di Michele Paris

Da un interrogatorio connesso a un procedimento legale in corso negli Stati Uniti a carico del regime dell’Arabia Saudita sono giunte gravissime accuse nei confronti della casa regnante di questo paese del Golfo Persico e, indirettamente, del governo americano suo alleato. La testimonianza in questione è quella di Zacarias Moussaoui, ex corriere di al-Qaeda molto vicino a Osama bin Laden, sentito in carcere lo scorso mese di ottobre dai legali dei famigliari delle vittime dell’11 settembre nell’ambito di una causa che intende chiarire le responsabilità saudite negli attentati del 2001.

Moussaoui ha lanciato accuse che pesano come macigni e, inevitabilmente, è stato subito denunciato dalla monarchia saudita come un “criminale disturbato” e un “malato mentale”. Una diagnosi relativa al suo presunto disagio mentale era stata in effetti presentata da uno psicologo nel corso del processo a suo carico nel 2006, conclusosi con una condanna all’ergastolo, anche se gli avvocati che hanno raccolto la recente deposizione in un carcere di massima sicurezza del Colorado hanno definito l’uomo “completamente sano di mente”.

In passato, alcune sue testimonianze erano state inoltre controverse e successivamente smentite, ma il giudice che presiedette il procedimento penale, Leonie Brinkema, aveva definito Moussaoui “del tutto capace di intendere” e “estremamente intelligente”. Il giudice aveva anche affermato, in maniera non troppo scherzosa, che l’imputato aveva “una migliore comprensione del sistema legale di quanto non l’avessero alcuni avvocati” di sua conoscenza.

Soprattutto, le accuse rivolte a Riyadh di finanziare direttamente e indirettamente il fondamentalismo sunnita coincidono con numerose indagini e rivelazioni che, nel recente passato, hanno messo in luce quanto meno l’ambiguità del regno nei confronti del terrorismo internazionale.

Moussaoui, in sostanza, ha raccontato di come i più generosi finanziatori di al-Qaeda fino alla fine degli anni Novanta fossero stati alcuni membri di spicco della casa regnante saudita, tra cui l’attuale sovrano, Salman, salito al trono solo pochi giorni fa in seguito al decesso del fratellastro, Abdullah.

In qualità di responsabile per al-Qaeda, tra il 1998 e il 1999, della creazione di un archivio digitale contenente i nomi dei finanziatori dell’organizzazione terroristica, Moussaoui ha ricordato una serie di incontri con i leader sauditi. Tra i più autorevoli membri della famiglia reale finiti nel database figurano l’allora capo dell’intelligence, principe Turki al-Faisal, l’ex potente ambasciatore di Riyadh a Washington, Bandar bin Sultan, e l’imprenditore miliardario Al-Waleed bin Talal.

Come risulta evidente dalla sua testimonianza, Moussaoui agiva da intermediario tra Osama bin Laden e gli ambienti di corte e del clero in Arabia Saudita. Addirittura, lo stesso testimone avrebbe discusso a Kandahar, in Afghanistan, con un diplomatico dell’ambasciata saudita negli Stati Uniti un piano per abbattere l’aereo presidenziale (Air Force One) con un missile Stinger.

Moussaoui sarebbe stato poi arrestato dagli agenti dell’immigrazione americana prima di potere effettuare il sopralluogo che avrebbe dovuto precedere il clamoroso attentato. Nel 2006, come già ricordato, Moussaoui venne infine condannato all’ergastolo per la sua partecipazione ai preparativi dell’11 settembre, nonostante il giorno degli attacchi fosse detenuto in un carcere del Minnesota.

Il procedimento in atto negli Stati Uniti contro l’Arabia Saudita era scaturito da una denuncia intentata già nel 2002 dai parenti delle vittime degli attentati al World Trade Center e al Pentagono. Nel 2005 la causa era stata annullata in primo grado e successivamente anche in appello con la motivazione che l’Arabia Saudita godeva di “immunità sovrana”.

In seguito, la stessa corte d’Appello avrebbe però cambiato la propria decisione, riavviando il procedimento. I legali del regno si sono allora rivolti alla Corte Suprema, la quale si è rifiutata di esprimersi, consentendo al processo di continuare in un tribunale federale di New York.

La testimonianza di Zacarias Moussaoui è stata resa pubblica questa settimana, in quanto facente parte dei documenti presentati dall’accusa per impedire l’ennesima richiesta dell’Arabia Saudita di annullare il procedimento. Riyadh sostiene di non avere avuto alcun ruolo nel finanziamento di al-Qaeda e degli autori degli attentati del 2001, come avrebbe confermato anche il rapporto della commissione speciale sull’11 settembre.

