di Michele Paris

I bombardamenti della coalizione assemblata senza molto senso dall’amministrazione Obama per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) si stanno concentrando in questi giorni nel territorio siriano al confine con la Turchia per cercare di impedire ai fondamentalisti sunniti di conquistare la città curda di Kobane.

L’assedio ha già provocato la fuga di quasi 200 mila civili verso la Turchia, scatenando le proteste dei curdi non solo in questo paese - dove sono stati affrontati duramente dalla polizia - ma anche in varie città europee per chiedere ai governi occidentali un maggiore impegno contro la minaccia jihadista che incombe sugli appartenenti alla loro etnia in Siria.

Al di là dell’ironia delle richieste di aiuto a governi che hanno contribuito in maniera diretta alla nascita dell’ISIS, un intervento ancora più deciso dell’Occidente o dei paesi arabi in Siria non farebbe che peggiorare una situazione già catastrofica. Inoltre, le centinaia di incursioni aeree già portate a termine in Siria e in Iraq non hanno per ora ostacolato in maniera significativa l’avanzata dei guerriglieri estremisti.

Questa realtà è comunque servita a giustificare il coinvolgimento di altri paesi nella guerra lanciata dagli Stati Uniti. La Turchia, in particolare, dopo il voto del parlamento a favore di un intervento militare contro l’ISIS, ha dispiegato le proprie forze armate al confine con la Siria. Allo stesso tempo, Ankara sta impedendo ai membri della minoranza curda in Turchia di raggiungere il campo di battaglia in Siria per unirsi alla resistenza dei curdi che vivono oltre il confine meridionale.

Nonostante il presidente Erdogan e il primo ministro Davutoglu si siano recentemente convertiti alla necessità di combattere l’ISIS dopo averlo favorito in tutti i modi come arma contro Damasco, è difficile non osservare una nuova convergenza di obiettivi tra Ankara e la stessa organizzazione fondamentalista nel territorio siriano a maggioranza curda.

La Turchia, cioè, pur avendo ceduto alle pressioni USA per combattere l’ISIS in cambio della rimozione del regime di Assad, non intende in nessun modo aiutare intenzionalmente le milizie curde siriane (Unità di Protezione Popolare, YPG), dal momento che esse hanno legami molto stretti con il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) in territorio turco. Un intervento esterno contro l’ISIS potrebbe finire infatti per alimentare le tendenze indipendentiste curde da entrambi i lati del confine turco-siriano, aprendo un nuovo pericoloso fronte per il governo di Ankara, già sopraffatto dalle conseguenze disastrose della sua politica estera a dir poco contraddittoria.

A confermare i reali scopi turchi nel conflitto in Siria è stato qualche giorno fa il premier Davutoglu che ha chiarito nel corso di un’intervista alla CNN come Ankara sia pronta ad assistere gli Stati Uniti, purché ci sia “una chiara strategia”, grazie alla quale, “dopo l’ISIS, i nostri confini siano protetti”.

In altre parole, l’obiettivo finale del governo islamista di Erdogan e Davutoglu è appunto la destituzione con la forza di Assad. A tale fine, quest’ultimo viene dipinto dall’ex ministro degli Esteri turco come una minaccia per la Turchia, anche se appare evidente come sia la stessa condotta irresponsabile di Ankara a favore dell’opposizione armata siriana - incluso l’ISIS - ad essersi trasformata in un boomerang, creando una gravissima situazione di minaccia alla sicurezza nazionale del paese euro-asiatico.

Lo stesso Erdogan nella giornata di martedì ha poi lanciato l’allarme per l’imminente caduta della città di Kobane nelle mani dell’ISIS, tornando a chiedere, per fermare questi ultimi, una no-fly zone sulla Siria settentrionale, con una logica difficile da comprendere se non in funzione di una guerra aperta contro Assad.

Identica richiesta era già stata avanzata settimana scorsa dallo stesso ex premier turco e non era stata esclusa dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, e dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey.

Che la Turchia e le monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico siano le vere responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente lo ha sostenuto apertamente anche il governo americano. L’ormai nota “gaffe” del vice-presidente Biden di giovedì scorso durante un intervento all’università di Harvard non è stata altro che l’ammissione involontaria, da parte di un politico notoriamente “sprovveduto” per gli standard di cinismo che caratterizzano la politica di Washington, del fatto che l’ISIS è innegabilmente una creazione degli alleati americani nella lotta contro Assad.

