Un rapporto pubblicato questa settimana da una commissione del Senato di Washington ha sollevato ancora una volta la questione delle possibili complicità dentro l’apparato della “sicurezza nazionale” americano con il fallito colpo di stato dell’allora presidente Trump nel gennaio del 2021. Gli elementi portati alla luce dai membri della maggioranza del Partito Democratico risultano pesantemente incriminanti, ma il tono complessivo dell’indagine e della presentazione dei risultati fa pensare a un nuovo sforzo per insabbiare le responsabilità di quanto accaduto al Campidoglio ormai quasi trenta mesi fa.

 

Il fulcro della questione sollevata dalla commissione per la Sicurezza Interna della camera alta del Congresso USA è la sostanziale confutazione della tesi, prevalente a Washington, della sola responsabilità di Trump e, tutt’al più, dei suoi più stretti collaboratori nei fatti del 6 gennaio 2021. Anche se nessuno dei senatori che compongono la commissione lo ha affermato in maniera esplicita, le implicazioni sono abbastanza chiare.

La mole di informazioni a disposizione degli organi responsabili della sicurezza interna prima dell’assalto dei sostenitori di Trump all’edificio del Congresso non lasciava spazio a molti dubbi su quello che sarebbe accaduto. Ciononostante, non furono presi provvedimenti preventivi né emessi comunicati ufficiali per segnalare i pericoli a cui sarebbero andati incontro i partecipanti alla procedura di ratifica del successo nelle elezioni presidenziali di Joe Biden.

Questo atteggiamento di passività suggerisce dunque un livello più o meno diffuso di sostengo all’operazione progettata da Trump nell’apparato governativo americano. Anche perché le informazioni più recenti si aggiungono a una montagna di prove apparse nei mesi scorsi della quasi certa connivenza, se non della partecipazione attiva al complotto trumpiano, di personalità nella sfera militare, politica e giudiziaria.

“Pianificato alla luce del giorno” è il significativo titolo del rapporto stilato dai soli membri democratici della commissione per la Sicurezza Interna del Senato USA. Lo scopo era di passare in rassegna le “carenze” e gli “errori” dell’FBI e della sezione dedicata all’Intelligence e all’Analisi (I&A) del dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) nella valutazione dei rischi emersi alla vigilia dell’assalto al Campidoglio. Il presidente della commissione, senatore Gary Peters, ha spiegato che, nonostante fossero giunte a entrambi gli uffici “molte informazioni credibili” di possibili azioni violente, non fu emesso nessun comunicato di allarme per mettere in allerta le forze di polizia.

Informazioni abbastanza precise circa la mobilitazione in atto nelle settimane precedenti e le intenzioni dei partecipanti erano state raccolte tramite il monitoraggio dei social media e grazie alla presenza di informatori infiltrati nelle varie organizzazioni di estrema destra pronte a marciare su Washington. All’FBI era ad esempio noto che la milizia neofascista dei “Proud Boys” stava pianificando la trasferta nella capitale, dove, come veniva spiegato negli scambi di messaggi tra i suoi membri, si prevedeva “letteralmente di uccidere delle persone”.

Ciò avveniva già a dicembre 2020, in concomitanza con l’intercettazione da parte degli analisti della I&A di commenti tra i sostenitori di Trump nei quali si discuteva dell’uso di armi e di obiettivi da attaccare, come gli agenti delle forze di sicurezza e l’edificio del Congresso. Un altro indizio esplicito citato dal rapporto della commissione è un post individuato in rete dall’FBI il cui autore assicurava che il 6 gennaio non sarebbe andata in scena una protesta ma la “resistenza finale” dei sostenitori di Trump, intenzionati a “tracciare una linea rossa a Capitol Hill”. Nessuno avrebbe dovuto sorprendersi, quindi, se i rivoltosi avessero finito col “prendere l’edificio del Congresso”.

Molte altre informazioni erano a disposizione di FBI e I&A per prevedere l’uso diffuso di armi e la seria minaccia alle forze di polizia e ai politici riuniti per ratificare la vittoria di Biden. Malgrado il materiale raccolto nelle settimane e nelle ore precedenti l’assalto, nessuna agenzia governativa aveva ritenuto “credibili” le minacce e, di conseguenza, la mattina del 6 gennaio 2021 il Centro Operativo Nazionale del dipartimento per la Sicurezza Interna scrisse che non vi era nessuna indicazione di possibili episodi di contestazione né, tantomeno, di rivolta.

Sempre nel rapporto della commissione del Senato si spiega come l’FBI abbia agito in violazione delle sue stesse regole. Infatti, gli agenti del “Bureau” sarebbero in teoria obbligati a catalogare ogni indizio o soffiata ricevuta, “indipendentemente dall’attendibilità”. Al contrario, molte informazioni relative ai fatti del 6 gennaio non sono presenti nel sistema di raccolta e segnalazione dell’FBI. I funzionari interrogati dai membri della commissione hanno asserito di avere riportato “verbalmente” le informazioni mancanti, ma è del tutto possibile che siano state invece cancellate dal sistema per insabbiare probabili complicità.

Per quanto riguarda il dipartimento per la Sicurezza Interna, risultano addirittura comunicati distribuiti alle varie agenzie governative volti a minimizzare i pericoli derivanti dall’annunciata marcia dei sostenitori di Trump. La mattina del 6 gennaio, gli analisti del I&A avevano rilevato la possibilità di svariate dimostrazioni a cui avrebbero preso parte fino a 30 mila persone. Tra i manifestanti, ricondotti a organizzazioni estremiste come i già ricordati “Proud Boys”, ve n’erano molti con equipaggiamenti da guerriglia, ma ugualmente non vennero diramati messaggi particolari di allerta. Solo nel pomeriggio, quando l’assalto al Congresso era già in corso, al DHS circolavano mail di allarme, ma sarebbero rimaste all’interno del dipartimento nonostante il caos registrato al Campidoglio e le richieste di aiuto diramate da politici e agenti di polizia.

Prevedibilmente, gli elementi oggettivi esposti nel rapporto della commissione del Senato hanno portato i suoi autori a trarre conclusioni in larga misura fuorvianti. I problemi sarebbero cioè da ricondurre alla mancata capacità di collegare le varie informazioni a disposizione e allo scarso coordinamento tra le agenzie coinvolte. Identica giustificazione era stata offerta al pubblico dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, fondamentalmente per occultare una realtà più problematica.

Va ricordato che l’amministrazione Bush decise di creare il dipartimento per la Sicurezza Interna nell’autunno del 2002 al preciso scopo di superare i problemi di coordinamento e condivisione delle informazioni sulle minacce terroristiche negli Stati Uniti. Dopo due decenni, invece, gli stessi problemi sembrano ostacolare la prevenzione di episodi di violenza e le minacce alle istituzioni americane. In realtà, il “fiasco” dell’FBI e del DHS nelle vicende del 6 gennaio 2021 è da attribuire quasi certamente alla presenza in entrambe le agenzie di simpatizzanti dell’allora presidente uscente Trump, pronti a chiudere un occhio o a collaborare con i suoi piani eversivi.

La classe politica americana, inclusa l’amministrazione Biden e il Partito Democratico, non hanno nessuna intenzione di fare luce sulle complicità dentro il governo americano. L’obiettivo resta piuttosto, da un lato, di attribuire al solo Trump la responsabilità del quasi golpe e, dall’altro, di salvaguardare la reputazione dell’apparato della “sicurezza nazionale”, il cui consenso e appoggio resta fondamentale per la stabilità del sistema di potere degli Stati Uniti.

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