di Giovanni Gnazzi

Siamo membri del G8, fondatori della Ue, celebratori del Pil a tempo indeterminato, tifosi entusiasti del “made in Italy”. Esportiamo “peace keeping” e democrazia, ma non siamo una nazione: siamo un caravanserraglio. Succede così che a danzare nel piatto del nostro scombinato paese si divertono in molti, è cosa nota. Perché solo una “Repubblica di Franceschiello” può permettersi il lusso e la vergogna di cedere a stranieri una azienda strategica come quella delle telecomunicazioni. Le telecomunicazioni, come l’energia e i trasporti, sono alcune delle imprese su cui poggia il sistema-paese, strategiche dunque. Ma stavolta, a ricordarci il nanismo politico di cui patiamo, tocca a statunitensi e messicani, che hanno presentato una offerta per rilevare i due terzi di Olimpia, la finanziaria di Tronchetti Provera che detiene il controllo di Telecom Italia. La “AT&T” statunitense e la “America Movil” sono pronti a sborsare 2,82 Euro ad azione per prendersi Olimpia, con ciò indicando una speculazione colossale alle viste, dato che l’offerta è decisamente al di sopra del valore reale sul mercato azionario. L’”AT&T” è la multinazionale della telefonia che contribuì, in partnership con altre, a finanziare il colpo di Stato del boia Pinochet in Cile; in qualche modo allenata, dunque, a prendersi i paesi e trasformarli in voci di bilancio. Seconda solo a “Vodafone” per capitalizzazione di borsa, è la prima compagnia telefonica degli Stati Uniti. Ma la "America Movil", del messicano Carlos Slim Helù, che la rivista Forbes indica come il terzo uomo più ricco del mondo (patrimonio stimato in 49 miliardi di dollari), divenuto ricchissimo all'ombra di Salinas de Gortari, oltre ad avere il controllo della telefonia fissa messicana tramite la Telmex, ha le mani in pasta anche nella grande distribuzione e nei media e decide chi fa il Presidente del Messico, come fece con Fox prima e Calderon ora.

Dopo la privatizzazione del 1999, quella dei “capitani coraggiosi”, per intenderci, cui ha fatto seguito l’ingresso di Tronchetti Provera nel 2001, adesso è il turno dell’uscita di scena definitiva. E mentre il titolo del gruppo, eccitando gli investitori, balza in alto nelle contrattazioni, fornendo così ulteriore ossigeno e climax finanziario atto all’operazione, è gara nazionale ad esprimere sconcerto e sdegno per l’annuncio del misfatto.

Gli esegeti delle privatizzazioni, i cantori del libero mercato e delle sue taumaturgiche virtù, le sirene ululanti dell’uscita dello Stato da ogni attività economica, siano essi panettoni o comunicazioni, frigoriferi o energia, dovrebbero finalmente godere. Ma tacciono o, anzi, chiedono “spiegazioni”, si dichiarano “sconvolti” e chiamano il governo all’intervento immediato. Solo Capezzone, il radicale con l’elmetto delle banche, cui solo l’ambizione supera l’antipatia, ha il coraggio di continuare a dire quel che ha sempre detto: e cioè che il mercato non deve subire le interferenze della politica, che lo straniero che arriva è un fatto positivo, che magari ci si abbassa la quota di decenza ma ci si alza il rating.

I nostri imprenditori preferiscono investire all’estero, inseguendo il costo del lavoro al suo livello più basso. Il ruolo sociale dell’impresa non sanno nemmeno cosa sia; dalla fiscalità generale succhiano finanziamenti a pioggia mentre evadono le imposte e, per giunta, offrono lezioni dalle sale di Confindustria. Le banche sono diventate il vero padrone della nostra economia, che vede capitali volatili e persone a terra. Che sembra abbia bisogno di leggi Biagi e di concertazioni tra sanguisughe e vittime, di assenza di norme a santificare una sola legge: quella dell’impunità. Abbonda una classe imprenditoriale che rinuncia ad investire in tecnologia e reti, dedicata com’è al caporalato diffuso, modello delle nuove relazioni industriali.

Vedremo cosa deciderà di fare il Governo Prodi. Se sceglierà di fornire una risposta politica alta, per evitare che anche questo smacco ci sia risparmiato e si possa stabilire che un Paese non può essere umiliato dai furbetti. O se, invece, lascerà “all’invisibile mano del mercato” il compito di ridisegnare la cartina del paese, i suoi poteri e i suoi confini. Almeno per evitare una nuova mappatura che veda Roma solo quale ultimo luogo romantico della periferia dell’impero.





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