Biden, se mai, è stato fin troppo reticente, visto che ha taciuto le responsabilità del suo governo, protagonista principalmente attraverso la CIA quanto meno della supervisione delle attività di reclutamento, addestramento e finanziamento delle formazioni islamiste impegnate contro il regime siriano.

Il possibile intervento delle forze armate turche, in ogni caso, si accompagna alla continua escalation bellica statunitense in Iraq e in Siria dietro le spalle degli americani, con buona pace di quanti avevano creduto alle promesse di Obama circa un conflitto di portata limitata.

I vertici militari USA hanno ad esempio annunciato l’impiego per la prima volta di elicotteri da guerra Apache contro l’ISIS in Iraq, in pratica smentendo la pretesa della Casa Bianca di non avere intenzione di utilizzare truppe di terra. Questi velivoli, infatti, oltre a garantire una maggiore efficacia, espongono i piloti a notevoli rischi di abbattimento, annullando così quasi del tutto le differenze tra una guerra aerea e una condotta con forze di terra.

Inoltre, possibili eventuali abbattimenti di elicotteri USA o la cattura di soldati americani da parte dell’ISIS fornirebbero un’altra occasione per intensificare l’impegno di Washington nel conflitto in corso e avvicinare sempre più il momento della resa dei conti con il regime di Damasco.

Un impegno, quello che vede come al solito gli USA in prima linea, che potrebbe anche riguardare la NATO, come ha confermato il neo-segretario dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, rievocando sinistramente la guerra scatenata nel 2011 per “liberare” la Libia dal regime di Gheddafi.

L’ex primo ministro norvegese, nell’ennesimo paradosso della guerra all’ISIS, ha annunciato che le forze NATO sarebbero pronte a intervenire a “difesa” di Ankara nel caso le violenze in Siria dovessero sconfinare in Turchia, facendo appunto scattare l’obbligo di soccorrere un qualsiasi paese membro se attaccato.

I responsabili della devastazione dell’Iraq e della Siria, in definitiva, sembrano essersi trasformati ora in vittime di un regime, come quello di Assad, che non ha però mai minacciato in nessun modo i propri vicini. Anzi, è proprio Damasco la vittima da oltre tre anni delle manove di questi ultimi e dei governi occidentali, disperatamente alla ricerca di una vittoria strategica cruciale in Siria, tanto da appogiare il fondamentalismo sunnita per poi combatterlo - o dare l’impressione di volerlo combattere - una volta sfuggito di mano.

di Michele Paris

Le elezioni anticipate andate in scena domenica in Bulgaria hanno prodotto il Parlamento più frammentato nella storia post-sovietica del paese dell’Europa orientale. A conquistare il maggior numero di seggi è stato comunque il partito di opposizione di centro-destra GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria), il quale dovrà però cercare partner di governo al di fuori delle forze normalmente considerate come alleati naturali, con il risultato di dar vita a un nuovo debole esecutivo che sarà chiamato ad affrontare delicate questioni politiche, economiche e strategiche nell’immediato futuro.

Il dato più significativo del voto è stato quello dell’astensione, con circa la metà degli elettori bulgari che non si sono presentati alle urne in un chiaro segnale della profonda disaffezione verso una classe politica che negli ultimi anni ha presieduto ad una crisi dopo l’altra, senza scalfire la realtà di un paese che rimane il più povero dell’Unione Europea.

L’altro sintomo della frustrazione diffusa verso l’establishment politico tradizionale è stata l’insolita dispersione del voto, come conferma il fatto che per la prima volta otto formazioni politiche hanno superato la soglia di sbarramento, fissata al 4%, per poter ottenere seggi nell’unica camera del parlamento bulgaro (Assemblea Nazionale).

Il GERB dell’ex e probabile futuro primo ministro Boyko Borisov ha ancora una volta capitalizzato l’avversione verso il Partito Socialista Bulgaro, ottenendo più voti di quelli dei suoi due principali rivali combinati. Quasi il 33% dei consensi, tuttavia, non permettono al GERB nemmeno lontanamente di contare sulla maggioranza assoluta in maniera autonoma.

