La Fondazione Argentina Altobelli ha inaugurato una collana editoriale dedicata al tema “Sindacato e Storia”, con la quale intende divulgare le lotte, le sfide, i contributi della classe lavoratrice e del movimento sindacale nella storia d’Italia. Il primo volume è dedicato al centenario dell’abolizione della Festa del Lavoro decretata dal Governo Mussolini nel 1923: “L’anno in cui il Governo Mussolini cancellò il Primo Maggio. Dal primo Consiglio dei Ministri (1° novembre 1922) al Patto interconfederale di Palazzo Chigi (19 dicembre 1923)”. Ne abbiamo brevemente discusso con l’autore, Michelangelo Ingrassia, docente di Storia Contemporanea e di Storia delle Istituzioni Educative Contemporanee presso l’Università degli Studi di Palermo.

 

Bogotà. Nessuno ricorda il Covid. Ma ci sono sintomi di malattia ovunque. Sintomi forse peggiori. E più vecchi, senza dubbio. In alcuni casi, segni preoccupanti che riguardano il mondo e minacciano la sopravvivenza della razza umana. In altri casi, manifestazioni locali - ugualmente evidenti e allarmanti - che forse non pongono problemi per la conservazione del pianeta, ma pongono problemi per i diritti delle persone.

Gli incendi in Canada, a Maui, in Grecia e a Tenerife, luoghi in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza e in cui le persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa sono alcuni di questi sintomi. Mentre alcune persone sono costrette a decidere se morire bruciate o annegati, come un sopravvissuto dell'isola hawaiana Hawaiian island, il resto di noi non sta facendo abbastanza per fermare ciò che causa l'aumento delle temperature ogni anno, che salgano a livelli insopportabili per gli esseri viventi.

L'8 gennaio dell'anno appena iniziato mi sono recata al Museo del Domani di Rio de Janeiro per vedere Amazonía, una mostra che raccoglie gli ultimi lavori del fotografo e attivista brasiliano Sebastião Salgado. La mostra è composta da duecento immagini della foresta pluviale brasiliana che l'artista ha impiegato sei anni per mettere insieme nel corso di diverse spedizioni e di periodi di convivenza con diversi gruppi indigeni della regione. È difficile trovare le parole per esprimere ciò che queste immagini producono, l'impressione profonda che lasciano, il valore che contengono, la lezione che non riusciamo a capire.

Il Mlac - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza ospita Figurazione senza tempo - Fabrizio Borelli /Contagion - Metafotografie 2013/2021. La mostra è promossa da Gn Media nell'ambito del Progetto Contagion.

In mostra l’opera completa Contagion - serie 2013 e serie 2021 - di Fabrizio Borelli, una sequenza di trenta tavole che adottano - dichiara la curatrice Maria Italia Zacheo - quale “segno base un encefalo umano, figura-archetipo della vita, del pensiero, dell’individuo. Il segno/simbolo è inserito in ognuna delle tavole diversamente, sempre in una griglia ortogonale di venticinque celle, astrazione del mondo.

Sono in buona parte gli Zoomers, così si chiamano i ragazzi  nati tra il 1996 e il 2010, la generazione dei social media, di TikTok e di Internet. E' la Gen-Z iraniana a guidare la protesta per l’uccisione di Mahsa Amini. E' la ragazza di 22 anni, morta il 16 settembre a Teheran, la capitale, dopo essere stata arrestata dalla “Polizia della morale”, per non avere indossato correttamente il velo islamico, o hijab, come prescritto dalle leggi iraniane. Giorno dopo giorno le manifestazione contro il velo e la Polizia religiosa si sono trasformate in una lotta politica anti-regime. Duecento e passa finora i morti, migliaia gli arrestati. Il medesimo scenario di lutti che si accompagnò alla cacciata dello Scià.

La differenza con l’oggi sta nel fatto che non esiste un “Libretto Rosso” per la rivoluzione in uno Stato teocratico. Il "Libretto Rosso" si rivolgeva ai giovani cinesi che Mao cercò di mobilitare contro la burocrazia del Partito Comunista cinese che pullulava di oppositori. Mobilitando i giovani, Mao puntò a creare un rapporto diretto di tipo carismatico con i giovani dell'intera Cina. Ma in Iran non c’è un Mao come alternativa al governo dei preti. In Iran, come altrove, i "rivoluzionari" sono gli Zoomers, nati con Internet, che non fanno distinzione tra vita online e offline, che non possono rinunciare ai social.

Gli appartenenti alla Gen-Z mostrano un’attenzione più decisa rispetto alle generazioni a loro precedenti, per i diritti sociali, la libertà di espressione e di informazione. Sanno poco o niente sul "Libretto Rosso", perchè gli è sconosciuto, oppure lo ritengono superato. In compenso, sono i primi a vivere l’epoca dei matrimoni omosessuali legalizzati, la guerra all’ISIS, la crisi delle sanzioni. Difficile dire quanti sappiano sulla possanza del potere religioso perché, “la religione è lo spirito di un mondo senza spirito.”, come sentenziò Carlo Marx.

Gli ayatollah, al contrario, ne hanno fatto tesoro per indottrinare le masse. Da 44 anni sono al governo del Paese. Ahmad Jannati (95 anni) presidente dell’Assemblea degli Esperti e del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, Alì Khamenei (85 anni) la Guida Suprema, come pure Hassan Rouhani, ex presidente delle Repubblica, sono tra i personaggi più famosi, che hanno conosciuto Khomeni da vicino. Gli sono vissuti appresso negli anni cruciali della "riscossa". Agli occhi delle masse essi rappresentano la continuità dottrinale, l'eredità spirituale dell'Imam. Ma perché sopravvive il carisma dell’ayatollah Ruḥollāh Komeini nell’Iran sciita?

Ricordo quel primo febbraio del 1979 quando, alle nove e sette minuti del mattino, nel cielo terso di Teheran apparve il jumbo che riportava in patria Ruhollah Khomeini il "profeta disarmato". Ritornava dopo quindici anni di esilio e decine di migliaia di persone l'attendevano nelle strade. «Il mondo non aveva mai visto uno spettacolo simile», scriverà il New York Times.

Ricordo la confusa partenza dall'aeroporto parigino di Orly, con Sadeh Gotbzadeh (sarà fucilato il 15 settembre 1982) mentre vendeva i biglietti ai giornalisti che volevano accompagnare Khomeini nel suo viaggio trionfale. Infilava i soldi in una busta di plastica trasparente, che poi consegnò a due persone amiche pregando le di depositare la somma il giorno dopo, alla riapertura delle banche, perché l'aereo su cui si doveva viaggiare l'aveva noleggiato con un assegno a vuoto. Ricordo l'arrivo a Teheran, la saletta dei "vip" dell'aeroporto zeppa di personalità: i religiosi, ma soprattutto i laici, gli esiliati, i perseguitati dal regime dello scià. Pressata contro i cancelli, la folla gridava, invocava. Khomeini che avanzava lento, solenne, impassibile.

A un giornalista della Nbc che gli domandò: «Cosa prova in questo momento?», rispose: «Nulla». Tornato in patria a settantanove anni, essendo egli nato il 17 maggio del 1900, fu accolto come il gran liberatore. Nella capitale gli avevano preparato una reggia non meno sontuosa di quella abbandonata in fretta e furia dallo scià. Ma lui sognava ambienti austeri e andò a Qom, la città santa dell'Islam sciita.

C'era comunque a quel tempo il sentimento, l'idea, che la rivoluzione sarebbe proceduta sui binari della logica e del pluralismo secondo quanto aveva proclamato lo stesso Komeni a Parigi. L'Occidente, ben poco sapendo di Islam e di ayatollah, scopriva attonito che il fondamentalismo sciita, nel momento del declino delle grandi ideologie, s'era rivelato una forza di sovversione efficace, molto più efficace del socialismo reputato scientifico.

L'immagine corrucciata e benedicente del vecchio ayatollah mostrò al mondo capacità insospettate: bloccò i militari nelle caserme, lanciò uomini, donne, giovinetti nelle piazze. «La religione islamica - affermava il rapporto Dorman Omeed, pubblicato in quei giorni sulla stampa americana - sta riempiendo il vuoto creato anche in Iran dal fallimento dei due grandi modelli sovietico e occidentale». Naturalmente, senza fare riferimenti a Marx.

A settantacinque anni, dunque, Khomeini è già il capo riconosciuto di tutto il mondo sciita, e in Occidente - miracoli della disinformazione - nessuno ha ancora sentito parlare di lui. A settantanove con il plauso internazionale si installa a Teheran. Non ha avuto difficoltà a raccogliere proseliti tra le masse dei mostatafin (i senza scarpe), dei perseguitati, della borghesia, tra gli operai secondo i quali, ancora oggi, Khomeini rimane il simbolo di un riscatto culturale di fronte alla "violenza" di altre culture. «L'Occidente e le sue false libertà hanno corrotto la nostra gioventù - predicava il vecchio imam in quel lontano febbraio - smettiamo di disprezzare la nostra antica civiltà, smettiamo di ispirarci ai libri che vengono dall'Ovest o dall'Est materialista. Noi dobbiamo ridare la fede al popolo, strapparlo all'idolatria di una cultura d'importazione. Dobbiamo cercare Allah, perché in Allah c'è tutto».

Sicché, una volta eliminate le opposizioni, spesso con metodi sanguinari, gli è stato abbastanza facile organizzare la società secondo un modello di socialismo coranico, che s'ispira ai princìpi originari della comunità arcaica, all'egualitarismo delle tribù beduine, trasformate dal Corano in nazioni. «Il bottino che Allah ha fatto trarre al profeta dai benestanti, appartiene ad Allah, al suo inviato, agli orfani, ai poveri, al viaggiatore, affinché non divenga monopolio dei ricchi». “L'anima di Dio" (questo significa Ruhollah, il nome di Khomeini) non scenderà mai a compromessi. Appena al potere aveva solennemente giurato: «Né con l'America, né con l'Unione sovietica».

Di Khomeini è l'icona che riverbera in ogni moschea del Paese, le quali tutti i venerdì si affollano di fedeli. Il socialismo coranico, nel più o nel meno, finora ha retto nell'Iran stremato dalle sanzioni. Possono i manifestanti con gli Zoomer in testa, strappare il potere dalle mani dei preti e guidare il Paese verso la democrazia? Qualcosa forse riusciranno a fare. Se non  chiedono aiuto all'Occidente, per loro è meglio.


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