Il G20 ha dato il via libera alla “global minimum tax”, una nuova tassa mondiale che punta a cancellare dal pianeta i paradisi fiscali. La struttura è ancora da definire nei dettagli e sarà probabilmente affinata in sede Ocse già dai prossimi giorni. Lo schema di fondo è però chiaro: dal 2023, un’aliquota minima mondiale del 15% sarà applicata ai profitti delle multinazionali che fatturano almeno 750 milioni di euro l’anno. Il meccanismo prevede due livelli.

In primo luogo, ai grandi gruppi non converrà più stabilire la sede in un paradiso fiscale, perché quello che non pagheranno in Paesi dalla tassazione agevolata saranno costretti a versarlo in patria. Esempio: se Google continuerà a pagare il 12,5% in Irlanda, dovrà versare un altro 2,5% al fisco degli Stati Uniti, fino a raggiungere la soglia minima del 15%.

 

Il secondo passaggio è più problematico. In sostanza, le multinazionali non potranno più spostare fatturato e profitti nei Paesi dove hanno la sede fiscale (pratica che peraltro, come abbiamo visto, non garantirà più alcun vantaggio), ma dovranno pagare le tasse nei Paesi dove effettivamente vendono beni e servizi. 

Ora, i problemi legati alla “global minimum tax” sono parecchi e il più evidente riguarda l’aliquota, davvero molto bassa. Chi non vorrebbe pagare il 15% di tasse su quello che guadagna? I sostenitori più entusiasti della nuova misura controbattono che si tratta comunque di aumento pesante, visto che al momento diverse multinazionali pagano tasse vicine allo zero. L’argomentazione è vera nella sostanza ma bizzarra nella logica: siccome oggi non pagano nulla, allora un’aliquota ridicola deve essere considerata sufficiente? Per dissentire da questa logica non serve essere trozkisti: tra chi vorrebbe un rafforzamento dell’aliquota figurano Usa, Francia e Germania.

Il secondo problema è legato alla vigilanza. Anche ammesso che tutti i paradisi fiscali del mondo accettino di sottomettersi alla “global minimum tax”, chi li controllerà? Alcuni Paesi potrebbero stabilire una tassazione di facciata per poi concedere sconti fiscali occulti alle multinazionali. Sarebbe rischioso, ma potenzialmente molto remunerativo: se i paradisi fiscali diminuiranno, quelli che riusciranno a sopravvivere potranno contare su una rendita di posizione ancora più fruttuosa che in passato.

Per evitare che ciò accada servirebbe un organismo sovranazionale con il potere di controllare tutti i sistemi fiscali (e ovviamente di sanzionare i trasgressori). Non è chiaro a chi si dovrebbe attribuire un’autorità del genere e il timore è che Washington possa trasformarsi in una specie di poliziotto globale del fisco. Del resto, sono proprio gli Stati Uniti a guadagnare di più dalla “global minimum tax”, visto che la maggior parte delle multinazionali colpite ha sede negli Usa.

Si può obiettare che i paradisi fiscali avranno comunque le ore contate, perché il capitolo più importante del nuovo accordo è quello che riguarda l’eliminazione della territorialità dell’imposta. Tradotto, significa che alle multinazionali sarà proibito fare il gioco delle tre carte con ricavi e utili: anche se manterranno la sede in un atollo dell’Oceano Indiano, non potranno più concentrare lì tutta la base imponibile, perché dovranno pagare le tasse nei Paesi in cui fatturato e profitti sono stati generati. Di per sé, il principio è sacrosanto, ma la sua applicazione sarà complessa, anche perché i bilanci di parecchie multinazionali – a cominciare da quelle del web – sono opachi da sempre.

In sostanza, per far funzionare la “global minimum tax” servirebbe un livello di coesione inedito nella comunità internazionale, oltre a una serie di strumenti coercitivi contro chi cercherà scappatoie. Non sarà facile, anche perché gli avversari più difficili da sconfiggere non sono le Seychelles o le Cayman, ma paradisi fiscali interni all’Unione europea come Irlanda, Estonia e Ungheria. E nell’Unione, le direttive e i regolamenti sulle tasse vanno approvati all’unanimità.

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