungendo: “Gli esperti forensi affermano che da una ferita simile, gli occhi verrebbero espulsi dalle orbite, per non parlare del fatto che un cappello sarebbe stato spostato.”

Alla domanda se avesse mai considerato la possibilità che quella “fosse una scena manipolata per scopi televisivi,” Drewienkiewicz ammise: “Certamente fu uno dei pensieri che mi passarono per la testa mentre salivo sulla collina.” In seguito, Milosevic le chiese se fosse a conoscenza del fatto che Racak fosse “circondato da trincee e bunker” costruiti dal KLA. Drewienkiewicz confermò che il gruppo di Walker aveva attraversato ampie installazioni militari improvvisate e trincee per raggiungere il sito del presunto “massacro.” Era, in altre parole, territorio controllato dal KLA.

Una messinscena strategica e complicazioni forensi

Il 18 gennaio 1999, due giorni dopo che Walker aveva minacciato Belgrado con gravi conseguenze se gli investigatori internazionali non fossero stati autorizzati a esaminare i fatti di Racak, fu creata un’altra messinscena mediatica di forte impatto. Louise Arbour, procuratrice capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), si presentò al confine tra Macedonia e Jugoslavia, a circa un’ora di auto dal presunto luogo del “massacro”, pretendendo di entrare. Le autorità jugoslave le negarono l’accesso. Le troupe giornalistiche internazionali, che guarda caso erano al suo seguito, ripresero in diretta questa scena drammatica, trasmettendola in tutto il mondo.

Nello stesso giorno, ma con molta meno attenzione mediatica, la polizia jugoslava tornò a Racak per raccogliere i cadaveri da sottoporre ad autopsia a Pristina, un compito reso estremamente difficile dal fuoco continuo dei militanti del KLA. Una volta recuperati i corpi, Belgrado invitò specialisti bielorussi e dell’UE per condurre autopsie parallele. L’UE inviò un team finlandese guidato dalla dentista Helen Ranta, dell’Università di Helsinki.

I patologi jugoslavi e bielorussi identificarono residui di polvere da sparo su quasi tutti i corpi esaminati, suggerendo ampiamente che le vittime fossero combattenti del KLA uccisi in combattimento. Gli investigatori finlandesi, invece, non divulgarono immediatamente i loro risultati. Tuttavia, il 17 marzo 1999 - una data, come vedremo, estremamente significativa - Ranta tenne una conferenza stampa a Pristina per discutere di quanto accaduto a Racak. Sotto lo sguardo vigile di Walker, la dentista sottolineò che quanto stava per dichiarare rappresentava solo la sua “opinione personale” e non la posizione ufficiale dell’UE.

Nonostante questa premessa, Ranta appoggiò quasi integralmente il resoconto di Walker, citando ripetutamente come fatti “informazioni ottenute” dagli osservatori della KVM. Tuttavia, si discostò in parte dalla versione desiderata, ammettendo che furono trovati solo 22 corpi - tutti maschi, nessuna donna, nessun bambino. Dichiarò inoltre che i cadaveri “molto probabilmente furono colpiti dove sono stati trovati.” Questo giudizio si basava, tra l’altro, sull’assenza di munizioni nelle loro tasche, una prova poco convincente.

Ranta riconobbe che l’indagine della sua squadra era stata “molto complicata” a causa dell’esame dei corpi nella morgue di Pristina “circa una settimana dopo l’ipotetico momento della morte delle vittime,” senza alcuna “catena di custodia” affidabile. Ammetteva, inoltre, che “ciò che può o non può essere successo ai corpi” nel periodo intercorso era “difficile da stabilire… con assoluta certezza.” Di conseguenza, le sue conclusioni non potevano determinare definitivamente “se ci fosse stata una battaglia o se le vittime fossero morte in altre circostanze.”