In realtà, il rapporto pubblicato nel 2004 lascia parecchi dubbi in proposito. In esso si afferma che “non sembrano esserci prove del fatto che altri governi, oltre a quello dei Talebani [in Afghanistan], abbiano sostenuto finanziariamente al-Qaeda prima dell’11 settembre, nonostante all’interno di alcuni governi possano esserci stati simpatizzanti che hanno chuso un occhio di fronte alle attività di raccolta fondi” dell’organizzazione terroristica fondata da bin Laden.

“L’Arabia Saudita”, continua il rapporto, “è da tempo considerata la principale fonte di finanziamento di al-Qaeda”, tuttavia i membri della commissione sull’11 settembre “non hanno trovato prove che il governo saudita come istituzione o importanti esponenti sauditi su iniziativa individuale abbiano finanziato l’organizzazione” terroristica.

Questa difesa di Riyadh è comunque parzialmente smentita da un’altra conclusione contenuta nel rapporto, quando cioè la commissione sostiene di non potere escludere che “organizzazioni caritative sponsorizzate dal governo saudita abbiano dirottato fondi verso al-Qaeda”.

Ancora più sospetto è infine il fatto che 28 pagine del rapporto sui fatti dell’11 settembre continuano a rimanere classificati. Secondo alcuni, in questi documenti ci sarebbero appunto le prove delle responsabilità saudite, tra cui forse un rapporto della CIA nel quale si sostiene che alti esponenti della diplomazia e dell’intelligence di Riyadh hanno assistito logisticamente e finanziariamente gli attentatori. Quindici di questi ultimi, d’altra parte, erano di nazionalità saudita, come lo stesso bin Laden, originario di una ricca e influente famiglia del regno.

I finanziamenti provenienti dal regno saudita e diretti ad al-Qaeda sembrano essere passati proprio da organizzazioni con scopi apparentemente caritatevoli, messe in piedi dai vertici del regime del Golfo Persico. Una di queste è ad esempio l’Alta Commissione Saudita per l’Assistenza alla Bosnia-Herzegovina, fondata nel 1993 dall’attuale sovrano, Salman.

Questa organizzazione aveva raccolto ben 600 milioni di dollari da spendere nei Balcani e la sua opera andava con ogni probabilità oltre gli scopi umanitari. Quando, infatti, nel febbraio del 2002 i caschi blu dell’ONU fecero irruzione in un ufficio della stessa Commissione a Sarajevo trovarono, tra l’altro, immagini di installazioni militari americane e di luoghi colpiti da attentati di al-Qaeda, istruzioni su come creare falsi badge del Dipartimento di Stato USA e informazioni relative ad attacchi con armi biologiche.

Inoltre, quando nell’ottobre del 2001 gli Stati Uniti arrestarono sei cittadini algerini con l’accusa di avere progettato attacchi contro l’ambasciata USA di Sarajevo, si scoprì che uno di essi era un dipendente proprio dell’Alta Commissione Saudita per l’Assistenza alla Bosnia-Herzegovina e che aveva avuto contatti telefonici con bin Laden e altri leader di al-Qaeda.

I sospetti sui legami tra Riyadh e al-Qaeda sono innumerevoli, come quelli che riguarderebbero il figlio defunto di re Salman, Ahmed bin Salman. Quest’ultimo, secondo quanto affermato in un libro del giornalista americano Gerald Posner, sarebbe stato legato all’organizzazione jihadista, nonché a conoscenza dei preparativi per gli attacchi dell’11 settembre 2001.

Proprio il nuovo sovrano saudita sarebbe stato dunque l’uomo incaricato di supervisionare il trasferimento di fondi dai donatori del regno alle formazioni integraliste. In questa attività, d’altra parte, Salman vanta parecchia esperienza, visto che, come ha scritto recentemente l’ex agente della CIA, Bruce Riedel, sulla testata americana on-line The Daily Beast, si era occupato della “raccolta di fondi privati per sostenere i mujahedeen afgani negli anni Ottanta, lavorando a stretto contatto con l’establishment clericale wahabita del regno”.

