Un paio di settimane fa mi è stato diagnosticato un cancro alla pelle. Anche se non mi ha sorpreso più di tanto, visto che si tratta di un disturbo ricorrente nella mia famiglia, la cosa non ha smesso di sconvolgermi, visto che il carcinoma è sul mio viso, in un punto molto visibile. Sento che il tempo scorre, mentre arriva il giorno dell'intervento. Aspetto con impazienza, sperando che la cicatrice non sia troppo grande.

I numeri deL rapporto SOFI (State of Food Insecurity) recentemente pubblicato da Onu, Fao, Ifad, Unicef e Pam, fanno paura: la quota di chi è condannato a vivere in costante insicurezza alimentare rimane di 733 milioni per il terzo anno consecutivo. Il 36 per cento in più di un decennio fa, quando le Nazioni Unite avevano inserito la «fame zero» tra i 17 Obiettivi 2030 per lo sviluppo sostenibile. Ci sono 152 milioni aggiuntivi di affamati rispetto al pre-Covid. Una persona su undici non ha da mangiare, percentuale che in Africa diventa una su cinque.

Secondo la narrazione dominante, i Giochi Olimpici sono un simbolo di pace e cooperazione internazionale, trionfo del merito e della disciplina individuale, un luogo che aspira a porsi oltre le divisioni e i conflitti politici. Tuttavia, lo sport, come ogni altra sfera della società, sappiamo non essere neutrale, bensì specchio delle strutture economiche e politiche dominanti, e di certo le Olimpiadi non sfuggono a questa logica.

L’esclusione degli atleti russi e bielorussi ne è una chiara evidenza, soprattutto quando messa a confronto con la presenza di quelli israeliani, a cui è stato permesso di sventolare orgogliosi la bandiera di uno Stato genocida, che veniva applaudito sul podio di Parigi mentre non ha mai smesso di bombardare scuole ed ospedali in Palestina. Chissà quanti di quegli atleti hanno già servito nell’ IDF, chissà quanti dovrebbero essere chiamati a rispondere di crimini  di guerra invece che essere festeggiati per aver primeggiato in qualche acrobazia.

Alla fine della Seconda guerra mondiale (1939-1945) è emerso un insieme di nuovi processi nella storia contemporanea. Il socialismo, che fino ad allora era rimasto confinato nell'Unione Sovietica (URSS), si diffuse nell'Europa orientale e poi in diversi Paesi asiatici dopo il trionfo della Rivoluzione cinese (1949). Lo sviluppo di questo blocco ha messo a confronto i Paesi del capitalismo centrale con gli Stati Uniti in prima linea, dando impulso alla Guerra Fredda. Allo stesso tempo, in Africa e in diversi Paesi asiatici iniziarono diversi processi di indipendenza anticoloniale, che portarono all'ascesa del cosiddetto Terzo Mondo.

I Paesi dell'America Latina hanno raggiunto l'indipendenza nei primi decenni del XIX secolo, anche se Cuba e Porto Rico l'hanno ottenuta solo alla fine del XIX secolo. Ma dopo la Rivoluzione cubana (1959), nella regione si instaurò la Guerra Fredda, nell'ambito della quale gli Stati Uniti esercitarono un interventismo attivo per evitare che altri Paesi latinoamericani seguissero la strada di Cuba, favorendo gli interessi sovietici nel continente o promuovendo posizioni antimperialiste e sovraniste.

A partire dagli anni Sessanta, gli interventi statunitensi nei Paesi dell'America Latina hanno avuto una storia continua e ampiamente studiata, poiché non si limitavano a prevenire o a rovesciare governi pericolosi per i propri interessi. Con la sua assistenza, nel Cono Sud si sono instaurate dittature anticomuniste apertamente terroristiche, sull'esempio del regime di Augusto Pinochet in Cile. Inoltre, una varietà di azioni, programmi, consulenze o strumenti di "cooperazione" sono stati utilizzati per riprodurre la dipendenza esterna coltivata con il pretesto dell'americanismo, le cui radici risalgono alla Dottrina Monroe (1823).

In questo quadro, alla fine del 1961 l'ONU adottò la Risoluzione 1710 [XVI] (19/12/1961) che proclamava il "Decennio dello Sviluppo", mentre sotto l'iniziativa del governo di John F. Kennedy (1961-1963), gli Stati Uniti promossero il Programma di Alleanza per il Progresso (ALPRO) in America Latina, volto a fornire sostegno finanziario e assistenza tecnica ai Paesi della regione per avviarne lo "sviluppo". In quel periodo sono apparsi molti studi sullo sviluppo e sul sottosviluppo. In prima linea, e con una chiara visione latinoamericana, c'era la CEPAL, le cui proposte enfatizzavano i cambiamenti strutturali per porre le basi necessarie allo sviluppo.

Molte delle idee della CEPAL coincidevano, almeno formalmente, con alcune proposte dell'ALPRO, come la riforma agraria, l'industrializzazione, la pianificazione economica, l'integrazione regionale e il sostegno dello Stato alla crescita e alla modernizzazione del settore privato. Considerato in prospettiva storica, lo sviluppismo di allora aveva un duplice scopo: da un lato, superare definitivamente i regimi oligarchici legati alle haciendas tradizionali e alla crescita basata sul settore delle esportazioni primarie; dall'altro, promuovere il capitalismo, in una forma aperta e "libera" secondo l'ALPRO e come capitalismo sociale, con un senso di benessere, come cercava la CEPAL.

I decenni dello sviluppo degli anni '60 e '70 sono stati i decenni di maggiore crescita capitalistica in America Latina dalla fondazione delle diverse repubbliche e, allo stesso tempo, di indiscutibili conquiste nelle riforme e trasformazioni sociali, poiché i governi erano guidati dall'idea di superare il "quadro di sottosviluppo" che ogni Paese presentava. Con le dovute differenze, l'attenzione è stata rivolta al lavoro, all'istruzione, alla sanità, alla sicurezza sociale, alle infrastrutture e ai servizi pubblici. Si trattò di uno sforzo continentale senza precedenti che aveva molto a che fare con la necessità di evitare una soluzione di tipo socialista nel bel mezzo dell'acuto conflitto politico creato dalla Guerra Fredda.

La nota economista Mariana Mazzucato ha analizzato in due opere: El Estado emprendedor e soprattutto in Misión Economía, lo sforzo compiuto dagli Stati Uniti per coltivare obiettivi a lungo termine e proprio con uno Stato che interveniva per favorire la crescita. Qualcosa di simile si può dire sia stato progettato in America Latina dove, paradossalmente, lo sviluppo è stato rallentato dalla reazione degli strati imprenditoriali più conservatori, che non accettavano la creazione di stati sociali, poiché implicavano, tra l'altro, pesanti imposte redistributive sul reddito e sulla ricchezza, a cui le oligarchie hanno resistito per tutta la storia della repubblica.

In contrasto con quei decenni sviluppisti, il neoliberismo che ha preso piede in America Latina con l'avanzare degli anni Ottanta e che è fiorito a partire dagli anni Novanta si è caratterizzato per l'abbandono dei grandi obiettivi di sviluppo e per la loro sostituzione con il semplice interesse per l'accumulo di profitti e la promozione dello "spirito imprenditoriale", confidando che il libero mercato e l'impresa privata risolvessero le condizioni di sottosviluppo preesistenti, termine che, tra l'altro, è stato abbandonato per la nuova ideologia del successo individuale, della competitività e del profitto.

Sembrava che i vecchi domini oligarchici fossero stati superati con l'emergere di borghesie modernizzatrici, che avevano portato crescita, energizzato i mercati, generalizzato il consumismo ed esteso i mercati anche ai settori popolari più remoti. Ma non sono state create economie con benessere sociale.

Così è stato per i governi progressisti latinoamericani, che sono riusciti ad avanzare ciclicamente nel corso del XXI secolo, gli unici che, pur contribuendo allo sviluppo capitalistico, sono riusciti a porre le basi per economie con benessere sociale. Questa esperienza ha provocato la riunificazione delle élite imprenditoriali e delle vecchie oligarchie del settore primario-esportazione, che sostengono i governi che esprimono solo e direttamente i loro interessi.

Nel presente storico, la somiglianza dei processi in Ecuador e Argentina ci porta a considerarli come esempi di quella che in America Latina si sta proiettando come una nuova tendenza: governi assolutamente affaristici, con ideologie che vestono e giustificano le loro azioni, siano esse chiamate neoliberismo o libertarismo anarco-capitalista, che hanno rapidamente portato all'egemonia economica di un'élite sociale di milionari e imprenditori di matrice oligarchica. È tornato il quadro del sottosviluppo e sono stati definitivamente abbandonati gli obiettivi di costruzione di Stati sociali. All'interno del Paese si stanno adottando azioni di ogni tipo per liquidare le proposte alternative e perseguitare l'opposizione progressista, mentre i settori organizzati e di protesta vengono criminalizzati. L'emigrazione degli ecuadoriani è salita alle stelle e il crimine organizzato è cresciuto con i governi affaristi degli ultimi sette anni. A livello internazionale, non si vede il mondo multipolare e pluricentrico che è in corso e si afferma invece la subordinazione alle geostrategie continentaliste degli Stati Uniti.

Il progressismo sociale e le forze politiche che pretendono di rappresentarlo sono chiamati ad aggiornare le loro visioni e persino le loro forme di organizzazione e di lotta contro la rinascita delle dominazioni corporative-oligarchiche, che non offrono più un futuro per la creazione di migliori condizioni di vita e di lavoro per la popolazione, ma ci riportano in ambiti da Terzo Mondo.

Il nuovo assalto del Congresso americano alla popolare app cinese TikTok si è materializzato questa settimana con una proposta di legge che mette assieme contemporaneamente gli impulsi più retrogradi e autoritari della classe dirigente degli Stati Uniti: dall’anticomunismo alla guerra “ibrida” contro la Cina, dall’abrogazione di fatto dei più basilari diritti democratici alla censura e al controllo degli spazi di discussione e scambio di idee in rete. Il provvedimento, non ancora definitivo, non ha insomma nulla a che fare con gli scrupoli legati alla sicurezza nazionale dichiarati dai suoi promotori, mentre è da collegare in parte anche all’offensiva condotta da Washington contro Pechino per la supremazia nell’ambito dell’innovazione tecnologica.


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