“La guerra in Ucraina? Potrei chiuderla in pochi giorni”. Così aveva assicurato in campagna elettorale, Donald Trump e non vi è dubbio che, per la concretezza fattuale dell’impegno, quello della guerra tra NATO (per tramite dell’Ucraina) e Russia è il primo banco di prova del neo ed ex presidente. Secondo il Wall Street Journal sono al lavoro i suoi consiglieri per consentirgli di mantenere la prima promessa elettorale entro l’insediamento alla Casa Bianca, il prossimo 25 gennaio. Come e se ci riuscirà, restano punti interrogativi, dal momento che per convincere Putin ci sarà bisogno di qualcos’altro che di vanterie.

Un possibile "piano", tratteggiato da Keith Kellogg e Fred Fleitz, collaboratori di Trump durante il primo mandato alla Casa Bianca, ipotizza la sospensione dell'invio di armi a Kiev finché Zelensky non avvierà un negoziato serio. Sulla stessa linea il filosofo e politologo Francis Fukuyama, autore del gigantesco abbaglio sulla fine della storia dopo il 1991 ma considerato tutt’ora voce autorevole dei conservatori: dalle colonne del Financial Times scrive che la guerra contro la Russia era già indebolita prima del voto e che Trump può obbligare Zelensky ad accettare le condizioni russe fermando la fornitura di armi come fecero i repubblicani al Congresso durante sette mesi nello scorso inverno".

L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, secondo caso di ritorno alla Casa Bianca nella storia dei 47 presidenti fin qui eletti, oltre a rappresentare un indubbio evento politico, più o meno atteso, per il volume della vittoria porta con sé un mutamento profondo del sistema politico statunitense. Perché non solo Trump vince nell’elezione dei grandi elettori come pure nel voto popolare ma, cosa di assoluta importanza, ha  una forte maggioranza al Senato che potrà presumibilmente sommare ad una maggioranza anche al Congresso.

La vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane di martedì e, ancora di più, il logoramento prodotto dal disastroso progetto ucraino sembrano avere dato il colpo di grazia all’impopolare governo “semaforo” tedesco del cancelliere Olaf Scholz. La crisi a Berlino non è ancora ufficiale, ma l’esplosione pubblica dello scontro politico tra i tre leader della coalizione rende estremamente improbabile la sopravvivenza dell’esecutivo nei prossimi mesi.

La questione del bilancio per il 2025 aveva da tempo creato tensioni nella maggioranza, con i Liberal Democratici (FDP) del ministro delle Finanze, Christian Lindner, su posizioni sempre più lontane rispetto a Social Democratici (SPD) e Verdi. Oltre a proporre un punto di vista diverso dagli alleati circa le modalità per chiudere il buco di bilancio da almeno 2,4 miliardi di euro e cercare di rianimare un’economia in piena crisi, l’FDP ha puntato i piedi probabilmente per innescare in maniera deliberata uno scontro interno alla coalizione e prendere le distanze da un governo che, in picchiata nei sondaggi, ha trascinato lo stesso partito al di sotto del 5% delle preferenze, ovvero la soglia necessaria a ottenere seggi nel parlamento federale.

Se alla viglia delle elezioni negli Stati Uniti cerano forti timori per possibili tensioni o addirittura violenze causate dalla lentezza dello spoglio e dall'equilibrio tra i due principali candidati alla Casa Bianca negli stati in bilico ("swing states"), con i risultati ancora non del tutto definitivi nella prima mattinata di mercoledì in Italia è arrivata invece la sostanziale conferma della seconda vittoria di Donald Trump. L'esito del voto, come quasi sempre è accaduto negli ultimi decenni, non è tanto dovuto alla popolarità del candidato vincente, quanto al disastro praticamente su tutti i fronti provocato dallamministrazione uscente, in cui la candidata Kamala Harris ha svolto un ruolo di primissimo piano, quanto meno dal punto di vista formale.

Sul piano concreto, Trump ha sbaragliato la sua rivale vincendo in tutti i già ricordati "swing states", ad eccezione della Virginia, stato da tempo a tendenza democratica per via dell'afflusso di residenti con impieghi governativi nei popolosi distretti settentrionali. Decisive sono state le affermazioni di Trump in due stati dove nel 2020 Biden aveva prevalso: la Georgia e, soprattutto, la Pennsylvania, di gran lunga lo stato più combattuto dalle campagne dei due candidati negli ultimi mesi.

Negli ultimi giorni, la Turchia ha nuovamente attirato l’attenzione della comunità internazionale con la rimozione di tre sindaci di città a maggioranza curda, eletti nella regione sudorientale del paese. L’azione del governo, che ha sostituito i leader di Mardin, Batman e Halfeti con fiduciari governativi, segna un’ulteriore offensiva contro i rappresentanti curdi e il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), partito politico pro-curdo. Dietro la giustificazione ufficiale di "terrorismo" addotta dal Ministero dell’Interno si celano, però, strategie politiche che vanno ben oltre il semplice mantenimento della sicurezza interna, in un contesto di grande tensione regionale e di pericolose manovre elettorali.

L’azione contro i sindaci curdi arriva in un periodo in cui Ankara sembrava intenzionata a riaprire il dialogo con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e il suo leader incarcerato, Abdullah Ocalan, per cercare una soluzione politica a un conflitto che va avanti dal 1984.


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