L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e in Europa. I quasi 61 miliardi appena stanziati non faranno però nulla per cambiare il corso della guerra e, se anche dovessero riuscire a rimandare la resa ucraina, aggraveranno con ogni probabilità i livelli di distruzione e morte nel paese dell’ex Unione Sovietica.

La propaganda di governi e media ufficiali, scattata subito dopo il voto in aula di sabato scorso, sta procedendo su due livelli. Il primo è la promozione della fantasia che il denaro e i nuovi aiuti militari che (forse) arriveranno a Kiev potranno contribuire a invertire le sorti del conflitto e, nella più ottimistica delle ipotesi, a gettare le basi per una futura vittoria contro Mosca. In parallelo sono spuntati commenti e “analisi” dove si avverte come i mesi persi in trattative e polemiche politiche – negli USA ma anche in Europa – abbiano causato all’Ucraina danni difficilmente rimediabili. Quindi, solo un’ulteriore accelerazione nel ritmo degli aiuti e delle armi da inviare al regime di Zelensky potrà realmente incidere sugli equilibri bellici. Quest’ultima considerazione è un evidente messaggio ai leader europei per spronarli, sull’onda degli eventi registrati a Washington, ad aprire ancora di più i cordoni della borsa e a svenarsi per tenere in vita il paziente ucraino.

Anche prendendo per buona la versione ufficiale, dei quasi 61 miliardi appena stanziati e che approverà in via definitiva il Senato americano già questa settimana, solo poco più di un quinto finanzierà direttamente armi ed equipaggiamenti per le forze ucraine. Più precisamente, questi circa 14 miliardi saranno utilizzati dal Pentagono per acquistare armi dai produttori americani che verranno poi consegnate all’Ucraina.

La fetta più grossa – 23 miliardi – servirà invece a riempire i depositi americani svuotati dalle spedizioni di armi all’Ucraina in questi due anni. Il resto consiste in aiuti finanziari diretti, necessari tra l’altro a pagare gli stipendi dei funzionari pubblici ucraini, e in programmi militari americani in Europa orientale. Sul totale stanziato, una decina di miliardi sono formalmente prestiti che Kiev dovrà restituire. Una misura inserita per convincere qualche deputato repubblicano riluttante a votare a favore del pacchetto.

Il ruolo di Trump

I quasi 61 miliardi per l’Ucraina erano rimasti a lungo fermi al Congresso per l’opposizione dell’ala trumpiana del Partito Repubblicano. I deputati “MAGA” volevano misure per far fronte alla presunta crisi migratoria al confine col Messico in cambio della loro approvazione. Lo “speaker” della Camera, Mike Johnson, aveva perciò rinviato il voto in aula nonostante gli appelli e le pressioni della Casa Bianca e dei repubblicani “moderati”, consapevole che il passaggio del pacchetto con il contributo decisivo dei democratici avrebbe messo a rischio la sua posizione.

La deputata di estrema destra della Georgia, Marjorie Taylor Greene, aveva depositato una mozione di sfiducia contro Johnson e minacciato di attivarla se il presidente della Camera avesse consentito un voto sugli aiuti all’Ucraina. L’approvazione nel fine settimana ha mandato su tutte le furie la destra repubblicana, ma la possibile mozione per rimuovere Johnson dal suo incarico resta per ora inattiva, probabilmente per via del ruolo giocato dietro le quinte da Donald Trump.

L’ex presidente si era sempre opposto al pacchetto di aiuti per Kiev, utilizzando la crescente impopolarità della questione ucraina tra gli americani come arma elettorale per attaccare Biden. Un paio di settimane fa, però, Trump aveva ricevuto Johnson nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida, dove era sembrato che i due avessero appianato le divergenze e discusso delle tensioni tra lo “speaker” e la minoranza “MAGA”. Trump aveva alla fine espresso il suo sostegno a Johnson, in quello che a molti commentatori era apparso come un via libera al voto su armi e denaro all’Ucraina.