Com’è noto, la nascita di al-Qaeda è legata direttamente alla lotta contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan dei mujahedeen, appoggiati militarmente e finanziariamente da Arabia Saudita, Stati Uniti e Pakistan. Durante il conflitto scatenato contro i sovietici in Afghanistan, Salman garantiva “25 milioni di dollari ogni mese ai mujahedeen”, mentre sarebbe stato successivamente impegnato anche nella raccolta di fondi per i musulmani di Bosnia in guerra contro la Serbia.

Grazie a questi benefattori, le forze jihadiste attive in Asia centrale hanno potuto crescere rapidamente, ampliando la propria agenda integralista per dedicarsi ad attività di terrorismo su scala internazionale. Anche se spesso i bersagli sono stati gli stessi interessi dei loro sponsor, soprattutto quelli americani, Riyadh, ma anche Washington, ha continuato a mantenere rapporti a dir poco ambigui con queste formazioni, considerandole più che utili alla promozione dei propri interessi.

Le conseguenze di questo gioco pericoloso si sono potute osservare non solo in occasione dell’11 settembre 2001 ma, più recentemente, nelle vicende di paesi come Libia o Siria, dove l’appoggio a gruppi estremisti nella lotta contro regimi sgraditi agli USA e ai loro alleati ha prodotto situazioni esplosive, esemplificate dal dilagare in Medio Oriente della minaccia dello Stato Islamico (ISIS).

di Michele Paris

Nel fine settimana, il candidato repubblicano sconfitto da Obama nelle presidenziali del 2012, Mitt Romney, ha dichiarato ufficialmente la sua intenzione di rinunciare alla ricerca della nomination per il suo partito nel 2016, dopo un breve periodo nel quale aveva accarezzato l’idea di lanciare per la terza volta una corsa alla Casa Bianca. La decisione dell’imprenditore multimiliardario dovrebbe contribuire a fare maggiore chiarezza sugli equilibri del partito di maggioranza al Congresso a meno di un anno dall’inizio delle primarie, constringendo soprattutto i grandi finanziatori a scegliere verso quale candidato dirottare i propri assegni milionari.

L’ex governatore del Massachusetts ha con ogni probabilità messo da parte definitivamente le sue aspirazioni dopo avere riscontrato una certa freddezza tra i donatori più corteggati del Partito Repubblicano, tra cui il magnate dei casinò, Sheldon Adelson, il proprietario della squadra di football dei New York Jets, Woody Johnson, e il manager di “hedge funds”, Paul Singer.

A suggellare il sostanziale rifiuto dell’establishment repubblicano era stato anche un recente editoriale del Wall Street Journal di proprietà di Rupert Murdoch, nel quale risultava più che evidente il desiderio di puntare su un cavallo diverso per il 2016.

Romney, d’altra parte, ha dovuto scontare anche l’inevitabile aura di perdente che grava sui candidati sconfitti nelle elezioni presidenziali americane, tradizionalmente ostacolati dai vertici del loro partito nella ricerca di una nuova nomination. Oltretutto, lo stesso Romney era stato battuto anche nelle primarie del 2008 da John McCain dopo avere iniziato la campagna da superfavorito.

A detta dei media negli Stati Uniti, in ogni caso, l’uscita di scena di Romney restringerebbe a due il campo dei favoriti in casa repubblicana, vale a dire l’ex governatore della Florida, Jeb Bush, e l’attuale governatore del New Jersey, Chris Christie.

I collaboratori di entrambi hanno infatti subito iniziato una sfida nella sfida per accaparrarsi il sostegno dei ricchi finanziatori repubblicani che avevano sovvenzionato la corsa di Romney nel 2012. “Ora - secondo il New York Times - i donatori non potranno più nascondersi”, dal momento che praticamente tutti i possibili candidati alla nomination del Partito Repubblicano hanno messo assieme gli strumenti previsti dalla legge per la raccolta di fondi e continueranno perciò a esercitare pressioni sui potenziali sostenitori per schierarsi dalla loro parte.

Inoltre, nonostante manchino molti mesi all’inaugurazione della nuova stagione delle primarie, la direzione che prenderà il denaro dei finanziatori nelle prossime settimane potrebbe chiarire se e quali spazi rimarranno aperti per i candidati attualmente considerati di seconda fascia.

Tra questi ultimi spiccano il governatore del Wisconsin, Scott Walker, e il senatore della Florida, Marco Rubio. Il primo ha conquistato una certa credibilità negli ambienti imprenditoriali soprattutto per avere condotto una durissima battaglia contro i sindacati e gli impiegati pubblici nel suo Stato. Il secondo, invece, è particolarmente apprezzato dalla cerchia dei Tea Party e ha suscitato l’entusiasmo dei facoltosi sostenitori repubblicani grazie a un recente intervento in un forum organizzato in California dagli imprenditori Charles e David Koch.

