L’attacco israeliano contro il porto yemenita di Hodeidah nel fine settimana rischia di infiammare ancora di più il Medio Oriente e di imbrigliare definitivamente il regime sionista e il suo principale sponsor – il governo americano – in un pericoloso conflitto su vasta scala. Il bombardamento ha preso di mira strutture civili e commerciali, senza causare nessun danno dal punto di vista militare al governo guidato dal movimento Ansarallah (“Houthis”). L’iniziativa di Israele era stata decisa come ritorsione contro il clamoroso blitz portato a termine venerdì da un drone yemenita sulla capitale, Tel Aviv.

Sulla stampa ufficiale e alternativa si continua a discutere diffusamente delle conseguenze di questi eventi nel quadro del confronto in atto tra Israele e le forze della Resistenza mediorientale. Per un paese che non si è piegato a nove anni di aggressione di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, né alla campagna militare promossa da Washington nel Mar Rosso, quanto accaduto nel fine settimana non cambierà di molto l’attitudine del governo e i suoi obiettivi. Anzi, i missili israeliani sul porto di Hodeidah legittimano ancora di più agli occhi delle popolazioni arabe la campagna anti-sionista in difesa dei palestinesi di Gaza.

Per contro, il regime di Netanyahu ha confermato che l’abilità principale di Israele resta quella di colpire e distruggere infrastrutture civili, di massacrare civili e rendere un inferno la vita di questi ultimi. Il vantaggio strategico delle operazioni militari sioniste è invece quasi sempre pari a zero ed esse generano piuttosto effetti controproducenti nel medio e lungo periodo per lo stato ebraico.

Per ricordare lo svolgimento dei fatti, venerdì un drone partito dallo Yemen era entrato indisturbato nello spazio aereo israeliano per colpire un edificio di Tel Aviv, provocando almeno una vittima. Nonostante le minimizzazioni delle autorità di Israele, il velivolo senza pilota yemenita aveva eluso le difese aeree di questo paese. Prima di raggiungere l’obiettivo finale dopo circa 1600 chilometri, il drone aveva però anche sorvolato senza conseguenze le navi da guerra americane e inglesi parcheggiate nel Mar Rosso, lo spazio aereo saudita e quello giordano. Dopo le conseguenze rovinose per il porto israeliano di Eilat, preso di mira sia da Ansarallah sia dalle milizie sciite irachene nei mesi scorsi, lo Yemen ha dimostrato di essere così in grado di ampliare i propri obiettivi, fino a raggiungere il cuore stesso dello stato ebraico.

Poche settimane dopo l’operazione di Hamas del 7 ottobre scorso e l’inizio dell’offensiva israeliana a Gaza, il governo guidato da Ansarallah aveva inaugurato gli attacchi contro imbarcazioni commerciali collegate a Israele e transitanti nel Mar Rosso. In risposta, Washington aveva organizzato una coalizione improvvisata tra gli alleati, posizionando alcune navi da guerra al largo dello Yemen, in teoria per proteggere i traffici commerciali.

L’operazione è stata finora un totale fallimento. Il porto di Eilat è praticamente in bancarotta a causa dell’azzerarsi dei movimenti navali, mentre, nel migliore dei casi, i missili americani da centinaia di milioni di dollari ciascuno hanno qua e là intercettato droni e ordigni yemeniti del valore di qualche centinaio o al massimo poche migliaia di dollari. Il traffico da e per il canale di Suez si è ridotto drasticamente e i costi dei trasporti navali impennati in modo vertiginoso. Inoltre, la “missione” di Ansarallah a difesa dei palestinesi ha dato prestigio al governo di fatto dello Yemen, rinsaldando la sua posizione nello scacchiere regionale, con possibili implicazioni riguardo le dinamiche economico-strategiche che emergeranno nella regione alla fine della guerra provocata da Israele.

Lo stato ebraico, da parte sua, nella giornata di sabato aveva deciso di sferrare un contrattacco sul porto di Hodeidah. Un gravissimo incendio ha avvolto depositi di carburante e attrezzature per lo scarico delle merci, con conseguenze disastrose sulla rete di distribuzione di beni di prima necessità per la popolazione yemenita. Oltre a questi danni, il bombardamento israeliano ha provocato anche tre morti e circa 90 feriti. Vista la situazione già molto precaria dello Yemen, la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate o distrutte richiederà risorse enormi e tempi probabilmente molto lunghi.

