Una presa di posizione insolita, illegittima e politicamente sfacciata da parte di un gruppo di paesi vassalli dell’impero. In buona sostanza è questo il modo più rapido per definire il pronunciamento dell’autodenominatosi “Gruppo di Lima” nei confronti del Venezuela bolivariano. Il Gruppo di Lima, per la sua stessa genesi, composizione e identità ideologica, può ben essere definito come la quinta colonna degli Stati Uniti nel subcontinente latinoamericano.

 

E’ nato con il preciso obiettivo di aggregare il blocco filo-statunitense latinoamericano per contrastare l’ALBA, ovvero l’Associazione Bolivariana delle Americhe nata agli inizi del secolo su iniziativa proprio del Comandante Hugo Chavez. In pratica, il Gruppo di Lima è oggi il consorzio dell’ultradestra governante nel centro-sud America che si caratterizza per l’obbedienza assoluta verso gli USA, dei quali condivide il progetto imperiale di riconquista dell’America Latina.

La chiusura parziale di uffici e agenzie governative negli Stati Uniti (“shutdown”) si avvia a completare la seconda settimana senza che all’orizzonte si intraveda ancora un possibile accordo tra Congresso e Casa Bianca sul bilancio federale e le politiche di lotta all’immigrazione.

 

Un vertice tra il presidente Trump e i leader democratici e repubblicani di Camera e Senato nella giornata di mercoledì non ha dato alcun risultato, mentre un nuovo incontro è previsto per venerdì, quando potrebbe risultare forse più chiara l’eventuale disponibilità dei due partiti a un compromesso in grado di superare l’ennesima impasse che sta interessando il mondo politico di Washington.

Con un discorso relativamente informale tenuto il primo giorno dell’anno, il leader nordcoreano Kim Jong-un ha riportato la trattativa sulla possibile denuclearizzazione del suo paese al centro del dibattito internazionale e, in particolare, di quello americano. Quasi tutti i giornali e i commentatori della stampa ufficiale hanno interpretato l’intervento come una minaccia sul negoziato in atto, da condurre cioè secondo le regole stabilite dal regime per non fare svanire nel nulla gli sforzi di questi mesi e innescare una nuova corsa agli armamenti nella penisola di Corea.

Che dietro alla decisione del generale Jim Mattis di abbandonare Il Pentagono ci sia stata la scelta, apparentemente improvvisa, del Presidente di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria e di dimezzare entro l'estate il contingente di stanza in Afghanistan, appare innegabile. L'accelerazione dell'accaduto, però, non porta con sé solo nuovi dubbi ma anche scenari inattesi. E potenzialmente foschi.

La decisione, annunciata mercoledì dal presidente Trump, di ritirare i duemila soldati americani stanziati illegalmente in Siria ha scatenato all’istante una valanga di critiche e durissime condanne sia sul fronte domestico sia tra i governi alleati degli Stati Uniti. Il panico innescato a Washington da una notizia arrivata apparentemente a sorpresa preannuncia perciò un ulteriore inasprimento dello scontro interno alla classe dirigente americana.


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