Ancora più complicato appare il percorso del senatore del Kentucky al primo mandato e di tendenze libertarie, Rand Paul, figlio del perenne candidato alla Casa Bianca, Ron Paul. Rand Paul raccoglie qualche consenso negli ambienti di estrema destra, tra le sezioni isolazioniste del Partito Repubblicano e tra qualche giovane americano disorientato dalla crisi del sistema politico di Washington. Le sue posizioni si scontrano tuttavia con le esigenze interventiste del capitalismo a stelle e strisce, rendendolo poco popolare sia tra l’apparato dirigente del partito sia tra gli esponenti dell’alta borghesia i cui interessi sono legati alle avventure dell’imperialismo USA.

Tra gli analisti d’oltreoceano non sembra esserci consenso su chi sia il principale beneficiario della rinuncia di Romney. Per alcuni, Jeb Bush sarebbe decisamente favorito, visto che appare in pole position per garantirsi in particolare il denaro degli speculatori di Wall Street, essendosi recato già più volte a New York nelle ultime settimane per corteggiare i donatori di Romney.

Molti ricchi sostenitori californiani del miliardario mormone sembrano ugualmente orientati a passare nel campo di quello che sarebbe il terzo presidente della famiglia Bush, così come altri di stanza nel sud degli Stati Uniti. Infine, libero da incarichi politici, Bush ha già programmato decine di appuntamenti per raccogliere denaro nei prossimi mesi, mentre Christie dovrà sdoppiarsi con gli impegni di governatore.

Christie, inoltre, pur avendo pianificato un’aggressiva campagna per raccogliere fondi, non può ricevere donazioni da istituzioni bancarie a causa delle restrizioni di legge che si applicano ai governatori. Christie dovrà anche fare i conti con le conseguenze di uno scandalo esploso lo scorso anno nel suo stato. Nel settembre 2013, cioè, un membro del suo staff aveva ordinato la chiusura per alcune ore di due trafficatissime corsie di un ponte a Fort Lee, nel New Jersey.

La decisione, secondo molti sanzionata dallo stesso Christie, aveva causato un colossale ingorgo, nonché la morte di una donna per arresto cardiaco su un’ambulanza bloccata nel traffico, e sarebbe stata presa come ritorsione contro il sindaco di Fort Lee, colpevole di non avere appoggiato il governatore repubblicano nelle elezioni del 2013.

Secondo un sostenitore repubblicano citato dal sito di informazione Politico.com, tuttavia, ci sarebbe una sensibile “sovrapposizione tra i potenziali donatori di Romney e quelli di Christie”. Romney, per quello che può contare, ha anche indirettamente bocciato la candidatura di Jeb Bush, affermando venerdì che “la prossima generazione di leader repubblicani [dovrà essere formata da persone] che non sono conosciute così bene come lo sono io e che non hanno ancora diffuso il proprio messaggio nel paese”. Romney, poi, nel fine settimana ha cenato con lo stesso Christie, anche se ha evitato finora di esprimere ufficialmente il proprio sostegno per uno dei candidati del suo partito.

I prossimi mesi vedranno dunque un’accesa competizione tra i principali candidati repubblicani, i quali cercheranno di posizionarsi il più a destra possibile e di fare appello alle élites economico-finanziarie americane per assicurare i loro fedeli servizi in caso di elezione alla Casa Bianca.

Nella valanga di analisi e commenti sullo stato della corsa alla nomination per il Partito Repubblicano è poi mancata qualsiasi osservazione sullo stato della “democrazia” statunitense e sui meccanismi di selezione della sua classe dirigente.

Ciò che dovrebbe balzare agli occhi osservando la vicenda di Romney è che la scelta dei candidati per le elezioni presidenziali viene operata esclusivamente dai rappresentanti dei grandi interessi che controllano il Partito Repubblicano attraverso un processo fatto di incontri a porte chiuse o, tutt’al più, di eventi esclusivi per raccogliere fondi, nel quale a stabilire priorità, gerarchie e agende politiche è unicamente il denaro.

Lo stesso identico scenario osservabile nel campo repubblicano si riscontra peraltro in quello democratico, dove gli aspiranti alla nomination si sfidano principalmente nell’accaparrarsi i finanziamenti dei ricchi sostenitori che prediligono, per la difesa dei propri interessi, la versione teoricamente “liberal” dell’apparato di potere di Washington.

