L’ultimo rapporto sulle disuguaglianze globali presentato da Oxfam non presenta dati particolarmente significativi rispetto a quelli degli ultimi anni. L’oscena concentrazione della ricchezza nelle mani dell’uno per cento della popolazione, che possiede il 45% della ricchezza globale, determina per conseguenza la caduta di livello per il resto del 99 per cento degli abitanti del pianeta. Ci sono 795 milioni di persone che soffrono la fame, altri 817 milioni che non riescono a fare tre pasti al giorno e 750 milioni di persone che non hanno accesso all’acqua potabile.

 

 

Non è una congiura di cattivi e nemmeno la risultante di inefficienze, bensì il cuore pulsante di un modello che fa dell’esclusione sociale delle maggioranze la fonte di ricchezza della minoranza. Si chiama globalizzazione capitalistica, anche se nessuno si azzarda a definirla tale, perché il secondo termine viene omesso per disciplina editoriale dai giornalisti dei media ufficiali.

 

Il risultato più significativo sotto l’aspetto socioeconomico è che, con l’affermazione definitiva della dottrina economica neoliberista, la concentrazione della ricchezza in poche mani si è assolutizzata, mentre il potere d’acquisto delle classi popolari e di quelle medie si è drammaticamente ridotto.

 

La novità sostanziale di questi ultimi 30 anni, infatti, è che un salario minimo o medio, per decente che sia, non è in grado di garantire il mantenimento di un nucleo familiare, spesso nemmeno di una persona sola. Non si tratta quindi di incremento della produzione, di flessibilità negli orari e nella disciplina contrattuale, come insistono da un decennio i discepoli dei Chicago-boys variamente piazzati nei diversi partiti: la contrazione dei salari e le politiche turboliberiste hanno generato una depressione economica che si riflette nella sostanziale insufficienza del lavoro ai fini della riproduzione sociale degli individui.

 

Il senso profondo del modello lo si può trovare, ad esempio, nelle grandi città dell’Occidente. Qui quasi sempre il canone abitativo di una casa eguaglia o addirittura supera il salario minimo e i costi per l’accesso ai principali servizi nell’area della salute, dell’istruzione e dei trasporti, sono inarrivabili per chi dispone di un salario medio. La scomparsa di un salario in grado di procurare sostentamento e la crisi della classe media, traino principale dei consumi nelle società di massa, causa lo scivolamento verso la povertà relativa e assoluta di centinaia di milioni di famiglie. In termini di reddito, la classe media è il nuovo proletariato e il proletariato è diventato sottoproletariato. Uno scivolamento verso il basso che è conseguenza della concentrazione verso l’alto dei profitti.

 

L’assenza o, a volte, l’inutilità del lavoro, hanno determinato la fine dell’ascensore sociale e il venir meno di ogni aspettativa di miglioramento delle condizioni economiche ha prodotto depressione di massa ed esasperazione dell’individualismo.  A disegnare un modello darwiniano ci sono l’aumento degli indici delittivi, l'innalzamento dei livelli di violenza urbana, l’incremento dei suicidi, l’ampliamento delle infermità mentali: il tessuto sociale delle nazioni occidentali è stato irrimediabilmente lacerato.

 

Dal punto di vista della civiltà il modello è al fallimento, ma non c'è nessuna riflessione in corso sulle prospettive di governabilità globale che diverranno sempre più difficili. Ad esempio su come l'automazione si disponga a sostituire completamente una parte importante dei processi produttivi e su quali debbano essere le leve a presidio del lavoro.

 

Piuttosto si utilizza il profilo disgregante dato dall'immissione massiccia della tecnologia nei processi produttivi per favorire una ulteriore contrazione del costo del lavoro. Si costruisce accumulazione con prezzi lanciati verso l'alto e salari verso il basso, operando con investimenti da terzo mondo e realizzando profitti da primo mondo.

 

La crisi dei partiti di massa, che servirebbero alla costruzione di idee-forza e comunità, è segnata dalla loro incapacità di progettare ideologicamente modelli sociali ed economici alternativi. Il che non deve stupire, dal momento che la commistione diffusa tra interessi di grandi lobbies finanziarie e personalità politiche garantisce una sorta di privatizzazione della politica, ormai ridotta a strumento di sostegno di un modello indifendibile, a barriera invalicabile contro ogni ipotesi di ribaltamento del piano.

 

La globalizzazione dei mercati, ci dicevano, avrebbe permesso l’accesso ai beni di popolazioni in precedenza private di questa possibilità, ma i risultati hanno certificato l’opposto. Si è enormemente ampliato il numero delle persone che vivono in povertà relativa, non v’è dubbio. E per caso, a fronte di questo, si è ridotto il numero delle persone che vivono in povertà assoluta? No davvero, anche se il Sud del mondo, negli ultimi 20 anni, ha raddoppiato l’ingresso procapite, passando da un ingresso giornaliero di un dollaro a un dollaro e novanta.

 

E’ un dato che l’ipocrisia mercatista spaccia come risultato positivo della globalizzazione dei mercati, omettendo però di dire che si tratta di uno squilibrio ulteriore e non di una malintesa perequazione. Passare da uno a due dollari al giorno, infatti, non muta la condizione miserabile di una esistenza.

 

Si può affermare, senza tema di smentita, che la globalizzazione dei mercati, riflesso territoriale della finanziarizzazione dell’economia, sia un autentico disastro per le condizioni del genere umano, non più destinatario ultimo della crescita dell’economia ma strumento involontario per la sua concentrazione verso uno spicchio sempre minore e sempre più ricco di popolazione.

 

Trenta anni dopo la fine del bipolarismo, con la vittoria schiacciante del capitalismo come modello unico, il pianeta è in presenza di contraddizioni maggiori e più feroci. Alla caduta del muro di Berlino i paesi coinvolti in conflitti armati erano 11 ed oggi sono 47. E ci troviamo con un tasso di disuguaglianza più alto, con i 4 quinti del pianeta che non hanno accesso alle principali leve economiche. Mai, in nessun'altra epoca storica, lo schiavismo è stato così diffuso. Siamo di fronte ad un modello di feudalesimo atomico che ha ridotto il lavoro a schiavitù e che si nutre della guerra ai poveri, non alla povertà.

 

Quello che dal rapporto Oxfam emerge è che l’espansione incontrastata dell’ideologia liberista, che ha elevato il capitalismo finanziario a religione unica, nel suo massimo sviluppo produce il più alto livello di disgregazione socioeconomica, configurando così, nel massimo grado di profitto per una minoranza, quello più basso di civiltà per miliardi di persone. Perchè il sottosviluppo non è l'infanzia dello sviluppo ma la sua conseguenza.

 

E' prevedibile che quando la sbornia ideologica delle virtù del capitalismo escludente sarà superata, il fallimento di un modello così devastante porti con sè una risposta drammatica alla crisi sociale internazionale. Questo livello di iniquità globale presto o tardi incontrerà una risposta e, purtroppo, la storia insegna che il capitalismo alle sue crisi offre sempre una uscita drastica. E quasi mai pacifica.

 

 

 

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