Dopo le bordate contro il piano Colao, al centro del mirino si piazza un nuovo bersaglio. Lo chiamano già “piano Gualtieri”, ma il nome ufficiale è “piano di Rilancio”: un documento che l’Italia invierà a Bruxelles entro settembre per spiegare come progetta d’investire il mare di liquidità in arrivo dall’Europa nei prossimi anni.

L’agenzia Ansa ha pubblicato una bozza del Programma nazionale di riforma (che andrà inserito nel Def, anch’esso da consegnare entro settembre), da cui emerge che il Piano di Rilancio sarà basato su tre pilastri: “Modernizzazione del Paese, transizione ecologica e inclusione sociale e territoriale e parità di genere”. Per il momento, siamo ai livelli di vaghezza del piano Colao.

Le uniche indicazioni più puntuali che il governo ha lasciato trapelare riguardano gli interventi sul fisco, il tema più sensibile dal punto di vista elettorale (dopo tutto, in autunno ci sono le amministrative).

“L'alleggerimento della pressione fiscale – si legge – è una delle componenti più importanti del programma di Governo” e dopo il taglio del cuneo partito da luglio, il governo sta lavorando a “una riforma complessiva della tassazione diretta e indiretta” per “disegnare un fisco equo, semplice e trasparente per i cittadini, che riduca in particolare la pressione fiscale sui ceti medi e le famiglie con figli e acceleri la transizione del sistema economico verso una maggiore sostenibilità ambientale e sociale”.

Il tono non è da rapporto tecnico, ma da proclama elettorale. Di questa ristrutturazione complessiva del fisco italiano non si sa ancora nulla, ma il governo si spinge addirittura oltre: “Saranno anche razionalizzate le spese fiscali, e, in particolare, saranno rivisti i sussidi ambientalmente dannosi”.

Ora, la revisione delle cosiddette tax expenditures è per antonomasia la riforma più annunciata negli ultimi decenni. Tutti i governi ne hanno parlato, nessuno ci è mai riuscito. Il motivo è che le agevolazioni fiscali italiane sono una foresta pluviale impossibile da sfoltire: recidere anche il più piccolo dei rametti vuol dire tirarsi addosso le critiche delle categorie economiche coinvolte, esponendosi ai colpi bassi dell’opposizione. È il trucco dei bonus: introdurli è facile, cancellarli è un’impresa.

Per riuscire in un’operazione del genere su larga scala, occorre inserire i tagli alle agevolazioni in una riforma fiscale davvero ampia, che consenta alle famiglie di recuperare dalla finestra quello che esce dalla porta. Non è un caso se finora non ci è riuscito nessuno: non è semplice. Il governo potrebbe spiegarci in cosa il suo tentativo si distinguerà dai precedenti, ma per il momento si limita a recitare la solita poesia: “L’obiettivo primario”, si legge ancora nel poco fantasioso Pnr, è la lotta all’evasione, da realizzare con “il miglioramento della riscossione” e con una spinta “alla compliance volontaria” (tradotto, le procedure che permettono ai contribuenti di mettersi in regola da soli a fronte di sconti sulle sanzioni). Non sono previsti invece condoni fiscali, anche perché usare i soldi di Bruxelles per una sanatoria pro-evasori significherebbe dare ragione a chi in Europa si batte per farci avere meno aiuti.

In effetti, ancora non sappiamo quanti soldi avremo a disposizione: con il Recovery Fund da 750 miliardi targato von der Leyen, al nostro Paese spetterebbero 172 miliardi, ma è probabile che alla fine questa somma si ridurrà di qualche decina di miliardi per arrivare a un accordo con i “Frugal four” (Olanda, Danimarca, Austria e Svezia), che si oppongono a un eccesso di liberalità nei confronti delle cicale meridionali.

D’altro canto, non c’è da considerare solo il “quanto”, ma anche il “come”: i soldi che arriveranno saranno per lo più a fondo perduto (come vorrebbero Francia e Germania) oppure si tratterà di prestiti, ancorché agevolati (come pretendono i Frugali)? Non è un dettaglio di poco rilievo, visto che bisogna pianificare ora l’azione governativa dei prossimi anni.

Purtroppo, l’Italia non ha mai brillato per capacità di programmazione, nemmeno quando la barca galleggiava e le risorse da gestire erano note da tempo. Ora stiamo colando a picco e non sappiamo né quanti soldi arriveranno né con precisione quando. L’unica certezza è che non incasseremo niente di sostanzioso prima del 2021, mentre il periodo peggiore della crisi economica arriverà in autunno. L’innesco della bomba è la cassa integrazione: se il governo non troverà i soldi per prolungarla, a fine settembre la misura scadrà, facendo saltare migliaia di aziende e provocando un’impennata della disoccupazione. E questo nello scenario virologico migliore, quello in cui il Covid-19 ci risparmia da una seconda ondata di contagi e quindi dall’esigenza di un nuovo lockdown.

I margini d’incertezza, insomma, sono enormi e si articolano su più fronti. L’unica speranza è che entro l’estate il governo si produca nella migliore programmazione economica vista in Italia negli ultimi vent’anni. Date le premesse, si richiede un atto di fede notevole.     

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