In tutto questo, l’opinione degli elettori risulta trascurabile, come conferma appunto il fatto che, almeno per il momento, il più probabile candidato alla nomination repubblicana – Jeb Bush – è un politico reazionario e con un passato da businessman a dir poco controverso, nonché discendente di una dinastia politica americana tra le più disprezzate degli ultimi decenni.

di Carlo Musilli

Dopo la vittoria di Syriza in Grecia, a Madrid sono andate in scena le prove generali di Podemos. Sabato scorso il partito di sinistra alternativa guidato da Pablo Iglesias ha raccolto in strada centinaia di migliaia di persone, dando vita a una "Marcia per il cambiamento" lungo le strade della capitale spagnola. E non si è trattato di una semplice conta, ma della dimostrazione di una forza che minaccia di scardinare il duopolio di popolari e socialisti, ora rispettivamente al governo e all'opposizione.

Il premier conservatore, Mariano Rajoy, ha cercato di sminuire l'ascesa degli indignados, descrivendone il successo come "una moda" che "durerà poco". Eppure, secondo un sondaggio diffuso a inizio gennaio dalla radio di El Pais, al momento Podemos è il primo partito del Paese con il 27,5% dei consensi e ha perciò le carte in regola per replicare in Spagna il successo della compagine di Alexis Tsipras ad Atene.

Le elezioni politiche sono ancora relativamente lontane (novembre), ma il calendario dei prossimi mesi è fitto di consultazioni (dalle amministrative del 22 marzo in Andalusia alla pioggia di municipali e regionali del 24 maggio), che potrebbero aprire la strada a un cambiamento radicale negli assetti del potere spagnolo. Anche se la cavalcata di Podemos non dovesse concludersi con il trionfo di una maggioranza assoluta in Parlamento, la nascita di un terzo polo metterà probabilmente fine alla legge dell'alternanza fra il Partido Popular (PP) e il Partido Socialista Obrero (Psoe), avviando una nuova fase segnata da governi di coalizione.

"Il nostro sogno diventerà realtà quest'anno - ha detto Iglesias -. Vinceremo le elezioni del 2015 e cambieremo tutto. Qualcuno parla della Spagna come di un 'brand', una marca, ma noi non siamo una mercanzia che si può comprare o vendere. Siano maledetti coloro che vendono la nostra cultura come fosse una merce. Quest’anno cambia tutto: al governo andrà il popolo spagnolo".

Nato nel gennaio 2014 per iniziativa di alcuni leader del movimento degli Indignados - che si era esaurito nel 2013 - Podemos ha acquisito rapidamente consensi rifiutando le politiche d'austerità adottate da Rajoy e denunciando il sistema di corruzione che zavorra il Paese (sono oltre 2mila gli imputati in 150 inchieste aperte a tutti i livelli della pubblica amministrazione). Lo scorso maggio il partito di Iglesias ha così ottenuto un milione e duecentomila voti alle elezioni europee, conquistando cinque seggi.

Di lì in avanti la crescita è continuata e oggi Pdemos è una preoccupazione aggiuntiva per Bruxelles, già sul piede di guerra per l'offensiva diplomatica lanciata dal nuovo governo di Atene.

Mentre il leader spagnolo con il codino parlava a Madrid, il neoministro greco delle Finanze Yanis Varoufakis, accanito oppositore dell'austerità, ha iniziato da Parigi un tour (le cui prossime tappe sono Londra, Roma, Berlino e Francoforte) per cercare appoggio alla richiesta di rinegoziare il debito pubblico ellenico. E venerdì aveva già messo in chiaro di voler trattare con l'Europa, ma non con i funzionari della Troika (Ue, Bce e Fmi), un "comitato che non ha ragione di esistere".