Se ci sia stata una qualche intesa tra Trump e l’apparato di potere americano per sbloccare lo stallo dei 61 miliardi, che implica forse un allentamento delle pressioni sul candidato repubblicano alla Casa Bianca, non è chiaro. Quel che è certo è che, a parte qualche frangia più o meno isolata, l’Ucraina è un affare bipartisan a Washington e la prospettiva di un imminente tracollo delle forze di Kiev ha scatenato il panico nella classe politica americana. Infatti, stando alle notizie che circolano al Congresso, è molto probabile che, in un eventuale voto di sfiducia innescato dalla destra repubblicana, Mike Johnson troverebbe tra i deputati democratici i voti necessari per restare al suo posto.

La lunga strada di Zelensky

Come già accennato, subito dopo il voto alla Camera del Congresso americano sono spuntati gli avvertimenti della stampa “mainstream” a prendere atto comunque delle difficoltà oggettive del regime ucraino. Un esempio è il commento pubblicato dal sito Euractiv che ha riportato alla realtà i sostenitori di Zelensky. L’autore dell’articolo intende informare che “l’euforia [per l’approvazione del pacchetto da 61 miliardi di dollari] sarà di breve durata”, perché gli effetti del provvedimento potrebbero farsi sentire quando sarà ormai troppo tardi per Kiev.

La testa on-line paneuropea sostiene poi che alcune fonti militari hanno ammesso che la situazione drammatica delle forze ucraine sul campo di battaglia e l’avanzata russa negli ultimi mesi “potrebbero fare in modo che i nuovi aiuti non riescano a cambiare radicalmente le prospettive di Kiev”. Al massimo, il contributo americano permetterà di contrastare “i continui attacchi russi” e di “mantenere il controllo del territorio” attualmente occupato dall’Ucraina. In maniera cruciale, il voto di sabato dovrebbe spronare l’Europa a fare la sua parte e inviare in Ucraina altre armi, sistemi difensivi, mezzi corazzati ed equipaggiamenti vari. L’argomento sarà sollevato nel corso del vertice questa settimana in Lussemburgo tra i ministri degli Esteri e della Difesa UE, anche se Euractiv cita un anonimo diplomatico che anticipa come “la sessione [sugli aiuti all’Ucraina] non sarà affatto facile”.

La realtà è che la NATO semplicemente non dispone dei mezzi necessari a cambiare le sorti del conflitto. I paesi membri che conducono la guerra per procura contro la Russia non hanno in primo luogo l’apparato industriale per sostenere una massiccia campagna militare come quella che sta proponendo la Russia, né le risorse per far fronte economicamente a un impegno bellico prolungato contro un nemico che non sia uno “stato fallito” o un’organizzazione paramilitare più o meno arretrata.

Le centinaia di miliardi di dollari già spesi per il buco nero ucraino in questi due anni non sono riuscite a evitare il disastro militare, economico e sociale dell’Ucraina, né lo eviteranno i 61 miliardi in fase di stanziamento. Al contrario, la Russia, nonostante una campagna sanzionatoria teoricamente senza precedenti, ha oggi un apparato difensivo più forte rispetto al 2022 e la sua economia cresce ad un ritmo più sostenuto rispetto a qualsiasi paese occidentale.

Tutto ciò conduce al punto cruciale relativamente all’approvazione dei fondi per l’Ucraina del fine settimana. Ovvero che si tratta, oltre che di un nuovo regalo ai produttori di armi americani, dell’ennesimo tentativo di rimandare l’appuntamento col maggiore disastro strategico della storia americana, in modo da consentire al presidente Biden di non essere eccessivamente penalizzato in vista delle elezioni di novembre. Che poi il prezzo da pagare siano altre decine di migliaia di morti ucraini e la devastazione del paese è un problema che l’imperialismo americano non intende nemmeno iniziare a porsi.

Il suicidio dell’impero

Nel delirio e nella disperazione di un sistema che non vuole immaginare di abbandonare volontariamente quel ruolo egemone a livello internazionale che gli sta comunque sfuggendo di mano in fretta, la classe politica americana sembra non accorgersi di come siano le sue stesse scelte ad accelerare questa dinamica. Il fallimentare progetto ucraino ha infatti avviato la fase terminale della crisi occidentale, favorendo il consolidarsi delle tendenze multipolari che vedono al centro paesi rivali o nemici come appunto Russia, Cina e Iran.

Non è un caso d’altronde che, assieme agli aiuti per Kiev, siano stati approvati altri provvedimenti per stanziare fondi a Israele e Taiwan. Le principali crisi internazionali sono viste cioè dagli Stati Uniti come parte della stessa guerra contro le minacce alla propria supremazia globale. Allo stesso tempo, questa attitudine americana non fa che compattare il fronte opposto, con i governi di questi tre paese sempre più convinti della necessità di unire gli sforzi per superare il sistema unipolare dominato dall’Occidente.

La più recente iniziativa autolesionista promossa da Washington è stata presa sempre durante la maratona parlamentare di sabato scorso che ha portato al licenziamento da parte della Camera del nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina. In aula è stato approvato anche il cosiddetto REPO Act (“Rebuilding Economic Prosperity and Opportunity for Ukrainians”) che autorizza la Casa Bianca a confiscare (rubare) i beni di proprietà del governo russo depositati nelle banche americane per trasferirli in un fondo speciale da destinare all’Ucraina.

Negli USA sono parcheggiati circa sei miliardi sui 300 congelati alla Russia dal 2022. La gran parte del denaro si trova invece in Europa. La legge che potrebbe entrare in vigore nei prossimi giorni in America serve principalmente a spingere l’UE su questa stessa strada, anche se di qua dall’Atlantico restano forti resistenze. L’iniziativa, oltre a essere palesemente illegale, rischia di screditare definitivamente l’Occidente e di convincere investitori e governi di altri paesi a ridurre la propria esposizione in Europa e Stati Uniti. In una parola, la legge finirà per favorire la de-dollarizzazione, minacciando il cuore stesso dell’egemonia planetaria di Washington.

Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.

Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.

Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film  è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.

"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".

Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.

Felicità (Italia, 2023)

Regia: Micaela Ramazzotti

Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini

Distribuzione: 01 Distribution

Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Jacopo Quadri

Produzione: Lotus Production con Rai Cinema

Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell,  narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.

Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.

Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.

A Thousand and one (Usa 2023)

Regia: A.V. Rockwell

Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox

Sceneggiatura: A.V. Rockwell

Fotografia: Eric Yue

Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague

Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy

Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.

Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.

Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.

Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.

 

L'ombra del giorno (Italia 2022)

Regia: Giuseppe Piccioni

Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin

Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub

Distributore: 01 Distribution

La riconferma della saldissima alleanza con gli Stati Uniti e i benefici teorici derivanti dall’organizzazione delle prossime Olimpiadi estive a Tokyo non sono bastati al primo ministro giapponese, Yoshihide Suga, a evitare nel fine settimana una vera e propria umiliazione elettorale. Nelle tre elezioni speciali tenute per altrettanti seggi vacanti in parlamento (“Dieta”), il Partito Liberal Democratico (LDP) di governo non ha infatti raccolto nulla, pagando caramente gli scandali giudiziari che hanno coinvolto svariati suoi membri e la gestione insoddisfacente della pandemia in atto. Per il premier conservatore si prospettano ora mesi complicati, con la sua leadership in serio dubbio alla vigilia sia delle elezioni generali sia della scadenza del mandato alla guida del più importante partito nipponico.

