di Mario Braconi

Standards & Poors taglia il rating del debito sovrano italiano: una mossa che suscita qualche curiosità, in quanto segue un iter non coerente con il protocollo ordinario. Infatti, se da un lato S&P’s già a maggio aveva messo il debito italiano in outlook negativo, non aveva sottoposto l’Italia a review, ovvero a quel processo di analisi a valle del quale di solito si può verificare un declassamento. Una mossa che tradisce una fretta alquanto sospetta e mette sotto pressione il concorrente Moody’s, che solo venerdì aveva annunciato ai mercati di voler prolungare la sua review per possibile downgrade, iniziata a giugno, fino a metà di ottobre.

Infatti, dopo il downgrade da A+ ad A, tra le valutazioni delle due agenzie di rating si registrano ben tre “tacche” (notch) di differenza: Moody’s continua ad valutare il rischio di credito del debito sovrano italiano molto più favorevolmente di quanto faccia S&P. Non è escluso, a questo punto, che l’esito della review di Moody’s comporti un taglio di due anziché di un notch. Per inciso, la discrepanza di valutazioni tra S&P e Moody’s la dice lunga su quanto scientifici ed incontrovertibili i verdetti dei soloni che dettano legge ai mercati finanziari.

S&P spiega che la decisione di declassare il debito sovrano italiano è il frutto dei bassi voti dello studente Italia nelle materie “politica” e“debito”; la debolezza della coalizione di governo, infatti, costituisce un limite alla capacità del paese di dare risposte soddisfacenti in un contesto interno ed internazionale molto preoccupante. E fin qui, non serviva un’agenzia di rating: bastava chiudere a qualsiasi nonnetto al bar dello sport.

Ma i problemi non finiscono qui: il problema chiave dell’Italia è l’assenza di crescita economica. Un problema pre-esistente alla crisi e nel quale il paese si dibatte da molto, troppo tempo, anche a causa del pervicace rifiuto della sua classe politica (ma aggiungeremmo anche dei suoi stessi cittadini) a modernizzarsi compiutamente. Ma aggravato, sostiene S&P, dalla debolezza della domanda esterna, e dall’aumento dei costi finanziari per il settore pubblico come per quello privato.

Insomma, gli obiettivi del governo sul piano fiscale (che come noto ha scommesso sulle misure più inique e inefficaci come l’aumento generalizzato dell’IVA e la minima tassazione di un pugno di ricconi onesti) appaiono davvero difficili, per non dire impossibili da raggiungere. Cosa che, per inciso, forse sapeva anche il nonnetto di cui sopra già qualche settimana fa.

In sostanza, la bocciatura di S&P va letta come l’ennesima bocciatura sonora alla classe politica italiana, valutata per quello che è: corrotta, incompetente, reazionaria. Il che, in un contesto anche solo vagamente più dignitoso, spingerebbe i diretti interessati a prenderne atto con l’atto concreto di sparire per sempre dalla vista di un popolo che in massima parte li disprezza e li odia con validissime ragioni.

Tuttavia, non sfugga la sostanziale follia di un sistema che, nel diagnosticare la malattia, fa in modo che essa si aggravi fino ad ammazzare il paziente. Che l’Italia fosse debole politicamente, e che fosse strutturalmente incapace di mantenere le poche promesse pelose che riesce a fare, si sa da sempre. Ma certificarlo nel momento in cui è sull’orlo del collasso non farà che spingere ancora più in alto i costi finanziari per il settore pubblico, cosa che ovviamente ha degli effetti negativi sul debito futuro, e quindi sulla tenuta di una manovra che è già fallimentare di suo. E’ insomma sospetto il timing della mossa di S&P, che obiettivamente dà una mano alla nutrita pattuglia di speculatori che hanno deciso di distruggere l’euro.

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