L'obiettivo preliminare di Syriza è recuperare la sovranità perduta dai governi precedenti, che pur di ottenere gli aiuti internazionali hanno accettato l'imposizione di riforme lacrime e sangue. Su questo punto la convergenza con Podemos è totale: "Siamo un popolo di sognatori, come don Chisciotte - ha detto ancora Iglesias davanti alla Puerta del Sol -, ma abbiamo chiare molte cose. Una di queste è che la nostra sovranità non è a Davos. In quei luoghi hanno deciso di umiliarci con quello che loro chiamano austerità. È il momento di un piano di riscatto per tutti i cittadini spagnoli".

di Michele Paris

Una nuova guerra tra Israele e Hezbollah, dopo quella del 2006, sembra per il momento scongiurata nonostante l’attacco di mercoledì del partito/milizia sciita libanese oltre il confine meridionale che ha ucciso due soldati di Tel Aviv e la cui reazione ha portato alla morte di un casco blu ONU di nazionalità spagnola. La tensione nella zona di confine tra Israele, Libano e Siria rimane però alle stelle e la crisi in cui si dibatte il governo Netanyahu, assieme alla continua destabilizzazione del paese guidato dal presidente Assad, rischia di far precipitare la situazione da un momento all’altro con conseguenze esplosive per l’intero Medio Oriente.

Il primo ministro israeliano ha risposto duramente al lancio di cinque missili da parte di Hezbollah che avevano colpito un convoglio delle forze armate. Netanyahu ha avvertito che il “Partito di Dio” dovrà pagare “l’intero prezzo” della sua azione, per poi ricordare quale era stata recentemente la reazione di Israele contro Hamas a Gaza, minacciando cioè sostanzialmente nuovi crimini di guerra contro le vicine popolazioni arabe.

Il ministro della Difesa di Israele, Moshe Yaalon, ha comunque fatto sapere giovedì di aver ricevuto un messaggio da parte di Hezbollah attraverso le forze ONU in Libano per comunicare il disinteresse in un’escalation militare. Un nutrito contingente di Hezbollah è impegnato da tempo in Siria a fianco del regime di Assad contro l’opposizione armata sunnita, mentre anche in territorio libanese la minaccia jihadista è una costante realtà per la popolazione di fede sciita, così che l’organizzazione guidata da Hassan Nasrallah sembra avere ben altre priorità che non aprire un nuovo fronte di guerra con Israele.

Gli stessi governi occidentali vedono poi con grande apprensione la possibilità di una nuova guerra aperta tra Israele e Libano e starebbero esercitando pressioni su Israele per evitare risposte militari contro Hezbollah. Questo, quanto meno, è ciò che hanno riferito giovedì gli ambasciatori a Beirut di USA e Gran Bretagna al primo ministro libanese, Tammam Salam.

Da parte di Netanyahu sembra esserci tuttavia un evidente interesse nel far salire le tensioni nella regione. Secondo vari osservatori, anzi, piani di guerra contro il Libano sarebbero già pronti e Israele aspetterebbe l’occasione propizia per scatenare il conflitto.

La responsabilità del precipitare della situazione è in ogni caso da attribuire interamente a Israele. L’attacco di mercoledì non è infatti che una ritorsione in risposta all’iniziativa israeliana del 18 gennaio scorso, quando un attacco aereo sul territorio delle alture del Golan controllate dalla Siria aveva provocato la morte di sei militanti di Hezbollah e un generale iraniano. Fin dall’inizio del conflitto in Siria, inoltre, Israele ha operato svariate incursioni in questo paese, dietro la giustificazione di impedire il trasferimento di armi a Hezbollah.

L’intensificarsi dell’impegno di Tel Aviv oltre il confine siriano viene giustificato dal governo Netanyahu e dai media israeliani conservatori con la necessità di contrastare la formazione di un “fronte terrorista” nell’area delle alture del Golan, ovvero la presenza di uomini di Hezbollah e, con ogni probabilità, di un contingente militare iraniano. In realtà, i due principali alleati di Assad operano in quest’area in seguito all’apertura di un fronte meridionale da parte dei “ribelli” nella guerra per il rovesciamento del regime di Damasco.

Questo sforzo, va ricordato, è stato appoggiato in pieno proprio da Israele che, come ha messo in luce anche un rapporto ONU dello scorso dicembre, collabora di fatto con forze fondamentaliste come il Fronte al-Nusra, organo ufficiale di al-Qaeda in Siria.

In questo modo, Tel Aviv intende sfruttare la situazione di crisi nel vicino settentrionale per consolidare la propria occupazione illegale delle alture del Golan e per mantenere alto il livello di destabilizzazione della Siria, dove stanno appunto spendendo importanti risorse i rivali di Hezbollah e della Repubblica Islamica.

Sulle provocazioni di Netanyahu influisce anche la situazione politica domestica a poche settimane da delicate elezioni generali. Come spesso accade, il prezzo delle esigenze politiche della destra israeliana viene pagato col sangue degli arabi, visto che, di fronte a una possibile sconfitta contro l’opposizione di centro-sinistra, il premier sta cercando ancora una volta di alimentare il clima di assedio nel suo paese per convincere gli elettori della necessità di un governo forte sui temi della “sicurezza nazionale”.