Il recente appuntamento con le urne era particolarmente atteso perché era il primo dall’insediamento di Suga, succeduto lo scorso settembre al più longevo primo ministro della storia del Giappone, Shinzo Abe, ufficialmente costretto a lasciare per ragioni di salute. Sull’adeguatezza di Suga a ricoprire l’incarico di capo del governo c’erano state subito accese discussioni. L’ex consigliere di Abe è la quintessenza dell’insider, privo di talento per la comunicazione e per la gestione della propria immagine. Le sue origini relativamente umili, in un paese dove i membri che contano della classe politica appartengono a dinastie politiche illustri, non hanno inoltre aiutato il consolidamento della sua posizione. La competizione interna al LDP per rimpiazzare Suga, già esplosa mesi fa all’indomani della notizia del ritiro di Abe, tornerà così a infuriare dopo la pessima prestazione elettorale del partito al potere.

La sconfitta più pesante è stata senza dubbio quella per un seggio della camera alta del parlamento in rappresentanza della città di Hiroshima. Quest’ultima è considerata una roccaforte dei conservatori e nelle elezioni del 2017 il LDP si era aggiudicato sei seggi su sette. Qui, il voto si era reso necessario in seguito alla condanna per compravendita di voti della senatrice Anri Kawai, moglie dell’ex ministro della Giustizia del LDP, Katsuyuki Kawai. Il candidato governativo, un ex funzionario del ministero del Commercio, ha lasciato strada all’ex presentatore Haruko Miyaguchi, appoggiato dal principale partito di opposizione, il Partito Costituzionale Democratico di centro-sinistra, e da altre formazioni minori.

Gli altri due seggi in palio erano rispettivamente a Nagano e a Hokkaido, il primo sempre per la camera alta (“Camera dei Consiglieri”) e il secondo per la camera bassa (“Camera dei Rappresentanti”). In entrambi a prevalere sono stati i candidati del Partito Costituzionale Democratico. Mentre a Nagano il seggio vacante era appartenuto a un “consigliere” morto per COVID lo scorso dicembre, a Hokkaido si doveva scegliere il successore di un altro parlamentare del LDP finito nei guai con la legge, l’ex ministro dell’Agricoltura Takamori Yoshikawa, dimessosi dopo essere stato accusato di avere ricevuto tangenti da un imprenditore agricolo. A Hokkaido, il LDP non aveva nemmeno presentato un proprio candidato per l’elezione speciale.

Per il premier Suga forse l’unica notizia positiva arrivata dal voto nel fine settimana è che la sconfitta di Hiroshima rappresenta uno schiaffo anche per uno dei suoi più agguerriti rivali interni al partito, l’ex ministro degli Esteri Fumio Kishida. Uno dei più influenti leader del LDP, Kishida è il numero uno dei liberaldemocratici a Hiroshima e la batosta incassata domenica nel suo feudo potrebbe quanto meno rallentare la sua corsa alla successione all’attuale primo ministro.

I problemi del LDP e la tripla affermazione dei democratici indicano evidentemente una tendenza sfavorevole al partito che ha quasi monopolizzato la politica giapponese dal dopoguerra a oggi. Sono in pochi tuttavia a credere in una sconfitta dei conservatori nelle elezioni generali, che dovrebbero tenersi non oltre il 21 ottobre prossimo. L’opposizione di centro-sinistra in Giappone continua a essere divisa e screditata, non essendosi più ripresa dalla catastrofica esperienza al governo tra il 2009 e il 2012.

Lo stato di salute dei liberaldemocratici sarà messo alla prova nuovamente il prossimo 4 luglio dall’importante voto per il rinnovo dell’assemblea metropolitana della capitale. In ogni caso, come già spiegato, in dubbio non c’è la continuità al governo del LDP, quanto la leadership di Yoshihide Suga e le possibile scosse che una guerra interna al partito potrebbe produrre per la terza economia del pianeta. Soprattutto in un contesto fatto di gravi tensioni sul fronte domestico, per via degli effetti della pandemia, e con l’intensificarsi del conflitto tra Stati Uniti e Cina, che si svolge in larga misura in Estremo Oriente.