Le speranze di Borisov di far nascere un governo di coalizione relativamente stabile sono state inoltre spazzate via dalla modesta affermazione del Blocco Riformista, indicato alla vigilia come partner naturale del GERB. Formato da cinque partiti minori di centro-destra, infatti, il Blocco ha convinto appena il 9% dei votanti.

I vertici del GERB nella giornata di lunedì hanno comunque già fatto sapere di essere disponibili a imbarcare in una coalizione di governo anche il Fronte Patriottico, un’alleanza elettorale all’insegna del nazionalismo che ha conquistato il 7,3% dei consensi. Una qualche forma di collaborazione con il prossimo governo potrebbe essere creata poi con il partito di estrema destra anti-semita ATAKA, il quale ha perso quasi 3 punti percentuali rispetto alle elezioni del maggio 2013, assestandosi attorno al 4,5%.

La performance del GERB non sembra essere dunque in nessun modo un attestato di fiducia della maggioranza degli elettori bulgari, tanto più che un recente sondaggio Gallup aveva evidenziato come il 59% degli interpellati si fosse detto contrario a un nuovo incarico a primo ministro per Borisov.

Il partito che ha maggiormente patito il voto anticipato è stato quello Socialista (BSP) che è passato dal 26,5% del 2013 a poco più del 15% di domenica. Gli altri tre partiti che entreranno in parlamento sono poi il Movimento per i Diritti e le Libertà o DPS (14,8%), che rappresenta la minoranza turca, Bulgaria Senza Censura (5,7%), del giornalista televisivo Nikolay Barekov, e l’Alternativa per lo Sviluppo della Bulgaria o ABV (4,2%), dell’ex presidente Georgi Parvanov.

La seconda tornata elettorale in poco più di un anno in Bulgaria è dovuta al crollo avvenuto la scorsa estate del governo di minoranza appoggiato dal Partito Socialista e dal DPS e guidato dal premier “indipendente” Plamen Oresharski. La crisi dell’esecutivo era stata prodotta dalla modesta performance dei partiti che lo sostenevano nelle elezioni europee ma, in realtà, la sua già precaria stabilità era stata scossa più volte da proteste popolari contro la corruzione dilagante e la nomina di un magnate delle comunicazioni alla guida dell’agenzia per la sicurezza nazionale, così come, successivamente, dalla pessima gestione di una rovinosa inondazione nel mese di giugno e da una tuttora poco chiara crisi bancaria che durante l’estate aveva causato una corsa al ritiro dei risparmi depositati presso due istituti bulgari.

Le dimissioni del governo Oresharski avevano portato così alla formazione di un gabinetto ad interim di “tecnici” guidato dall’ex membro del Partito Socialista, Georgi Bliznashki, che ha condotto il paese fino al voto del fine settimana.

Ancora prima delle tensioni provocate dalla condotta dell’esecutivo uscito dalle elezioni del 2013, in ogni caso, la Bulgaria era finita al centro dell’attenzione della comunità internazionale come uno dei paesi più instabili dell’Unione Europea. Infatti, il governo di centro-destra di Borisov si era a sua volta dimesso nel febbraio 2013 in seguito a proteste popolari oceaniche contro rincari vertiginosi delle tariffe dell’energia elettrica e, più in generale, contro le durissime misure di austerity che avevano colpito una popolazione già impoverita a sufficienza.

A inasprire la persistente crisi politica bulgara negli ultimi mesi è stata anche la vicenda ucraina e il confronto in atto tra l’Occidente e la Russia, che ha provocato di riflesso uno scontro molto duro tra le varie fazioni politiche a Sofia.

La Bulgaria ha legami piuttosto stretti con Mosca nonostante l’ingresso nell’UE e, in particolare, il Partito Socialista - erede del Partito Comunista Bulgaro - vede con un certo favore il mantenimento del rapporto con la Russia, respingendo perciò lo scontro frontale voluto da Washington e Bruxelles. L’evoluzione dei fatti in Ucraina ha però reso sempre più complicata la difesa di una simile posizione, iniettando nella realtà politica - ma anche economica - della Bulgaria un ulteriore fattore destabilizzante.

Oltre ad avere avuto probabilmente un peso nella già ricordata crisi bancaria, i riflessi della questione ucraina si sono fatti sentire soprattutto attorno alla sorte del South Stream, il gasdotto in fase di costruzione che dovrebbe trasportare il gas russo verso l’Europa attraverso il Mar Nero e la Bulgaria fino all’Austria e l’Italia, evitando l’Ucraina.

Con l’aggravarsi della crisi tra Kiev e Mosca, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno esercitato enormi pressioni sul governo di Sofia per sospendere la costruzione della sezione bulgara del gasdotto di proprietà al 50% della russa Gazprom. L’annuncio dello stop ai lavori in Bulgaria era giunto così ai primi di giugno, due giorni dopo la visita a Sofia di un gruppo di senatori americani guidati dal repubblicano John McCain.

L’apparente linea dura bulgara nei confronti della Russia è poi proseguita dopo l’installazione del governo tecnico di Georgi Bliznashki, formato da varie personalità legate all’UE e agli USA. Allo stesso modo, il probabile prossimo primo ministro Borisov ha assicurato che i lavori del South Stream nel suo paese proseguiranno solo con il via libera di Bruxelles, da dove continua a prevalere la volontà di punire il Cremlino.

A complicare il quadro c’è poi la posizione dei paesi beneficiari del gasdotto, come Austria e Italia (l’ENI è coinvolto al 20% nel progetto South Stream), i quali si oppongono alla decisione dell’Unione di sospendere i lavori.

La stessa Bulgaria sembra avere peraltro un atteggiamento ambiguo sulla questione, visto che alcuni lavori del South Stream secondo alcune fonti starebbero proseguendo anche dopo la decisione ufficiale di sospenderli.

Alcune testate nelle scorse settimane avevano ad esempio parlato di tubi giunti nel porto di Varna destinati alla costruzione del gasdotto, mentre più recentemente i vertici della società South Stream hanno affermato che il posizionamento delle tubature sul fondo del Mar Nero inizierà come previsto nel mese di novembre.

Sulla diatriba e sull’orientamento stesso del prossimo governo di Sofia continua infine a intervenire l’Unione Europea con toni intimidatori. Alla notizia della possibile prosecuzione dei lavori del South Stream in Bulgaria - ma anche in Serbia - malgrado l’annuncio ufficiale della sospensione, una portavoce del commissario europeo per l’energia, Günther Oettinger, qualche giorno fa ha agitato nuovamente la minaccia delle procedure di infrazione, in base sia alla violazione delle sanzioni anti-russe adottate da Bruxelles sia alla regola UE che vieta ad una singola compagnia - in questo caso Gazprom - di essere contemporaneamente fornitrice del gas naturale e proprietaria delle infrastrutture in cui esso deve transitare.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Festa della riunificazione al veleno quest’anno per l’ex-Cancelliere Helmut Kohl (CDU), vero e proprio fautore politico della riunificazione tedesca. L’autorevole settimanale Der Spiegel ha finalmente pubblicato frammenti di sue interviste rilasciate nel 2001 al giornalista Heribert Schwan (Westdeutsche Rundfunk) e, a quanto pare, Kohl non ha usato mezzi toni: ce n’è per tutti, in particolare per i suoi colleghi di partito cristianodemocratici, a prescindere dall’influenza politica attuale o dalla rilevanza d’allora, in particolare per la sua erede politica Angela Merkel (CDU).

Certo, non sono paragonabii i rispettivi livelli di qualità politica. Se la Cancelliera appare come un rigido ragioniere dei conti tedeschi alla cui convenienza piega l'Europa intera, a Khol, insieme a Mitterrand, si deve l'architettura del disegno europeo, compreso quell'accordo per l'asse Bonn-Parigi che ipotizzò una Europa a due velocità ma sempre come soggetto politico ad autonomia crescente risetto alla leadership statunitense.

Ma è proprio nell'anniversario della riunificazione che il settimanale fa cadere quanto contenuto nella lunghissima intervista con l'ex Cancelliere. Si tratta di più di 600 ore di colloqui registrate tra il 2001 e il 2002, in circa di 100 incontri tra Kohl e il giornalista. Per l’ex-cancelliere della riunificazione sono gli anni dello scandalo dei fondi al partito, l’Unione cristianodemocratica (CDU).

Cancelliere della ex-Germania dell’ovest (RFT) e poi della prima Germania unita, Kohl ha guidato i tedeschi per ben sedici anni (1982 -1998), accompagnandoli durante la riunificazione e diventandone l’idolo. Dopo la fine del suo mandato, nel 1999, si è scoperto che la CDU, sotto la sua leadership, riceveva fondi illegali e Kohl è stato processato. Nel luglio 2001, pochi mesi dopo l’inizio delle interviste, Hannelore, la moglie di Kohl, si è tolta la vita.

Le registrazioni avrebbero dovuto precedere la stesura delle memorie di Kohl, ma nel 2009 l’ex-Cancelliere e il suo scrittore ombra Schwan hanno litigato: il progetto è stato bloccato da un lungo processo giudiziario per l’assegnazione dei diritti dei testi. La legge tedesca ha preso solo ora le sue decisioni, riassegnando le registrazioni a Kohl e solo adesso, per la prima volta, Der Spiegel ne ha potuto pubblicare dei frammenti.

Helmut Kohl non ha risparmiato nessuno. La prima della sua lista è Angela Merkel, sua erede politica e attuale Cancelliera. Kohl l’ha dovuta pescare in un paiolo di giovani, insignificanti politici senza nome, spiega l’ex-Cancelliere, per vederla poi allontanarsi durante lo scandalo dei finanziamenti al partito: la giovane Cancelliera, per tutto ringraziamento, gli avrebbe quindi voltato la schiena.

Kohl non si risparmia dettagli divertenti e quasi personali circa la sua protetta d’allora. “Frau Merkel non sapeva neppure usare correttamente coltello e forchetta. Andava volentieri a spasso durante le cene di Stato e la dovevo spesso richiamare all’ordine”.

Difficile immaginarsi una giovane Fraeulein Merkel che gironzola svagata fra i tavoli dei vertici politici internazionali. Qualche parola più seria anche circa la politica europea di Merkel e team: la Merkel “non ne ha la più pallida idea”, dice Kohl nel 2001 a proposito, così come l’allora capo del gruppo parlamentare Friedrich Merz (CDU), che definisce un “bambino politico”.

Un'altra vittima delle interviste al veleno è l’ex-presidente della repubblica federale Christian Wulff, definito “un grande imbroglione e, allo stesso tempo, una nullità”. È una prospettiva interessante se si considera che Kohl ha rilasciato queste interviste nel 2001.

Qualche anno più tardi, Wulff, considerato “uomo della Merkel”, sarà eletto alla carica più alta della Germania federale nel 2010, per poi essere costretto a dimettersi due anni dopo in seguito a un presunto finanziamento agevolato ricevuto da un amico e al conseguente processo giudiziario. Kohl, evidentemente, ci vedeva lungo.

Ed è proprio in concomitanza con i festeggiamenti per la riunificazione della Germania che Kohl esprime la sua opinione, alquanto disincantata in verità, circa la rivoluzione della Repubblica democratica tedesca (Rdt) e la conseguente caduta del Muro. Il regime di Berlino dell’Est non è caduto per il movimento dei cittadini e per l’aspirazione somma al diritto e alla libertà dei popoli: “È sbagliato pensare che, improvvisamente, lo spirito santo sia sceso sulle piazze di Lipsia e abbia cambiato il mondo”, dice Kohl. La causa primaria di questo radicale cambiamento sarebbe stato l’indebolimento di Mosca e la politica di Mikhail Gorbaciov. “Gorbaciov ha rinnovato il comunismo, a tratti controvoglia, ma di fatto lo ha sostituito. Senza violenza. Senza spargimenti di sangue. Non mi sembra sia rimasto molto di più, di lui“.

Dal Cancelliere della riunificazione ci si poteva forse aspettare più idealismo ed entusiasmo, ma i tempi cambiano e, probabilmente, l’età e il distacco rendono tutti un po’ più freddi. O sinceri.

di Michele Paris

A giudicare dai titoli dei giornali internazionali di questa settimana, il nuovo bilancio per il prossimo anno presentato dal governo Socialista francese sarebbe una sorta di audace mossa “anti-austerity” che sfida i ferrei principi europei del rigore, promossi principalmente da Berlino. In realtà, il piano di spesa mantiene tutti i tagli previsti ed è perciò perfettamente in linea con gli attacchi portati in questi anni dal presidente Hollande alle classi più deboli della società transalpina.