Netanyahu ha così puntato il dito anche contro l’Iran per l’attacco di mercoledì, affermando, nel corso di una cerimonia per celebrare un anno dalla morte di un altro primo ministro con precedenti da criminale di guerra, Ariel Sharon, che la stessa Repubblica Islamica responsabile della morte dei due soldati israeliani “sta cercando di giungere a un accordo con le potenze mondiali che lascerebbe intatte le sue capacità di sviluppare armi nucleari”.

Il timore di vedere suggellato un riavvicinamento tra Washington e Teheran è l’altro fattore che sta dietro l’inquietudine di Netanyahu, impegnato disperatemente a dimostrare l’impossibile, vale a dire che la leadership iraniana sta cercando di ingannare la comunità internazionale per conquistare lo spazio di manovra necessario a percorrere la strada del nucleare a scopi militari.

In questo senso va inteso lo scontro sempre più duro tra il suo governo e l’amministrazione Obama, giunto proprio questa settima a livelli quasi senza precedenti nella storia dei rapporti tra USA e Israele. La nuova polemica è esplosa in seguito all’invito fatto a Netanyahu dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti di Washington - John Boehner - per parlare di fronte al Congresso nel mese di febbraio. L’intervento giungerebbe nel pieno di un acceso dibattito in corso negli Stati Uniti sull’opportunità di adottare nuove sanzioni economiche contro l’Iran nel pieno dei negoziati, come vorrebbe il Congresso.

Oltre a criticare Boehner per avere mancato di informare la Casa Bianca dell’invito, lo staff del presidente Obama ha accusato l’ambasciatore israeliano negli USA ed ex assistente di vari politici repubblicani, Ron Dermer, di avere organizzato la visita di Netanyahu assieme allo “speaker” e, non avendola notificata né al governo né ai diplomatici americani in Israele, di avere dato la priorità alle vicende politiche del premier rispetto alle relazioni tra i due paesi.

La Casa Bianca ha così annunciato che Obama non incontrerà Netanyahu durante la visita negli USA a febbraio, anche se la decisione sarebbe stata presa ufficialmente per non interferire nelle vicende elettorali di Israele, vista la vicinanza del voto per il rinnovo del parlamento (Knesset).

Nonostante l’abbassamento dei toni in Libano e in Israele dopo i fatti di mercoledì e le presunte pressioni internazionali su Israele per astenersi dallo scatenare un nuovo conflitto, appaiono dunque evidenti nell’ultimo periodo le indicazioni di una possibile ulteriore escalation militare in Medio Oriente, determinata non solo dalle provocazioni di Tel Aviv ma anche dalla persistente crisi in Siria e dal recente crollo in Yemen del governo installato a appoggiato da Stati Uniti e Arabia Saudita.

di Michele Paris

La vicenda dei due ostaggi giapponesi sequestrati dallo Stato Islamico (ISIS), di cui uno già giustiziato, ha fornito una nuova occasione al governo di Tokyo del primo ministro Shinzo Abe per avanzare una serie di proposte di legge in materia di “sicurezza”, in modo da consentire un più agile e incisivo impiego delle forze armate del paese dell’Estremo Oriente nelle aree di crisi del pianeta.

Il premier di estrema destra ha parlato questa settimana a una riunione del suo Partito Liberal Democratico (LDP) poco prima dell’inaugurazione della nuova sessione del parlamento (Dieta) per annunciare che saranno introdotte misure volte a “proteggere le vite dei giapponesi e il nostro pacifico stile di vita”.

In particolare, saranno un’ottantina le bozze di legge da discutere da qui alla fine di giugno, tra cui almeno dieci relative alle attività delle cosiddette Forze di Auto Difesa, ovvero le forze armate giapponesi. A breve, l’LDP inizierà i negoziati con il suo partner di governo, il partito buddista Komeito, teoricamente pacifista, e un voto sulle misure proposte è previsto per il mese di aprile, con ogni probabilità dopo le elezioni amministrative.

Lo scopo della legislazione è quello di codificare la reinterpretazione della costituzione pacifista giapponese, decisa dal governo Abe lo scorso anno. Con questa iniziativa, il gabinetto conservatore aveva compiuto il primo passo verso il ritorno alla piena militarizzazione del Giappone, affermando il principio di “autodifesa collettiva”, cioè di intervenire con i propri soldati nel caso un paese alleato finisca sotto attacco.

