di Michele Paris

In seguito alle crescenti pressioni esercitate da Pechino, il governo giapponese ha alla fine rilasciato il capitano del peschereccio cinese arrestato dopo uno scontro tra imbarcazioni avvenuto nelle acque di un arcipelago conteso tra i due paesi. La rapida escalation del confronto, provocato da un episodio apparentemente di scarso rilievo, ha però improvvisamente fatto emergere tutte le tensioni latenti tra i due vicini, nonostante la loro sempre più stretta interdipendenza economica.

L’episodio scatenante la diatriba risale al 7 settembre scorso, quando il peschereccio del capitano cinese, Zhan Qixiong, sarebbe entrato in collisione con due pattuglie nipponiche nelle acque delle isole Diaoyu (Senkaku per i giapponesi), situate a poco meno di duecento chilometri a est di Taiwan, controllate da Tokyo e rivendicate dalla Cina. In seguito all’incidente, le autorità giapponesi avevano arrestato lo stesso capitano e i membri dell’equipaggio. Mentre questi ultimi sarebbero stati rilasciati poco più tardi, il primo è rimasto agli arresti, provocano sdegnate reazioni cinesi.

Secondo Pechino, i giapponesi non potevano trattenere né processare un cittadino cinese arrestato in acque che la Cina ritiene rientrino nella propria sovranità. Da qui la richiesta di immediata scarcerazione. Per tutta risposta, una corte giapponese aveva emesso un ordine di custodia che prolungava la detenzione del capitano Zhan Qixiong di altri dieci giorni. I cinesi hanno allora alzato il livello dello scontro, affidando ad alcuni alti ufficiali una serie di dichiarazioni minacciose che preannunciavano possibili “serie contromisure” all’inflessibilità di Tokyo.

A conferma della gravità del confronto, la Cina ha successivamente sospeso ogni contatto a livello governativo con il vicino, mentre il premier Wen Jiabao si è esplicitamente rifiutato di incontrare il primo ministro giapponese, Naoto Kan, nel corso dell’Assemblea dell’ONU della scorsa settimana. In ritorsione alla detenzione del capitano cinese, Pechino ha poi anche arrestato quattro cittadini giapponesi, accusati di aver filmato un’installazione militare nella provincia settentrionale di Hebei. Ancora più grave è stato infine, anche se negato da Pechino, il blocco delle esportazioni verso il Giappone delle cosiddette terre rare, minerali impiegati nella fabbricazione di sistemi elettronici fondamentali per l’industria aeronautica e bellica.

Alle minacce cinesi, il governo nipponico ha risposto con dichiarazioni volte a gettare acqua sul fuoco, invitando il potente vicino a seguire la strada del dialogo per la risoluzione della crisi diplomatica. Pochi giorni più tardi è giunta così la liberazione del capitano cinese che ha potuto fare ritorno in patria. Quest’ultimo provvedimento, tuttavia, non ha posto fine al confronto, dal momento che la Cina ha rilanciato chiedendo le scuse ufficiali da parte del governo giapponese che si è però rifiutato di fare ulteriori concessioni a Pechino.

L’intera vicenda esemplifica a sufficienza il dilemma nel quale si dibattono i vertici politici giapponesi nel fronteggiare il crescente peso cinese sulla scena asiatica e planetaria. La recente sfida interna al Partito Democratico giapponese tra il primo ministro Naoto Kan e l’ex segretario Ichiro Ozawa, ad esempio, si è giocata in gran parte proprio sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina e sull’eventuale revisione dei rapporti con l’alleato storico, gli Stati Uniti.

Il Giappone da qualche settimana ha perso ufficialmente il secondo posto nella graduatoria delle potenze economiche mondiali a beneficio della Cina, con la quale mantiene ormai intensissimi legami economici. Questa nuova realtà spinge dunque ampi strati dell’élite politica ed economica giapponese a chiedere un avvicinamento diplomatico a Pechino, a discapito delle relazioni con Washington.

Parallelamente, rimangono fortissime le resistenze di quanti puntano a consolidare la tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, senza cedere terreno all’allargamento dell’influenza cinese nel continente. D’altra parte, è estremamente probabile che l’irrigidimento giapponese sulla detenzione del capitano del peschereccio cinese sia stato in qualche modo appoggiato, se non suggerito, da Washington. Un’ingerenza quella americana che rientrerebbe in un disegno teso a esercitare pressioni sulla Cina su più fronti, all’interno di un’altra crescente rivalità che mette di fronte le prime due potenze economiche del pianeta.