Il bilancio partorito dal governo del premier Manuel Valls si inserisce infatti nel piano dello stesso Hollande di eliminare dai capitoli della spesa pubblica ben 50 miliardi di euro entro il 2017. Per fare ciò, nel 2015 verranno nuovamente penalizzati svariati programmi sociali, tra cui in particolare quelli destinati alle famiglie con figli, e la sanità pubblica.

In quest’ultimo settore i tagli ammonteranno a 3,2 miliardi di euro, mentre i genitori francesi vedranno diminuire, tra l’altro, le somme tradizionalmente erogate una tantum alla nascita dei loro figli e gli assegni mensili, il periodo di congedo di maternità o paternità e il contributo per pagare i servizi di baby-sitter.

Tra gli altri provvedimenti previsti ci sono anche aumenti della tassa televisiva e della benzina diesel, così come l’apertura alla competizione di alcuni settori dei servizi e del commercio, come farmacie e attività notarili.

Complesivamente, il bilancio di Hollande prevede nel 2015 risparmi pari a 9,6 miliardi di euro per il welfare francese, 3,7 miliardi in meno da stanziare agli enti locali e altri 7,7 miliardi di tagli in vari settori finanziati dalla spesa pubblica.

Tutti questi interventi, più in generale, rappresentano un vero e proprio trasferimento di ricchezza a favore delle classi più agiate, in primo luogo degli industriali, visto che i tagli servono in larga misura a compensare benefici fiscali da 40 miliardi di dollari voluti da Hollande per le aziende private, teoricamente in cambio di una campagna di assunzioni di cui finora non vi è traccia.

L’annuncio del nuovo bilancio è stato accolto da numerose manifestazioni di protesta nel paese, con migliaia di francesi che, con ogni probabilità, non devono avere compreso fino in fondo la natura “anti-austerity” delle iniziative del loro governo proclamata dai media ufficiali.

La presunta “sfida” al rigorismo tedesco e dei vertici delle istituzioni europee da parte di Parigi, d’altra parte, si limita al rifiuto di implementare più rapidamente i tagli alla spesa promessi, così che la Francia possa ridurre il proprio deficit pubblico nei tempi imposti da Bruxelles.

Il piano francese dovrebbe portare il rapporto deficit/PIL dal 4,4% di quest’anno al 4,3% del 2015, per poi scendere al 3,8% nel 2016 e solo nel 2017 sotto il 3% (2,8%), cioè la soglia massima permessa dall’Unione Europea e che avrebbe dovuto essere raggiunta da Parigi dapprima nel 2013 e poi nel 2015.

A spiegare la nuova violazione delle direttive UE è stato il ministro delle Finanze, Michel Sapin, per il quale la difficile situazione economica francese ha costretto il governo a un “adattamento” del processo di riduzione del deficit. L’economia della Francia dovrebbe infatti crescere appena dello 0,4% quest’anno e raggiungere un tasso del 2% solo nel 2019, anche se queste stime, sia pure modeste, sono da molti ritenute eccessivamente ottimistiche.

Le parole di Sapin sono in ogni caso un’ammissione dell’impossibilità per un numero crescente di paesi di rispettare i parametri europei, se non a rischio di provocare un’esplosione sociale, visti i sacrifici già richiesti in questi anni ai ceti più poveri.

Il governo e il presidente francese, inoltre, nonostante siano esposti alle pressioni del business domestico e internazionale per tagliare ancor più rapidamente la spesa, continuano a far segnare livelli di gradimento infimi nel paese proprio a causa dell’accanimento con cui sono state perseguite le politiche di rigore. La situazione politica interna, poi, è sempre più precaria, con l’estrema destra in costante crescita e l’ala sinistra del Partito Socialista sul piede di guerra di fronte all’abbandono spudorato da parte di Hollande anche di qualsiasi parvenza vagamente progressista.

In ogni caso, il governo non intende recedere dalle politiche anti-sociali che hanno fatto sprofondare i Socialisti. Le dichiarazioni ufficiali dell’esecutivo, secondo le quali Parigi afferma di “respingere l’austerity” sono smentite dalla portata dei tagli già descritti, ma anche ad esempio dalle parole pronunciate martedì da Hollande nel corso di un incontro all’Eliseo con i vertici dell’industria transalpina. Il presidente ha infatti avvertito il paese che “non ci sono piani di risanamento indolori” e che “se non si sentono grida, ciò significa che non c’è risanamento”.

La cosiddetta “audacia” del governo francese in ambito finanziario ha comunque avuto riflessi questa settimana anche nella realtà parallela di Bruxelles, con il commissario europeo designato per gli affari economici e monetari, Pierre Moscovici, finito sotto il fuoco dei parlamentari europei conservatori.

Nel corso di un’audizione prima della nomina ufficiale di Moscovici, sono state messe in dubbio le sue capacità di far rispettare le regole sui bilanci dei vari governi, visto che la Francia ha appena annunciato per la seconda volta in tre anni lo sforamento del tetto del deficit e che egli stesso, in qualità di ministro delle Finanze prima di Sapin, aveva presieduto al mancato raggiungimento dell’obiettivo del 3%.

Le notizie provenienti da Parigi, infine, hanno provocato reazioni spazientite in Germania, facendo riemergere le divisioni che continuano a segnare i rapporti tra i principali paesi europei di fronte a una crisi senza soluzioni in vista.

Secondo la cancelliera Merkel, così, la credibilità della stessa Europa dipenderebbe dalla volontà dei singoli governi di mettere in ordine i propri bilanci, mentre ancora più drastico è stato il numero uno della principale associazione delle aziende esportatrici tedesche, Anton Börner, per il quale se la Francia non dovesse trovare una via d’uscita dalla “spirale verso il basso” in cui si trova, l’Unione e la moneta unica potrebbero essere a rischio.

di Mario Lombardo

Le proteste in corso da alcuni giorni nelle strade di Hong Kong sono proseguite mercoledì anche in occasione del giorno della festa nazionale per il 65esimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, con i festeggiamenti tra le autorità locali e quelle di Pechino andati in scena nel pieno di nuove manifestazioni a cui continuano a partecipare decine di migliaia di persone.

I leader dei movimenti studenteschi hanno chiesto ancora una volta le dimissioni del governatore (“Chief Executive”) della città, Leung Chun-ying, e la possibilità di partecipare nel 2017 a elezioni libere per la carica occupata da quest’ultimo. I manifestanti hanno già invaso molte arterie commerciali di Hong Kong e sempre mercoledì hanno lanciato un ultimatum allo stesso governatore, chiedendogli di rassegnare le dimissioni entro giovedì. In caso contrario si assisterà a un’escalation delle proteste, con possibili tentativi di occupazione dei palazzi governativi.

Le minacce dei leader del movimento di protesta potrebbero mettere così in crisi le autorità cinesi e della stessa città, le quali hanno finora evitato risposte di tipo repressivo, a parte qualche scontro con la polizia domenica scorsa e il ricorso a gas lacrimogeni.

Secondo una fonte anonima citata dal Wall Street Journal, anzi, da Pechino sarebbe arrivata indicazione al governatore Leung di consentire lo svolgimento pacifico delle dimostrazioni, nella speranza che la protesta finisca per sgonfiarsi da sola a causa dei fastidi causati dai disordini alla popolazione e, si potrebbe aggiungere, per la sostanziale mancanza di una prospettiva politica dei gruppi che guidano le manifestazioni.

Come è ormai noto, il focus principale delle proteste in corso a Hong Kong è legato alla decisione presa lo scorso agosto dal governo cinese di consentire le elezioni per la carica di governatore nel 2017 in regime di suffragio universale ma solo con pochi candidati debitamente selezionati da una commissione formata da fedelissimi di Pechino.

Questo nuovo sistema elettorale deve essere approvato dal Consiglio Legislativo della città, nel quale i membri della minoranza del movimento “pan-democratico” - vicino ai manifestanti - hanno di fatto il potere di veto. Se però la proposta cinese dovesse essere bloccata, rimarrebbe in vigore l’attuale sistema, secondo il quale a scegliere direttamente il governatore è un Comitato Elettorale di 1.200 membri, ugualmente dominato da sostenitori del governo centrale.

A prendere parte alle proteste ci sono disparati gruppi studenteschi e di attivisti per i diritti democratici, in gran parte raccolti sotto la denominazione di “Occupy Central”. I vertici di queste formazioni chiedono pressoché esclusivamente la riforma del sistema elettorale e una maggiore partecipazione alla vita politica della regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese.

Dietro alle varie sigle che guidano le dimostrazioni nelle strade della metropoli da oltre 7 milioni di abitanti vi sono però ampi settori della popolazione che avanzano richieste più radicali come reazione all’estrema polarizzazione sociale della ex colonia britannica.

Al di là e ancor più delle questioni elettorali o dell’ingerenza di Pechino nelle faccende della città, alcuni dei temi potenzialmente più esplosivi sono: disuguaglianze di reddito tra le più marcate del pianeta, la povertà che colpisce almeno il 20% degli abitanti di Hong Kong, gli stipendi che ristagnano e una paga minima che non arriva nemmeno ai 4 dollari l’ora, il costo della vita a livelli stratosferici e l’assenza di sussidi di disoccupazione e di un sistema pensionistico pubblico.

Di fronte a una situazione di questo genere è facile comprendere come gli stessi leader della protesta e i politici di opposizione - che, in linea generale, non intendono in nesun modo compromettere lo status speciale garantito a Hong Kong né modificare in maniera sostanziale l’assetto socio-economico attuale - stiano cercando di evitare l’esplosione del conflitto con le autorità e si dicano disponibili alle trattative, sia pure solo a seguito delle dimissioni del governatore Leung.

Da Pechino, invece, nonostante il silenzio quasi totale dei media sulla crisi in atto, c’è grande preoccupazione per i fatti di Hong Kong, principalmente per due ragioni, oltre a quelle connesse all’ovvia importanza finanziaria della città per la Cina. In primo luogo, il governo del presidente Xi Jinping teme che il persistere delle proteste possa produrre un contagio in altre regioni cinesi già inquiete e non solo. Inoltre, il regime “comunista” è preoccupato, con più di una ragione, che l’Occidente, con gli Stati Uniti in prima fila, possa soffiare sul fuoco delle proteste, provando a istigare una sorta di nuova “rivoluzione colorata”.

Indicazioni evidenti in questo senso, in realtà, almeno per il momento non sembrano essercene, se non altro per l’importanza di Hong Kong come porta d’accesso al mercato cinese per il capitale occidentale. Gli Stati Uniti - dove poco più di un mese fa la polizia in assetto da battaglia aveva represso violentemente le manifestazioni pacifiche di Ferguson, nel Missouri - sono comunque intervenuti qualche giorno fa con una dichiarazione di circostanza relativamente cauta, mentre il vice-primo ministro britannico, Nick Clegg, ha convocato l’ambasciatore cinese a Londra per esprimere “il disappunto e l’allarme” del proprio governo.

Sia gli USA sia la Gran Bretagna, tuttavia, stanno con ogni probabilità monitorando con estrema attenzione gli sviluppi delle proteste a Hong Kong per poterle eventualmente sfruttare a proprio favore. L’amministrazione Obama, in particolare, è nel pieno di un’offensiva anti-cinese, messa in atto su vari fronti per contrastare la crescente influenza di Pechino nel continente asiatico.

La creazione o la manipolazione di movimenti democratici di piazza contro governi nemici o non particolarmente graditi è d’altra parte una prerogativa degli Stati Uniti e, per quanto riguarda Hong Kong, svariati leader delle proteste in corso hanno legami molto stretti con politici e organizzazioni occidentali.

L’attenzione americana per questa città è inoltre documentata, visto che, ad esempio, il National Endowment for Democracy (NED) - l’ente no-profit finanziato dal governo che si occupa della promozione della “democrazia” nel mondo o, meglio, di alimentare la sovversione ovunque ciò sia utile agli interessi USA - nel solo 2012 aveva stanziato quasi 500 mila dollari per Hong Kong, con l’obiettivo di “sviluppare le capacità dei cittadini, soprattutto studenti universitari, di partecipare in maniera più efficace al dibattito pubblico sulle riforme politiche”, con particolare attenzione, guarda caso, proprio alla questione del “suffragio universale”.


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