L’attenzione che i media “mainstream” continuano a dedicare ai fatti del fine settimana in Yemen rivela un certo nervosismo per le conseguenze dell’iniziativa militare senza precedenti decisa da Israele. Il genocidio in corso a Gaza sembra già essere andato al di là dei limiti, fino a creare una serie di interrogativi sulla sostenibilità dello status quo mediorientale che vede lo stato ebraico tradizionalmente in una posizione di supremazia rispetto ai suoi nemici (e a quelli degli Stati Uniti). L’eventuale scoppio di una guerra su vasta scala anche con lo Yemen, oltre a essere virtualmente impossibile da vincere per Tel Aviv, rischia di destabilizzare ancora di più la regione e di coagulare in maniera definitiva le forze della Resistenza contro lo stato ebraico.

Ciò risulta chiaro dal riferimento insistente, da parte del regime di Netanyahu e di molti commentatori, sul fatto che l’attacco di sabato scorso rappresenti una sorta di messaggio all’Iran, ovvero che il principale terminal delle esportazioni petrolifere della Repubblica Islamica, sull’isola di Kharg nel Golfo Persico, sarebbe esposto al fuoco israeliano se non dovessero cessare le attività “destabilizzanti” degli alleati di Teheran.

Uno scenario simile implicherebbe il pieno coinvolgimento di Washington e il fallimento dei tentativi di un’amministrazione Biden allo sbando di tenere confinata la guerra in corso a Gaza e di perpetuare l’illusione che le operazioni yemenite nel Mar Rosso nulla abbiano a che fare con i crimini di Israele. Al contrario, il genocidio palestinese è alla base della crisi che attraversa oggi il Medio Oriente e, come hanno sempre sostenuto i leader “Houthis”, solo la fine dei massacri che durano da quasi dieci mesi potranno calmare la situazione nel Mar Rosso, così come al confine tra Libano e Israele.

Il persistere degli scontri e l’allargamento del fronte, come prospettano i fatti del fine settimana, mettono quindi inevitabilmente al centro della discussione il ruolo degli Stati Uniti, dai quali, retorica a parte, dipendono in larghissima parte le sorti e la prosecuzione della guerra condotta dallo stato ebraico contro la popolazione palestinese.

Il violento attacco israeliano di sabato, rafforzando l’immagine di Ansarallah nella regione, crea infine ancora più imbarazzo per i regimi arabi sunniti, i quali, nonostante dispongano di risorse e influenza infinitamente maggiori rispetto allo Yemen, non hanno mosso un dito in difesa dei palestinesi. Anzi, paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e la Giordania continuano a facilitare il genocidio condotto dallo stato ebraico. Riguardo l’attacco contro il porto di Hodeidah, infatti, è probabile che Israele sabato scorso abbia avuto accesso allo spazio aereo saudita.

Ansarallah e Hezbollah restano dunque gli attori della Resistenza che si stanno più efficacemente adoperando contro l’orrore sionista. Malgrado l’ostentazione di sicurezza da parte del regime di Netanyahu, le operazioni messe in atto dallo Yemen e dal Libano hanno un impatto importante sul conflitto, non da ultimo contribuendo a esercitare pressioni su Washington e Tel Aviv per evitare una pericolosa escalation. Lo stesso governo americano teme che il precipitare della situazione su questi due fronti possa avere conseguenze distruttive per gli interessi dei due alleati.

Ciò è confermato, tra l’altro, dalla notizia circolata nei giorni scorsi della richiesta fatta dagli USA al governo di Sana’a, tramite quello dell’Oman, di non intraprendere ulteriori ritorsioni contro Israele dopo l’attacco di sabato a Hodeidah. L’amministrazione Biden ha assicurato allo Yemen che l’operazione non avrebbe avuto seguito, dal momento che rappresentava a sua volta la risposta al blitz del giorno prima su Tel Aviv. L’intervento americano, simile ad altri rivolti a Hezbollah, dimostra ancora una volta la debolezza e l’incapacità di Washington di leggere l’evolversi degli scenari mediorientali. I leader di Asarallah hanno infatti subito respinto l’invito alla moderazione, promettendo altre e più efficaci iniziative in difesa della causa palestinese.

La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.

La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.

Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.

La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.

Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.

Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.

Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.

Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.

Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.

La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.

Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.

Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.

Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.

Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.

A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.

Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.

Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.

Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film  è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.

"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".

Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.

Felicità (Italia, 2023)

Regia: Micaela Ramazzotti

Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini

Distribuzione: 01 Distribution

Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Jacopo Quadri

Produzione: Lotus Production con Rai Cinema

Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell,  narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.

Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.

Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.

A Thousand and one (Usa 2023)

Regia: A.V. Rockwell

Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox

Sceneggiatura: A.V. Rockwell

Fotografia: Eric Yue

Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague

Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy

Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.

Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.

Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.

Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.

 

L'ombra del giorno (Italia 2022)

Regia: Giuseppe Piccioni

Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin

Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub

Distributore: 01 Distribution


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