Alla fine della Seconda guerra mondiale (1939-1945) è emerso un insieme di nuovi processi nella storia contemporanea. Il socialismo, che fino ad allora era rimasto confinato nell'Unione Sovietica (URSS), si diffuse nell'Europa orientale e poi in diversi Paesi asiatici dopo il trionfo della Rivoluzione cinese (1949). Lo sviluppo di questo blocco ha messo a confronto i Paesi del capitalismo centrale con gli Stati Uniti in prima linea, dando impulso alla Guerra Fredda. Allo stesso tempo, in Africa e in diversi Paesi asiatici iniziarono diversi processi di indipendenza anticoloniale, che portarono all'ascesa del cosiddetto Terzo Mondo.

I Paesi dell'America Latina hanno raggiunto l'indipendenza nei primi decenni del XIX secolo, anche se Cuba e Porto Rico l'hanno ottenuta solo alla fine del XIX secolo. Ma dopo la Rivoluzione cubana (1959), nella regione si instaurò la Guerra Fredda, nell'ambito della quale gli Stati Uniti esercitarono un interventismo attivo per evitare che altri Paesi latinoamericani seguissero la strada di Cuba, favorendo gli interessi sovietici nel continente o promuovendo posizioni antimperialiste e sovraniste.

A partire dagli anni Sessanta, gli interventi statunitensi nei Paesi dell'America Latina hanno avuto una storia continua e ampiamente studiata, poiché non si limitavano a prevenire o a rovesciare governi pericolosi per i propri interessi. Con la sua assistenza, nel Cono Sud si sono instaurate dittature anticomuniste apertamente terroristiche, sull'esempio del regime di Augusto Pinochet in Cile. Inoltre, una varietà di azioni, programmi, consulenze o strumenti di "cooperazione" sono stati utilizzati per riprodurre la dipendenza esterna coltivata con il pretesto dell'americanismo, le cui radici risalgono alla Dottrina Monroe (1823).

In questo quadro, alla fine del 1961 l'ONU adottò la Risoluzione 1710 [XVI] (19/12/1961) che proclamava il "Decennio dello Sviluppo", mentre sotto l'iniziativa del governo di John F. Kennedy (1961-1963), gli Stati Uniti promossero il Programma di Alleanza per il Progresso (ALPRO) in America Latina, volto a fornire sostegno finanziario e assistenza tecnica ai Paesi della regione per avviarne lo "sviluppo". In quel periodo sono apparsi molti studi sullo sviluppo e sul sottosviluppo. In prima linea, e con una chiara visione latinoamericana, c'era la CEPAL, le cui proposte enfatizzavano i cambiamenti strutturali per porre le basi necessarie allo sviluppo.

Molte delle idee della CEPAL coincidevano, almeno formalmente, con alcune proposte dell'ALPRO, come la riforma agraria, l'industrializzazione, la pianificazione economica, l'integrazione regionale e il sostegno dello Stato alla crescita e alla modernizzazione del settore privato. Considerato in prospettiva storica, lo sviluppismo di allora aveva un duplice scopo: da un lato, superare definitivamente i regimi oligarchici legati alle haciendas tradizionali e alla crescita basata sul settore delle esportazioni primarie; dall'altro, promuovere il capitalismo, in una forma aperta e "libera" secondo l'ALPRO e come capitalismo sociale, con un senso di benessere, come cercava la CEPAL.

I decenni dello sviluppo degli anni '60 e '70 sono stati i decenni di maggiore crescita capitalistica in America Latina dalla fondazione delle diverse repubbliche e, allo stesso tempo, di indiscutibili conquiste nelle riforme e trasformazioni sociali, poiché i governi erano guidati dall'idea di superare il "quadro di sottosviluppo" che ogni Paese presentava. Con le dovute differenze, l'attenzione è stata rivolta al lavoro, all'istruzione, alla sanità, alla sicurezza sociale, alle infrastrutture e ai servizi pubblici. Si trattò di uno sforzo continentale senza precedenti che aveva molto a che fare con la necessità di evitare una soluzione di tipo socialista nel bel mezzo dell'acuto conflitto politico creato dalla Guerra Fredda.

La nota economista Mariana Mazzucato ha analizzato in due opere: El Estado emprendedor e soprattutto in Misión Economía, lo sforzo compiuto dagli Stati Uniti per coltivare obiettivi a lungo termine e proprio con uno Stato che interveniva per favorire la crescita. Qualcosa di simile si può dire sia stato progettato in America Latina dove, paradossalmente, lo sviluppo è stato rallentato dalla reazione degli strati imprenditoriali più conservatori, che non accettavano la creazione di stati sociali, poiché implicavano, tra l'altro, pesanti imposte redistributive sul reddito e sulla ricchezza, a cui le oligarchie hanno resistito per tutta la storia della repubblica.

In contrasto con quei decenni sviluppisti, il neoliberismo che ha preso piede in America Latina con l'avanzare degli anni Ottanta e che è fiorito a partire dagli anni Novanta si è caratterizzato per l'abbandono dei grandi obiettivi di sviluppo e per la loro sostituzione con il semplice interesse per l'accumulo di profitti e la promozione dello "spirito imprenditoriale", confidando che il libero mercato e l'impresa privata risolvessero le condizioni di sottosviluppo preesistenti, termine che, tra l'altro, è stato abbandonato per la nuova ideologia del successo individuale, della competitività e del profitto.

Sembrava che i vecchi domini oligarchici fossero stati superati con l'emergere di borghesie modernizzatrici, che avevano portato crescita, energizzato i mercati, generalizzato il consumismo ed esteso i mercati anche ai settori popolari più remoti. Ma non sono state create economie con benessere sociale.

Così è stato per i governi progressisti latinoamericani, che sono riusciti ad avanzare ciclicamente nel corso del XXI secolo, gli unici che, pur contribuendo allo sviluppo capitalistico, sono riusciti a porre le basi per economie con benessere sociale. Questa esperienza ha provocato la riunificazione delle élite imprenditoriali e delle vecchie oligarchie del settore primario-esportazione, che sostengono i governi che esprimono solo e direttamente i loro interessi.

Nel presente storico, la somiglianza dei processi in Ecuador e Argentina ci porta a considerarli come esempi di quella che in America Latina si sta proiettando come una nuova tendenza: governi assolutamente affaristici, con ideologie che vestono e giustificano le loro azioni, siano esse chiamate neoliberismo o libertarismo anarco-capitalista, che hanno rapidamente portato all'egemonia economica di un'élite sociale di milionari e imprenditori di matrice oligarchica. È tornato il quadro del sottosviluppo e sono stati definitivamente abbandonati gli obiettivi di costruzione di Stati sociali. All'interno del Paese si stanno adottando azioni di ogni tipo per liquidare le proposte alternative e perseguitare l'opposizione progressista, mentre i settori organizzati e di protesta vengono criminalizzati. L'emigrazione degli ecuadoriani è salita alle stelle e il crimine organizzato è cresciuto con i governi affaristi degli ultimi sette anni. A livello internazionale, non si vede il mondo multipolare e pluricentrico che è in corso e si afferma invece la subordinazione alle geostrategie continentaliste degli Stati Uniti.

Il progressismo sociale e le forze politiche che pretendono di rappresentarlo sono chiamati ad aggiornare le loro visioni e persino le loro forme di organizzazione e di lotta contro la rinascita delle dominazioni corporative-oligarchiche, che non offrono più un futuro per la creazione di migliori condizioni di vita e di lavoro per la popolazione, ma ci riportano in ambiti da Terzo Mondo.

Il nuovo assalto del Congresso americano alla popolare app cinese TikTok si è materializzato questa settimana con una proposta di legge che mette assieme contemporaneamente gli impulsi più retrogradi e autoritari della classe dirigente degli Stati Uniti: dall’anticomunismo alla guerra “ibrida” contro la Cina, dall’abrogazione di fatto dei più basilari diritti democratici alla censura e al controllo degli spazi di discussione e scambio di idee in rete. Il provvedimento, non ancora definitivo, non ha insomma nulla a che fare con gli scrupoli legati alla sicurezza nazionale dichiarati dai suoi promotori, mentre è da collegare in parte anche all’offensiva condotta da Washington contro Pechino per la supremazia nell’ambito dell’innovazione tecnologica.

Nell’operazione in atto da diversi anni della riscrittura della storia a scopo politico, nella parte che concerne la rivalutazione del fascismo, operata passando attraverso la criminalizzazione della lotta partigiana, un ruolo di rilievo è ricoperto dalla propaganda costruita intorno alle inchieste per i cosiddetti “crimini delle foibe”. Il 10 febbraio, il Giorno del Ricordo, si avvicina e puntualmente ogni anno la macchina della propaganda revisionista e rovescista, viene abilitata e l’attuale monopolizzazione della Rai da parte del governo Meloni non aiuta di certo.

Intervista a Mariana Mazzucato, economista e autrice de "Il grande imbroglio", un'indagine sulle grandi società di consulenza.

Da decenni il lavoro di Mariana Mazzucato illumina con sguardo acuminato e sferzante le storture più insoffribili dell’economia mondiale, della finanza, della governance della globalizzazione. E propone visioni che, indiscutibilmente, meritano considerazione per il loro aggancio alla realtà, e adesione al senso della funzione pubblica. Questa volta l’economista e docente allo University College London, dove dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose, ha puntato l’attenzione sulle società di consulenzaMcKinsey, Deloitte, KPMG e poche altre – che in un batter d’ali, nella struttura di grandi multinazionali ormai, hanno conquistato un potere gigantesco nell’economia contemporanea. 

Abbiamo incontrato Mariana Mazzucato a Roma in occasione del lancio del suo ultimo libro edito per l’Italia da Laterza, Il grande imbroglio. L’indagine accurata sul ruolo di queste società di consulenza, a cui i governi affidano sempre più di frequente il disegno e la gestione degli orizzonti strategici da perseguire, è una denuncia implacabile contro il fenomeno dell’inarrestabile svilimento dell’interesse generale, sia a livello di Paesi che sul piano delle realtà internazionali, nell’arrendevolezza all’inganno esercitato dalle società di consulenza, che si presentano come depositarie di competenze spesso inesistenti.  

Mazzucato, dopo anni di battaglie contro le regole vigenti sulla proprietà intellettuale, questa volta ha deciso con il suo ultimo libro di rompere il silenzio sull’industria internazionale delle consulenze. Una nicchia di realtà intermedie spesso inafferrabili, estremamente influenti e opache, che oliano gli ingranaggi del capitalismo contemporaneo. Da cosa scaturisce questo suo lavoro? 

Tutto il mio lavoro, sin dai tempi di Lo Stato innovatore, ruota intorno alla stessa domanda: come governiamo e come risolviamo le sfide più difficili del nostro tempo (salute, clima, digital divide)? E il mio lavoro di ricerca approda sempre alla stessa questione, ovvero lo Stato che ha smesso di investire sulle proprie capacità e ha preso a scimmiottare il settore privato, riproducendo le sue parole d’ordine, le sue metriche di efficienza, le sue logiche di costi-benefici. Così facendo i governi hanno perso il controllo della situazione, sono divenuti avversi al rischio, hanno smesso di investire sul fronte delle capacità pubbliche per affidarsi come beoti ai privati.

Oggi, la pervasività delle società di consulenza dentro i processi decisionali della funzione pubblica a livello globale – una patologia che affligge Stati nazionali e organizzazioni internazionali – non è che una delle manifestazioni più deflagranti e sconosciute di questo processo di svuotamento, di privatizzazione nascosta e, in ultima analisi, di infantilizzazione dei governi e delle loro funzioni. 

Quindi sta dicendo che i governi devono recuperare un nuovo senso di sé e delle responsabilità che sono chiamati a esercitare?

Precisamente. Dopo Margaret Thatcher e Ronald Reagan ai governi è stato riservato il ruolo di riparare ai fallimenti del mercato (market failures) nella migliore delle ipotesi, più spesso di togliersi di mezzo… tutte parole tossiche! Ai governi spetta trovare i soldi, colmare i buchi finanziari, incentivare, spetta facilitare (la più subdola parola al mondo!), fare de-risking per gli investitori. Ma perché mai lo Stato dovrebbe assorbire il rischio d’impresa? Occorre sovvertire le narrazioni sulle inabilità della funzione pubblica, e farlo con urgenza.

Dobbiamo esigere governi capaci di rischiare, sperimentare, orientare le politiche verso missioni strategiche. La funzione pubblica deve essere in grado di apparecchiare ecosistemi simbiotici e mutualistici con il settore privato, non il rapporto sregolato e parassitario con le mega industrie (Big Tech, Big Pharma) che abbiamo visto ad esempio durante la pandemia. Le società di consulenza, con i loro stupidi PowerPoint sempre uguali, non capiscono nulla di funzione pubblica! 

Eppure sono ovunque ormai, spesso invisibili alla società.

Per questo mi sono buttata a capofitto su questo tema nel libro. Sono ovunque, confermo, autentici parassiti di sistema. Per questo motivo non ho firmato il rapporto della Commissione Colao, di cui facevo parte, quando stavamo nel picco del Covid. Mi sono rifiutata. Al primo incontro, eravamo una quindicina fra accademici ed esperti, ci siamo ritrovati anche 13 persone di McKinsey nella stanza. Praticamente infiltrate, non dicevano nulla. Così ho chiesto a Vittorio Colao che ci facessero tra noi, obiettando rispetto a questa non neutrale presenza. In tutta risposta, seccato, Colao mi ha garantito che prestavano la loro consulenza a titolo gratuito – dico io, vi rendete conto il livello di corruzione? – e che la funzione pubblica italiana non avrebbe potuto gestire la cosa.

Primo, non è vero. Secondo, in quella sede si parlava di fondi, di scelte strategiche, di progetti. E infatti nel rapporto finale ci avevano messo anche il patent box (ovvero, le agevolazioni dei redditi – fino al 50% – per incentivare investimenti in ricerca e sviluppo, e l’utilizzo di beni immateriali come i brevetti, ndr), cioè provvedimenti contro i quali mi sono battuta tutta la vita, visto che i brevetti sono già monopoli che assicurano sconfinati profitti. Certo, McKinsey vuole il patent box e, visto che Draghi si è portato dietro tutti questi consulenti per la realizzazione del Pnrr, sono loro che hanno in mano i contratti, la definizione delle priorità, la selezione dei progetti.

Una forma di colonizzazione, insomma… 

Esatto, colonizzatori che riescono a farti parlare la loro lingua e a veicolare le loro idee, quelle del settore privato. Perché uno Stato stupido, debole, impaurito, un governo che facilita perché incapace di fare altro si fa catturare, si fa corrompere facilmente, questo è il problema. Mica succede in Italia soltanto, ma anche negli Stati Uniti, in Africa. 

Qual è la correlazione fra le società di consulenza e la privatizzazione e finanziarizzazione dellagenda sociale? 

Nel libro abbiamo fornito una miriade di esempi, più o meno recenti, degli esiti disastrosi che queste società hanno prodotto. Queste vicende sono avvenute anche in Paesi che hanno fatto investimenti in capacità pubblica, come ad esempio in Australia. Qui però, nonostante tutto, hanno scelto di erogare a McKinsey sei milioni di dollari per redigere una strategia climatica oggi notoriamente pessima, zeppa di conflitti di interesse.

Lo stesso è accaduto in Gran Bretagna: durante la pandemia Londra ha firmato un contratto da un milione di sterline al giorno con Deloitte per tracciare i test. Si è trattato di un assoluto disastro, costosissimo. Ma che vuoi che ne capisca Deloitte di contagi? Sia chiaro, non siamo contro i consulenti che, anzi, quando sono veramente esperti possono dare importanti indicazioni alle amministrazioni pubbliche. Uno specialista dei tumori con venti anni di esperienza è prezioso per orientare le politiche del governo un ambito sanitario, non c’è dubbio. Siamo decisamente contrarie all’industria delle consulenze, perché esercitano la loro influenza in virtù di contatti e reti di influenza, comprese quelle dei lobbisti. 

Dunque, che fare? 

Il segno di questa infantile insicurezza della funzione pubblica va sanata. Proponiamo nel libro diverse ricette. In primo luogo, occorre intervenire con rigore, normativamente, sul conflitto di interesse e sulle condizionalità che devono essere imposte quando uno Stato avvia una relazione di impresa con i privati. Serve poi avere il coraggio di re-immaginare il ruolo dello Stato dopo queste catastrofi: pensiamo solo alla pandemia, ma anche alla crisi climatica. Propongo di trarre ispirazione dalla storica vicenda dei fallimenti della Nasa con l’Apollo 1. Fu un momento dirimente per cambiare completamente il modo di operare della agenzia, nel segno della cooperazione, per andare sulla Luna. Cambiare la cultura dei governi, rendere la burocrazia creativa, agile e flessibile, per un’economia di missione è possibile. Con tutto quello che succede nel mondo è un passo necessario, direi.

 

Di Nicoletta Dentico

Fonte: Valori.it

Bogotà. Virilio, Mann e Mumford sono teorici che condividono una visione terrificante, ma assolutamente vera e inconfutabile: dalla prima guerra mondiale si è costruita un'economia di guerra, le potenze sono Stati in guerra e i media audiovisivi marciano alla stessa frenetica velocità della tecnologia che rende possibile ogni scontro armato.


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