Se ufficialmente l’amministrazione Obama dichiara di voler mantenere ottimi rapporti sia con Tokyo che con Pechino, nei confronti cinesi sono state sollevate recentemente numerose questioni che hanno causato non pochi attriti. In primo luogo c’è la polemica attorno alla manipolazione della moneta cinese da parte delle autorità di Pechino per mantenere competitive le proprie esportazioni. A ciò va aggiunto il polverone diplomatico sollevato da alcune esercitazioni militari condotte dagli USA assieme alla marina sudcoreana nelle acque al largo della costa cinese e l’appoggio fornito dal Dipartimento di Stato americano ai paesi del sud-est asiatico nella contesa con Pechino di alcune isole nel Mar Cinese meridionale.

Così, mentre nell’incontro all’ONU tra Obama e il premier cinese Wen Jiabao è stata sollevata con toni più o meno minacciosi la questione valutaria, che danneggia le esportazioni americane, il cordiale faccia a faccia con il capo del governo giapponese non ha nemmeno preso in considerazione l’intervento delle autorità monetarie di Tokyo che avevano appena provocato la svalutazione dello yen nei confronti del dollaro USA.

Come ha ricordato lo stesso presidente Obama, l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone rappresenta d’altronde “uno dei fondamenti della pace e della sicurezza mondiale”. In altre parole, Tokyo rimane un alleato fondamentale per gli obiettivi egemonici di Washington in Asia. Ciò, nonostante la saldezza dei rapporti fosse stata messa temporaneamente in discussione lo scorso anno, dopo la sconfitta elettorale del Partito Liberal-Democratico che aveva governato il Giappone praticamente in maniera ininterrotta per oltre mezzo secolo, assicurando la costante presenza americana in estremo oriente.

Da parte sua, la Cina non sembra in ogni caso disposta a cedere sulle questioni relative ai propri interessi strategici, della sicurezza nazionale o dell’integrità territoriale. Una situazione che rischia così di alimentare ulteriori tensioni tra le prime tre potenze economiche mondiali in un’area tanto delicata per gli equilibri di potere dell’intero pianeta.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Continuano le defezioni nell'Amministrazione Obama: dopo Christina Romer, ora Larry Summers e Rahm Emanuel si preparano a lasciare il governo. Romer e Summers sono stati i due consiglieri chiave dei due team economici presidenziali, mentre Emanuel è il Capo di Gabinetto, ovvero il factotum di Obama a Washington. Potrebbe essere una mossa disperata di Obama, a picco nei sondaggi in vista delle elezioni parlamentari di Novembre, per dare l'impressione di una discontinuità nel governo.

Secondo Bloomberg News, notizia poi confermata dalla Casa Bianca, Larry Summers avrebbe voluto lasciare già alla fine del 2009, ma su insistenza del Presidente avrebbe accettato di restare un altro anno per gestire gli effetti delle misure economiche prese all'inizio del 2009, ovvero il salvataggio bancario (tre trilioni di dollari) e il piano di stimolo all'economia (787 miliardi di dollari).

In aspettativa dalla sua cattedra di Economia ad Harvard (che perderebbe se posticipasse il suo ritorno oltre gennaio 2011), afferma in una nota che “non vede l'ora di tornare a insegnare e scrivere sui fondamentali della creazione di posti di lavoro e di stabilizzazione della finanza, come anche sull'integrazione dei paesi emergenti nel sistema globale.”

Il consigliere economico è nel mirino dell'ala più liberale del partito democratico sin dal primo giorno, per via delle sue ricette eccessivamente liberiste e dei suoi trascorsi come manager dell'hedge fund D.E.Shaw. Per la sua personalità aggressiva e le frequenti uscite fuori luogo, Summers è sicuramente un personaggio controverso. Segretario di Stato negli ultimi anni della presidenza di Bill Clinton, Summers è stato l'artefice della micidiale deregulation che abolì lo "Glass-Steagall Act", permettendo la creazione delle megabanche, che nel 2008 colarono a picco insieme all'intera economia globale.