Naturalmente, questi dettagli problematici non furono menzionati dai media occidentali nel riportare la conferenza stampa. Successivamente, Ranta rivelò di avere avuto un incontro privato con Walker poco prima della conferenza, descrivendolo come “un’esperienza davvero spiacevole.” Walker esercitò forti pressioni su di lei affinché attribuisse inequivocabilmente la responsabilità del massacro alle autorità jugoslave e descrivesse tutte le vittime come civili disarmati. Al suo rifiuto, Walker reagì teatralmente, spezzando con rabbia diverse matite e gettandole sul tavolo davanti a lei.

Non un semplice diplomatico, William Walker era stato una figura chiave delle operazioni statunitensi nelle guerre sporche in America Latina durante gli anni ’80 sotto la presidenza di Ronald Reagan. Formalmente oggetto di indagine nell’ambito dello scandalo Iran/Contra, Walker, come ambasciatore in El Salvador alla fine di quel decennio di sangue, minimizzò personalmente il massacro di sacerdoti gesuiti perpetrato dagli squadroni della morte sostenuti da Washington, dichiarando: “In tempi come questi, di grande emozione e rabbia, cose del genere accadono.”

Nel marzo del 2000, The Times rivelò che la CIA aveva infiltrato la Missione di Verifica in Kosovo (KVM) per “sviluppare legami con il KLA” e fornire ai suoi combattenti manuali di addestramento militare e consigli sul campo per affrontare l’esercito jugoslavo e la polizia serba. Questo intervento suscitò dubbi tra i rappresentanti europei dell’OSCE, che iniziarono a mettere in discussione le motivazioni e la lealtà di Walker. Al termine dei bombardamenti della NATO su Belgrado, molti si interrogarono se gli Stati Uniti non avessero tradito gli alleati europei con una politica che rese inevitabili gli attacchi aerei.

“L’agenda americana prevedeva che i loro osservatori diplomatici, alias la CIA, operassero in termini completamente diversi rispetto al resto dell’Europa e dell’OSCE.”

L’ultima mossa

Walker fu nominato a capo della KVM dall’allora Segretario di Stato Madeleine Albright, alla quale riferiva regolarmente. Quando le riportò le sue “scoperte” a Racak, Albright commentò con entusiasmo: “La primavera è arrivata in anticipo.” Finalmente, Washington aveva il pretesto per lanciare i bombardamenti su Belgrado, sostenendo la necessità di prevenire ulteriori massacri o addirittura un genocidio totale dei kosovari albanesi. Tuttavia, serviva ancora un ultimo gesto per giustificare l’intervento.

Poiché la distruzione della Jugoslavia da parte della NATO non aveva l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, risultando quindi del tutto illegale, era necessario creare l’illusione che la “comunità internazionale” avesse tentato ogni via diplomatica per risolvere la crisi. Così, il 30 gennaio 1999, il Segretario Generale della NATO Javier Solana inviò un ultimatum a Slobodan Milosevic, convocandolo a Rambouillet, in Francia, per una “conferenza di pace” con i leader del KLA.

In realtà, Rambouillet era destinata a essere una “conferenza di guerra.” I funzionari del Dipartimento di Stato statunitense avevano elaborato proposte che prevedevano l’occupazione totale della Jugoslavia da parte della NATO e l’indipendenza politica ed economica del Kosovo, ovvero lo sfruttamento neoliberale della regione. I termini, non negoziabili, offrivano a Belgrado una scelta: accettare o subire i bombardamenti. Tra le clausole più controverse, il personale e i veicoli della NATO avrebbero goduto di “libero e illimitato passaggio e accesso senza ostacoli” in tutto il territorio jugoslavo, compresi lo spazio aereo e le acque territoriali.

La NATO avrebbe avuto il diritto di requisire “qualsiasi area o struttura” desiderasse in Jugoslavia, “secondo necessità per supporto, addestramento e operazioni,” potendo inoltre utilizzare aeroporti, strade, ferrovie e porti “senza il pagamento di tasse, dazi, pedaggi o altre spese.” Qualora l'alleanza militare avesse avuto bisogno di apportare “miglioramenti o modifiche” a infrastrutture locali, Belgrado avrebbe dovuto sostenere i costi. Nel frattempo, il personale NATO sarebbe stato immune da arresti o procedimenti penali, anche in caso di crimini commessi.

Era un accordo che nessun governo al mondo avrebbe mai potuto accettare volontariamente. Ed era proprio questo il punto, come successivamente ammesso da funzionari statunitensi. L’assistente di Madeleine Albright, James Rubin, avrebbe spiegato un anno dopo: “Pubblicamente, dovevamo dimostrare che stavamo cercando un accordo… privatamente sapevamo che le probabilità che i serbi accettassero erano minime.” La conferenza stampa di Helen Ranta fu convocata mentre i “negoziati” stavano per concludersi. Il giorno successivo, Milosevic respinse formalmente l’assurda proposta della NATO.

Dichiarando di aver esaurito ogni via diplomatica, e con l’attenzione pubblica nuovamente focalizzata sul “massacro” di Racak, la NATO annunciò il 19 marzo 1999 che avrebbe attaccato la Jugoslavia cinque giorni dopo, concedendo così il tempo necessario ai membri dell’OSCE di ritirarsi. Durante la prima settimana di bombardamenti, gli attacchi si concentrarono esclusivamente su Belgrado e su altre aree della Jugoslavia al di fuori del Kosovo. Se davvero l’obiettivo era fermare un genocidio imminente, risulta piuttosto strano che Milosevic abbia avuto a disposizione un periodo di 12 giorni per avviarlo e che non lo abbia fatto.

Ciononostante, la distruzione criminale della Jugoslavia da parte della NATO è tuttora celebrata in Occidente come un intervento “umanitario” che avrebbe prevenuto un nuovo Olocausto. Durante i bombardamenti, vi fu effettivamente un esodo di massa di albanesi kosovari. Alcuni fuggirono di fronte al terrore e alla distruzione portati dall’alleanza militare. Altri furono spinti dalla propaganda del KLA. Come un agente del KLA ammise al Guardian nel giugno 1999, le “indicazioni del KLA, piuttosto che le deportazioni serbe” furono un importante fattore motivante.

Il politologo Babak Bahador ha scritto un libro sul valore propagandistico di Racak, spiegando come “immagini inaspettate e cariche di emozione” pubblicate dai media possano “aprire rapidamente finestre di opportunità” per le potenze occidentali. La CIA e il Pentagono conoscono bene questo meccanismo e lo sfruttano regolarmente per i loro scopi. Dato che l’Impero influenza segretamente anche il contenuto dei film di Hollywood, sorprende che i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia non siano mai stati portati sul grande schermo.

Forse perché i fatti di Racak sono fin troppo evidenti, anche se nascosti in bella vista. Ribadire la versione ufficiale dell’epoca potrebbe riaprire ferite e far emergere menzogne facilmente dimostrabili. Che la NATO abbia distrutto un paese indipendente sulla base di una propaganda di atrocità falsa e fraudolenta, con la complicità di giornalisti, organizzazioni per i diritti umani e politici occidentali, è una verità che semplicemente non può essere accettata. Dopo tutto, riconoscerlo significherebbe rendere più difficile ripetere un simile schema in futuro.

 

di Kit Klarenberg

Fonte: kitklarenberg.com

La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.

La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.

Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.

La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.

Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.

Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.

Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.

Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.

Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.

La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.

Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.

Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.

Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.

Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.

A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.

Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.

Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.

Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film  è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.

"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".

Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.

Felicità (Italia, 2023)

Regia: Micaela Ramazzotti

Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini

Distribuzione: 01 Distribution

Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Jacopo Quadri

Produzione: Lotus Production con Rai Cinema

Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell,  narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.

Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.

Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.

A Thousand and one (Usa 2023)

Regia: A.V. Rockwell

Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox

Sceneggiatura: A.V. Rockwell

Fotografia: Eric Yue

Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague

Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy

Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.

Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.

Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.

Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.

 

L'ombra del giorno (Italia 2022)

Regia: Giuseppe Piccioni

Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin

Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub

Distributore: 01 Distribution


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