Un articolo del sito web della Nikkei Asian Review ha spiegato lunedì come la sconfitta del LDP nelle tre elezioni suppletive del fine settimana non prometta nulla di buono per l’amministrazione Biden, “fattasi in quattro per sostenere politicamente il premier giapponese sul fronte interno”. Suga era stato un paio di settimane fa il primo leader straniero a essere ricevuto alla Casa Bianca da Joe Biden, in un segnale del carattere cruciale dell’alleanza con Tokyo per gli Stati Uniti. Un portavoce del presidente aveva in quell’occasione insistito sull’importanza del fattore “continuità” nelle relazioni bilaterali, in modo da garantire, dopo quasi un decennio di governi guidati da Shinzo Abe, un ambiente politico stabile e senza conflitti.

È evidente che una classe politica intenta a competere per la leadership del partito di governo non può che compromettere quell’allineamento ai propri interessi strategici che Washington chiede agli alleati per contrastare l’avanzata della Cina. Mentre gli Stati Uniti stanno intensificando le pressioni su Pechino, insomma, l’ultima cosa che l’amministrazione Biden auspica per il Giappone è una competizione interna al LDP che si protragga virtualmente fino al prossimo autunno.

A parte il caso di Shinzo Abe e pochi altri, la storia del Giappone è ricca di esempi di capi di governo durati pochi mesi. Suga è ai minimi in termini di gradimento da quando ha assunto la carica di primo ministro e sta pagando in particolare la nuova impennata di contagi nel paese, nonché e forse ancora di più il faticosissimo lancio della campagna vaccinale. Proprio nei giorni scorsi, il governo ha dovuto imporre nuove misure restrittive in alcune prefetture che, complessivamente, ospitano circa un quarto della popolazione giapponese. Per quanto riguarda i vaccini, invece, il Giappone ha finora somministrato dosi ad appena l’1% della popolazione.

La decisione di adottare lo stato di emergenza in alcune parti del paese a causa del Coronavirus rappresenta un motivo di imbarazzo per Suga, il quale aveva promesso ai giapponesi che non avrebbero più dovuto sopportare altre restrizioni. Ancora peggio per le sue prospettive politiche, il premier è oggetto di critiche da parte del mondo del business, nuovamente penalizzato dalle chiusure entrate in vigore nel fine settimana. Anche l’organizzazione delle Olimpiadi, rinviate lo scorso anno sempre a causa della pandemia, rischia di trasformarsi in un flop, visto che le speranze di ricavare dai giochi un impulso all’economia sembrano ormai svanite. Infatti, le competizioni si terranno senza pubblico proveniente dall’estero, togliendo così una fonte cruciale di entrate al settore turistico e non solo.

La palla resta ad ogni modo in mano a Suga che avrà facoltà di sciogliere anticipatamente il parlamento se lo riterrà necessario per rinsaldare la sua posizione. Nelle sue intenzioni vi era probabilmente un voto in tempi brevi, ma le tre sconfitte del fine settimana suggeriranno quasi di certo un rinvio nel tentativo di stabilizzare la situazione interna e veder risalire i propri consensi nel paese.

A complicare le cose c’è anche la scadenza a settembre del mandato di Suga alla guida del LDP. La pessima figura rimediata domenica potrebbe fare aumentare i malumori di molti nel partito, preoccupati alla prospettiva di andare a elezioni con un leader che potrebbe portare a una riduzione della maggioranza parlamentare dei liberaldemocratici. Le azioni dei rivali di Suga sembrano perciò in rapida ascesa, soprattutto di quelli che vantano un’immagine più dinamica e un maggiore appeal tra gli elettori, come i due recenti ex ministri degli Esteri, il già ricordato Kishida e Taro Kono, o Shinjiro Koizumi, ministro dell’Ambiente in carica e figlio dello storico leader liberaldemocratico ed ex primo ministro Junichiro Koizumi.


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