Diventato in seguito Presidente dell'Università di Harvard, Summers fu costretto a dimettersi dopo aver dichiarato che “differenze innate tra i sessi spiegherebbero perché poche donne hanno successo nella ricerca scientifica”, attirandosi una pioggia di critiche. Imperdonabile gaffe, che probabilmente gli è costata il posto di Segretario del Tesoro nell'attuale amministrazione.

Solo due settimane fa era andata via anche Christina Romer, primo consigliere economico di Obama. Per motivi familiari. Anche se non è mistero che la Romer era ai ferri corti proprio con Summers. Nonostante la Romer fosse il capo del team economico, pare che il Presidente ascoltasse esclusivamente i consigli del suo rivale, che a volte cercava persino di escludere la Romer dai briefing.

Le dimissioni dei due consiglieri economici (ai ferri corti con l'ala progressista del partito) sono un chiaro segnale di discontinuità nella politica economica americana, che Obama si appresta a ridisegnare in prossimità delle elezioni. Ma in direzione di una svolta ancora più liberista. Secondo fonti di Politico.com il presidente vorrebbe nominare al posto di Summers una donna proveniente dal mondo degli affari, possibilmente un amministratore delegato di una grossa corporation.

Questa scelta toglierebbe mordente alle strampalate accuse repubblicane di essere un presidente socialista, ma sposterebbe ancora più a destra la barra economica. In un momento in cui è chiaro a tutti che l'unico modo per invertire il disastro in cui sta sprofondando l'economia americana è un nuovo e ingente piano di stimolo federale, chiesto quotidianamente da Paul Krugman sulle colonne del New York Times.

Un terzo pezzo grosso sta per lasciare la scacchiera: l'ultima indiscrezione parla delle dimissioni della longa manus di Obama sulla capitale, il Capo di Gabinetto Rahm Emanuel. L'esuberante tuttofare si appresterebbe a lasciare la Casa Bianca per candidarsi alle primarie per il sindaco di Chicago, sua città natale. Per evitare l'accusa di conflitto d’interessi e di usare la sua carica per influenzare le primarie, Rahm potrebbe andarsene già all'inizio di Ottobre. Facendo felici molti democratici dell'ala sinistra del partito, che mal sopportano i modi sgarbati e irruenti di Emanuel.

Durante la battaglia per la riforma sanitaria, infatti, il Capo di Gabinetto arrivò a bollare come “fottutamente ritardati” i membri del gruppo progressista del Congresso. Prendendosi parole persino da Sarah Palin, che pretese delle scuse per il suo figlio ultimogenito affetto da sindrome di Down. L'uscita di scena di Emanuel rappresenta una grossa gatta da pelare per Obama, che si è affidato ai suoi modi bruschi per torcere le braccia dei senatori e raccattare i voti necessari per approvare la rifoma sanitaria.

Anche se le tre defezioni sono tra le persone meno gradite ai progressisti, sembra assai improbabile che la situazione possa migliorare. Obama sta cercando, infatti, di dare l'impressione di un cambiamento di strategia, per non prestare il fianco alle accuse di socialismo provenienti dalla destra repubblicana in vista delle elezioni. Le nuove nomine dunque saranno pesate sul piatto del gradimento da parte delle grandi banche e delle multinazionali, in una rincorsa a destra che preannuncia un ulteriore aumento della disoccupazione e un protrarsi della crisi verso uno scenario di deflazione.

di Carlo Musilli

Tutta la vita all’ombra del fratello per superarlo, alla fine, nel momento più importante. La leadership del Labour Party britannico è diventata un affare di famiglia pochi giorni dopo le dimissioni di Gordon Brown, schiacciato dal disastro elettorale alle politiche del sei maggio scorso. Cinque in tutto i candidati alle primarie, ma è stato subito chiaro che la vera partita si giocava tra i fratelli David e Ed Miliband, ex ministri del governo Brown, rispettivamente degli Esteri e dell’Ambiente. David, il maggiore, era super favorito. Ma ha vinto Ed.

Il meccanismo delle elezioni è semplice. Votano tre collegi: membri del partito, deputati della Camera dei Comuni e del Parlamento Europeo, sindacati e associazioni affiliate. Ed è stato eletto al quarto turno. Nei primi tre David era sempre stato in testa, senza però riuscire a toccare quota 50%, necessaria per la vittoria. Man mano che venivano fatti fuori gli altri candidati (Diane Abbott, unica parlamentare britannica nera, Andy Burnham e Ed Balls, ex ministri rispettivamente di Sanità e Istruzione), i voti si ridistribuivano. Alla fine Ed l’ha spuntata col 50,65% dei voti, contro il 49,35% del fratello.