Nel pieno del clima di isteria generato dal rapimento dei due cittadini giapponesi in Medio Oriente, Abe intende ottenere un quadro legale all’interno del quale il governo possa avere facoltà di ordinare il dispiegamento di truppe all’estero senza passare attraverso un dibattito e un voto della Dieta, come è ad esempio accaduto nel recente passato con la partecipazione alle occupazioni americane di Afghanistan e Iraq.

L’utilizzo più spregiudicato delle forze armate come strumento della sempre più aggressiva politica estera giapponese è uno degli obiettivi amessi dal primo ministro nemmeno tanto velatamente. Sfruttando il caso dei due ostaggi detenuti dall’ISIS, Abe ha infatti ammonito che “le capacità delle Forze di Auto Difesa non possono essere utilizzate in pieno nemmeno quando è in pericolo la vita di un cittadino giapponese all’estero”.

Secondo il quotidiano Asahi Shimbun, perciò, una delle nuove leggi che l’amministrazione Abe sta considerando consentirebbe ai militari di condurre operazioni per liberare eventuali ostaggi giapponesi tenuti prigionieri all’estero.

La sicurezza dei connazionali nipponici non è comunque lo scrupolo principale che guida la campagna militarista di Abe, bensì, da un lato, la necessità di avere a disposizione uno strumento per imporre o difendere gli interessi del capitalismo giapponese al di fuori dei confini nazionali e, dall’altro, l’integrazione nei piani strategici di Washington, in particolare nel continente asiatico in funzione di contenimento della Cina.

Gli Stati Uniti considerano d’altra parte l’alleato giapponese come un elemento fondamentale nell’eventualità di un’azione militare o di un blocco navale contro Pechino. L’esplosione di una guerra con la Cina comporterebbe la necessità di coinvolgere il Giappone, il cui governo dovrebbe avere così mano libera nel decidere la mobilitazione delle forze armate in aiuto dei propri alleati.

Che l’obiettivo principale dell’accelerazione militarista di Abe sia la Cina è confermato anche da un’altra proposta di legge, in base alla quale il governo potrebbe ordinare il dispiegamento di truppe e forze navali nel caso imbarcazioni o individui dovessero entrare nelle acque territoriali o sbarcare su isole giapponesi.

Il riferimento in questo caso è evidentemente alla contesa delle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, oggetto negli ultimi anni di vari scontri non solo diplomatici tra Tokyo e Pechino.

Il carattere reazionario delle misure allo studio del governo giapponese è rivelato infine da una proposta di legge che consentirebbe di fatto il restringimento dei diritti civili in caso di attacco o di minaccia di attacco dall’estero. In questo caso potrebbe essere introdotto una sorta di stato di emergenza, così che l’esecutivo possa facilmente ordinare la repressione di qualsiasi genere di protesta o dissenso.

L’abbandono dell’orientamento pacifista fissato dalla carta costituzionale del Giappone fin dal termine della seconda guerra mondiale è in ogni caso osteggiato dalla maggioranza della popolazione. Le iniziative in senso militarista del premier Abe sono perciò possibili solo grazie all’inconsistenza dell’opposizione, ma anche e soprattutto a manovre politiche che hanno sostanzialmente impedito un dibattito pubblico sull’argomento e, com’è evidente in questi giorni, a una calibrata manipolazione dell’opinione pubblica, comprensibilmente inorridita di fronte alla sorte dei due ostaggi giapponesi nelle mani dell’ISIS.

Abe, infatti, non ha perso occasione per intervenire sulla vicenda, come ha fatto in diretta TV mercoledì in seguito all’apparizione di un nuovo video, nel quale il giornalista Kenji Goto ha letto un ultimatum dell’ISIS per chiedere la scarcerazione di una detenuta per terrorismo in Giordania in cambio della sua liberazione e di quella di un pilota del regno Hashemita cattuato dai jihadisti in Siria a dicembre.

Abe ha definito “spregevole” il filmato, mentre egli stesso e i membri del suo gabinetto continuano a promuovere l’idea che, in futuro, per evitare o risolvere gravi crisi come quella in atto sarà indispensabile che il governo disponga dei poteri necessari a intervenire militarmente dove, in realtà, a richiederlo sono le pericolose aspirazioni da grande potenza nutrite dalla classe dirigente giapponese.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy