Il governo Meloni è extraparlamentare. Perché fa una legge di bilancio su cui il Parlamento non metterà bocca. Perché manda armi in Ucraina di cui le Camere non sanno niente. Perché vuole il premierato. E intanto abusa della decretazione. Per gli attacchi alla magistratura, e per l’illiberale decreto sicurezza. Quello di Meloni è un governo extraparlamentare. 

La polemica feroce del governo contro i giudici ha trovato un nuovo capitolo nella rotta tra Italia e Albania. Il governo ha scagliato fuoco e fiamme contro lo stop all’espatrio per alcuni dei migranti, con conseguente figuraccia governativa che indica una difficoltà a comprendere le norme vigenti. Ma l’operato dei giudici verso l’operazione sui migranti è stato corretto, in ottemperanza alle norme europee che l’Italia ha sottoscritto e che quindi è tenuta a osservare.

Tanto era strampalata e priva di legittimità giuridica la decisione governativa (quantomeno anticipatoria di diversi mesi di quelle che saranno, forse, le modifiche tecniche relative allo status dei distinti paesi) che qualunque giudice, in qualunque paese UE, non avrebbe potuto acconsentire. A meno di farlo per pura volontà politica, piegando i codici e i trattati all’ambizione di un governo. Che ha pensato ad uno spot, che intendeva fare una operazione di marketing politico vista la mancanza di senso nel rapporto costi/benefici di una messa in scena destinata a poche persone e che ora graverà per 800 milioni di Euro sulle spalle dei contribuenti.

C’è una grande polemica politico-mediatica sulla richiesta di pene della Procura di Palermo verso il Ministro Matteo Salvini. I fatti sono noti, risalgono all’Agosto del 2019, quando nel ruolo di Ministro dell’Interno il beota padano impedì lo sbarco dei migranti raccolti alla deriva dalla motonave Open Arms, che chiese di poter attraccare in salvo nel porto di Lampedusa. Aveva a bordo 147 migranti raccolti in mare che avevano bisogno di assistenza e cure.
Con un decreto ad hoc Salvini proibì “l’ingresso, il transito e la sosta” nelle acque territoriali italiane per la Open Arms. Il decreto venne firmato anche da Toninelli (Ministro delle infrastrutture) e Trenta (ministro della Difesa), membri della delegazione pentastellata al governo. Va detto anche, però, che poi questi ultimi si rifiutarono di firmarne altri dopo l’intervento del TAR che annullò la validità del primo decreto.

Salvini impedì lo sbarco dei migranti causando innumerevoli problemi e mise a repentaglio la salute pubblica oltre che quella dei migranti stessi, generando una emergenza umanitaria per esclusive ragioni politiche. Il tentativo di difendere quello che era un operato indifendibile è stato sempre giustificato con la fantasiosa ricerca di cavilli di improponibili decreti. Gli si spiega – qui sta il difficile - che il codice di salvezza in mare prevede che quale che sia lo status della persona in mare essa va comunque salvata, aiutata e poi semmai, ove ricorrano le fattispecie indicate dalla legge, può essere trattenuta, identificata e persino sottoposta a provvedimenti giudiziari fino alla sua espulsione. Ma in nessun caso e per nessun motivo lo Stato può decidere di non intervenire per salvare persone in pericolo, perché l’omissione di soccorso – a terra come in mare – è reato e, nel caso specifico, non era motivata da inagibilità o impedimenti di forza maggiore ma da una precisa quanto spudoratamente cinica volontà politica. L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso obbligo degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare.

L’inchiesta di Fanpage sul fascismo che alberga in Fratelli d’Italia continua a produrre polemiche. L’inchiesta è una chicca giornalistica che dovrebbe fare scuola invece di scatenare critiche. Contestare le modalità di una inchiesta, quando questa non coinvolge minori, persone innocenti o luoghi estranei, quando i contenuti che emergono non vengono “aggiustati” politicamente ma espressi così come sono stati captati, esponendo fatti e parole senza omissioni, appare strumentale prima che infondato.

Venerdì scorso 24 maggio a Budapest la bella stagione era arrivata, ma il piacevole tepore che spinge la gente si tavolini di bar e ristoranti affollati, era turbato da lievi pioggerelline primaverili. Anche nell’aula 2 del Tribunale di Budapest faceva discretamente caldo. Per la prima volta Ilaria Salis ha potuto assistere al giudizio senza le consuete catene e l’arcigna guardia a vista delle teste di cuoio ungheresi. A oltre quindici mesi dal suo arresto, il processo è finalmente entrato nel vivo con l’escussione dei testimoni e la visione delle riprese delle telecamere relative all’aggressione.


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