Determinanti sono stati i sindacati. Fino all’ultimo, iscritti al partito e deputati sono stati uniti nel sostenere David, ma alla fine le Unions hanno votato in modo tanto sbilanciato da consentire al fratellino di rimontare e vincere sul filo di lana. Ed deve il suo nuovo incarico esclusivamente a loro. E questo ha messo paura ai moderati inglesi. Hanno cominciato a parlare di “Ed il Rosso”, “prigioniero dei sindacati”. Insinuazioni che il giovane leader non ha apprezzato: “Non sono l’uomo di nessuno - ha detto - l’era [blairiana, ndr] del New Labour fa parte del passato”, ma “non ci sarà nessuna svolta a sinistra”. Non sia mai.

In ogni caso, non c’è dubbio che Ed sia più spostato a sinistra rispetto al fratello. Eppure, partivano da solide basi comuni. I genitori erano una coppia di ebrei polacchi fuggiti in Gran Bretagna durante la guerra. Papà, Ralph Miliband, era un noto filosofo marxista; mamma, Marion Kozak, un’accademica di uguale ortodossia “rossa”. David e Ed (4 anni di differenza) hanno frequentato lo stesso prestigioso liceo, lo stesso prestigiosissimo college. Sono entrati nel partito laburista e sono diventati parlamentari.

Poi però, i loro percorsi hanno iniziato a divergere. David è diventato consigliere di Blair ed ha sostenuto la guerra in Iraq, mentre Ed ha optato per Brown e ha definito il conflitto “un errore gravissimo”. David è regolarmente sposato e manda i suoi figli in una scuola cattolica. Ed, invece, convive e si proclama ateo. David piace all’establishment, Ed ai giovani, ai pacifisti, agli ambientalisti.

Quando apre bocca, Ed vuole essere sicuro che tutti capiscano. Piuttosto netta, ad esempio, la sua posizione sui Lib-Dem alleati di Cameron: “Nick Clegg ha voltato le spalle alla tradizione liberale”. L’obiettivo ultimo del nuovo leader sembra essere una riedizione del capitalismo dal volto umano: “Io sono socialista - spiega - perché critico le ingiustizie che il capitalismo crea”. Ed dice di voler combattere le “grandi ingiustizie che si riscontrano in Gran Bretagna, molte delle quali affliggono la classe media”, sottolineando che “non bisogna essere di sinistra per capire che alcuni eccessi dell’alta società sono sbagliati e ingiustificati”. Che fare, dunque? Ed propone di aumentare le tasse ai più ricchi e alle banche, di alzare i salari minimi per ridurre le disparità sociali, di gestire la spesa pubblica con la massima cura. Siamo proprio sicuri che non ci sia nessuna (relativa) “svolta a sinistra”?

Quanto ad azioni concrete per il prossimo futuro, Ed ha precisato che non si opporrà “a ogni taglio proposto dal governo”, perché il deficit pubblico va ridotto, ma bisognerà farlo a “un ritmo prudente”. Quest’ultima frase ci fa tornare alla realtà delle cose. Ed ha vinto solo le primarie. Se una nuova fase si è davvero aperta in Gran Bretagna, almeno per il momento, è una fase d’opposizione.  

di Fabrizio Casari

Le elezioni legislative venezuelane di domenica prossima rappresentano un banco di prova importante per il paese caraibico. L’elemento di maggiore novità è rappresentato dal ritorno alla competizione elettorale dell’opposizione (MUD), che nella precedente tornata aveva deciso di non partecipare. La scusa, allora, era quella di non avere le garanzie sufficienti sul piano della regolarità della consultazione, ma la verità era un’altra: divisi e incapaci di capitalizzare politicamente le contraddizioni del paese, a fronte di risultati più che positivi sul terreno delle conquiste sociali ad opera del governo, non erano riusciti a trovare una figura all’altezza della sfida con il Presidente Chavez. E, sapendo di combattere una competizione già persa in partenza, decisero di utilizzare anche la scadenza istituzionale per tentare di gettare ulteriore discredito internazionale sul governo bolivariano.

Del resto, il golpe frustrato del 2002, i sabotaggi petroliferi e la propaganda folle, insieme alla mancanza di una figura leaderistica, non avevano reso l’opposizione un investimento credibile persino per i contrari al chavismo. La sigla che hanno scelto i nemici della rivoluzione (MUD - Mesa Unitaria Democratica) potrà anche evocare una sorta di unità, ma il fatto è che l’opposizione, lungi dall’essere percepita come un’alternativa politica, continuava - e in parte continua ancora - ad essere identificata come una masnada di personaggi dal dubbio passato e dall’incerto futuro, a fronte dei chiari interessi privati del presente.

Oggi, pur in assenza di significative variazioni, tanto in termini di spazi politici come di garanzie della correttezza nelle operazioni di voto (c'erano entrambi anche allora), la stessa opposizione che diceva di non usufruire di spazi e garanzie torna a sottoporsi al verdetto delle urne, confidando in un risultato che, quale che sia, certifichi la sua esistenza in vita e giustifichi il proseguimento di aiuti e prebende che l’Amministrazione Obama assegna generosamente.

In questo senso, anche una sconfitta che non avesse i termini della disfatta, tornerebbe utile per rilanciare la questua e la querula che, insieme alla diffamazione ed alla cospirazione, sono gli elementi fondamentali dell’attività politica e propagandistica antigovernativa. La decisione di rientrare nel gioco elettorale, del resto, è stata presa a Washington. L’Amministrazione Obama non è quella Bush e le operazioni di destabilizzazione del Venezuela possono essere incrementate solo giocando di sponda con un’opposizione formale che possa essere indicata internazionalmente come interlocuzione. Dunque, l’opposizione deve dimostrare di esistere.

Perché se si vuole che i finanziamenti illegali continuino a pervenire via Ned e Usaid, se si vuole insistere con la propaganda squallida travestita da informazione via CNN e Fox, se si vogliono incrementare le azioni di destabilizzazione terroristica via Miami e, si si pensa di voler aumentare la pressione militare tramite la IV Flotta e l’utilizzo dell’apparato militare colombiano, è necessario che il paese di Simon Bolivar appaia diviso in due, con un governo “nemico” ed una opposizione “amica”.

In assenza del primo, per gli Usa non ci sarebbe modo di giustificare l’ingerenza attiva, in assenza della seconda l’intervento apparirebbe solo un attacco esterno finalizzato alla propria volontà di dominio politico e saccheggio energetico, risultando per ciò immotivabile ed immotivato; comunque difficile da gestire politicamente, soprattutto a livello continentale.

Poi, come è ovvio, la Casa Bianca non nasconde i suoi interessi. Dover dipendere da Chavez per il 23% del suo consumo energetico non aiuta la serenità statunitense e, non a caso, il progetto al quale si lavora incessantemente negli ultimi anni, è quello di tornare a gestire le riserve energetiche di Messico, Venezuela, Ecuador e Bolivia a parziale garanzia di fronte all’instabilità del quadro mediorientale e del Golfo Persico. Perché questo accada, va fermato il processo politico indipendentista latinoamericano e, per questo, in primo luogo Chavez, che ne è soggetto centrale sotto il profilo economico e politico.

Ma entriamo nel merito tecnico della consultazione. Si vota per eleggere la nuova Asamblea Nacional (Parlamento). Sono 165 i seggi a disposizione, dei quali 110 vengono eletti nominalmente, 52 sono indicati direttamente dai partiti che partecipano al voto e 3 sono la rappresentanza indigena. Ognuno dei 24 Stati che compongono la nazione, sceglie la combinazione dei deputati eletti nominalmente, nominati dai partiti e, in quota parte, della rappresentanza indigena. Vincere le elezioni significa però avere una maggioranza di 110 deputati, dal momento che secondo Costituzione, le leggi di maggiore importanza devono essere votate dai due terzi del Parlamento

L’obiettivo non dichiarato degli oppositori è, appunto, quota 56. Proprio per il consenso parlamentare di cui il Presidente ha bisogno per governare, infatti, se l’opposizione riuscisse ad avere almeno 56 deputati si profilerebbe uno schieramento parlamentare che non potrebbe non incidere sul cammino di Chavez da ora fino alle presidenziali del 2012. Se l’opposizione raggiungesse quota 56, obbligherebbe infatti Miraflores a negoziare su tutto. Si darebbe luogo, in questi prossimi due anni, ad una presidenza “zoppa”, che vedrebbe retrocedere i progetti di ulteriore crescita sociale e di lotta alle disuguaglianze e che si rifletterebbe, inevitabilmente, in un robusto stop per il processo bolivariano.

I diversi sondaggi indicano incertezza se sono realizzati dagli istituti statunitensi, ma ciò che sembra possibile è un notevole grado di astensione. Analisti e inchieste convergono su un’affluenza al voto di 10 milioni di venezuelani sui 17 milioni aventi diritto. Difficile dire chi pagherebbe il prezzo più alto di questa assenza dal voto, ma non ci sono indicazioni di una possibile affermazione dell’opposizione.

Perché oltre che sull’idea di sovranità nazionale, sul piano politico lo scontro è davvero su due diverse priorità. L’opposizione rivendica libertà di stampa (senza dire che possiede la stragrande maggioranza di ciò che si pubblica, si vede e si ascolta nei diversi media: più di seicento radio e 40 emittenti televisive) pluralismo (ma sono diversi i partitini che la compongono) e sicurezza nelle strade (e qui, effettivamente, il problema c’è). Un programma disegnato su misura della media e grande borghesia venezuelana.

All’opposto, il governo parla di inclusione sociale e partecipazione popolare alla politica, di utilizzo dei proventi petroliferi per rafforzare il welfare, di programmi sociali  di crescita per i settori più poveri della popolazione. Progetti che, in qualche modo, sono stati realizzati in questi undici anni, dimostrando coerenza tra parole e fatti. A sostenerlo ci sono numeri numeri difficili da contestare: alimentazione e salute in primo luogo, garantita al 75% della popolazione; stroncato l’analfabetismo, istruzione superiore all’83 per cento della popolazione (dietro a Cuba ma davanti ad Argentina, Cile ed Uruguay) e quinta a livello mondiale, preceduta solo da Francia, Inghilterra, Spagna, Giappone e Cina. Mai, nella storia del venezuela, le classi disagiate hanno avuto sostegno economico, inclusione sociale e ruolo politico come con la presidenza di Hugo Chavez. 

Questo non elimina i ritardi e le inefficienze governative: inefficienza e corruzione della pubblica amministrazione, violenza e insicurezza per le strade, cattiva gestione delle risorse alimentari, non sono certo dettagli. Ma non è detto che, pure rilevanti, siano decisivi nel sostenere i sogni del MUD, che forte dell’appoggio delle gerarchie ecclesiali, delle Ong europee (olandesi e spagnole in particolare) e dell’apparato finanziario e mediatico statunitense, continuano in buona parte del paese ad apparire come un’ammucchiata rissosa e competitiva al suo interno.

Se queste elezioni si configureranno come l’ennesima vittoria elettorale del socialismo bolivariano o l’inizio della rimonta elettorale dell’opposizione, saranno i numeri a dirlo. Un successo dell’opposizione imporrebbe certamente al Presidente Chavez una virata significativa su alcuni aspetti legati al modo di governare le contraddizioni del paese. Ma una sua eventuale dodicesima vittoria elettorale in undici anni di bolivarismo, taciterebbe tutti. Anche i corvi che volano da Miami a Caracas sarebbero costretti, silenti, al volo di ritorno.

di Michele Paris

Con il probabile prossimo cambio della maggioranza in almeno uno dei due rami del Congresso USA dopo le imminenti elezioni di medio termine, un altro turnover sta andando silenziosamente in scena negli uffici delle principali lobby di Washington. Se il trionfo democratico del 2008 aveva spalancato le porte a centinaia di ex parlamentari e membri influenti del nuovo partito di maggioranza verso lucrosi incarichi di “consulenza”, il cambiamento del clima politico nella capitale USA sta ora invece scatenando una corsa all’assunzione di impiegati con solidi agganci nell’establishment repubblicano.

Mentre l’appuntamento elettorale del 2 novembre prossimo non sta comprensibilmente suscitando l’interesse della maggioranza dei cittadini americani, i quali comunque vada il voto non troveranno risposte ai loro problemi, lo stesso non si può dire per le compagnie di lobby che affollano Washington. Su K Street - l’arteria lungo la quale hanno sede numerose aziende che promuovono gli interessi dei grandi gruppi economici al Campidoglio - si presta infatti grande attenzione agli equilibri di potere tra i due partiti che dominano la scena politica americana.

Secondo un recente articolo del New York Times, che chiarisce a sufficienza a chi rispondono i rappresentanti del popolo una volta eletti al Congresso, per i repubblicani in odore di vittoria sono pronte proposte di impiego nel settore privato che garantiscono salari dai 300 mila fino al milione di dollari. Un’opportunità molto allettante se si pensa che solo fino a pochi mesi fa la cattiva sorte del Partito Repubblicano aveva chiuso le porte dei gruppi di interesse e delle lobby private agli ex congressmen di minoranza e ai membri dei loro staff. Oggi, al contrario, il vento sta rapidamente cambiando direzione.

Un parlamentare con qualche anno di esperienza sulle spalle rappresenta d’altra parte la scelta ideale per le lobby americane. Con una rete di amicizie al Congresso alle quali chiedere favori, qualche contatto con leader di paesi esteri e magari un nome prestigioso da poter esibire nei corridoi del potere, il politico diventato lobbista incarna il tramite perfetto tra le corporation e i politici ben disposti ad assecondare i loro interessi.

I leader repubblicani, in caso di successo, hanno poi già promesso di voler mettere mano ad alcuni dei provvedimenti più significativi approvati dai democratici in questo biennio, primi fra tutti le pseudo riforme del sistema sanitario e di Wall Street. In questo caso allora, disporre di uomini fidati in grado di assicurarsi una corsia preferenziale verso i nuovi vertici di maggioranza diventerà fondamentale per le lobby statunitensi.

Come per il recente passato, nuovi dibattiti su leggi importanti determineranno così una nuova pioggia di dollari sulle compagnie di consulenza di Washington. Tra il 2009 e il 2010, secondo i dati ufficiali, le corporation americane hanno già speso 3,5 miliardi di dollari che hanno gonfiato i redditi di ben 13 mila lobbisti.

La campagna acquisti di lobby e colossi privati tra i repubblicani è già in corso da tempo, come ricorda ancora il Times. JPMorgan, ad esempio, avrebbe ingaggiato l’influente ex senatore della Florida Mel Martinez, dimessosi dal Congresso nell’estate dello scorso anno per perseguire una più redditizia carriera di lobbista. Robert Wilkie, importante funzionario del Dipartimento della Difesa durante l’amministrazione Bush, è finito invece sul libro paga del gigante delle costruzioni C2M Hill, mentre la canadese Research In Motion, nota per aver sviluppato lo smartphone BlackBerry, ha sostituito tra i suoi dirigenti un democratico con un ex assistente del deputato repubblicano della California Darrell Issa.

Se molte compagnie cercano di assicurarsi i servizi di ex politici appartenenti al partito di volta in volta al potere, altre operano in maniera costantemente bipartisan. Per evitare sorprese ed avere una regolare collaborazione con maggioranza e opposizione, alcune lobby preferiscono mantenere costantemente uno staff formato da esponenti di entrambi i partiti.

Il dilagare ormai incontrollato di queste pratiche non trova praticamente alcun ostacolo nei debolissimi regolamenti adottati dai due rami del Parlamento statunitense. Mentre il Senato proibisce almeno tutti i contatti tra l’intero corpo della camera alta e i lobbisti per un anno da quando questi ultimi hanno abbandonato l’attività politica, alla Camera dei Rappresentanti le regole sono molto più elastiche. Qui, infatti, ai nuovi lobbisti è vietato entrare in contatto per un anno solo con i membri dell’ufficio per cui lavoravano e non con gli altri membri della camera bassa.

Il passaggio dal Congresso alle fila di lobby o corporation rappresenta ormai quasi un percorso obbligato a Washington. Durante gli anni trascorsi alla Camera o al Senato i politici di entrambi gli schieramenti elargiscono favori a quelle stesse grandi compagnie private che di lì a breve li assolderanno a tempo pieno, gratificandoli con stipendi a sei zeri per il servizio svolto nei loro incarichi elettivi.

Comunque vadano le elezioni, dunque, ciò che accadrà al Congresso degli Stati Uniti nei prossimi due anni appare già segnato. Sia che la maggioranza resterà ai democratici o passerà invece ai repubblicani, quel che è certo è che gli unici a veder rappresentati i propri interessi a Washington saranno sempre i poteri forti che continuano a manipolare la scena politica americana.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy