Le vicende giudiziarie del figlio del presidente degli Stati Uniti, Hunter Biden, continuano a essere al centro dello scontro politico americano a pochi mesi dall’inizio della stagione elettorale 2024 che minaccia di essere dominata dai guai legali dei due candidati che quasi certamente si sfideranno per la Casa Bianca. Il secondogenito di Joe Biden si è visto annullare questa settimana da un giudice federale il patteggiamento che aveva concordato con la procura dello stato del Delaware per evitare un’accusa relativamente grave legata al possesso illegale di un’arma da fuoco.

Questi ultimi sviluppi hanno colto di sorpresa gli ambienti politici di Washington, dove il caso ha infiammato ancora di più le polemiche nell’ala del Partito Repubblicano più vicina a Donald Trump e che chiede un procedimento di impeachment contro l’attuale inquilino della Casa Bianca. L’eventuale incriminazione del presidente sarebbe collegata a questioni diverse che riguardano la famiglia Biden, ma durante il dibattito di mercoledì nel tribunale del Delaware sono emersi elementi che ad esse si ricollegano direttamente. Inoltre, la mancata ratifica del patteggiamento ha gettato benzina sul fuoco del conflitto politico in atto.

 

I legali di Hunter Biden avevano raggiunto un accordo con il procuratore federale del Delaware, David Weiss, secondo il quale il figlio del presidente si sarebbe dichiarato colpevole di due reati fiscali minori in cambio della sospensione del già ricordato capo di imputazione legato all’acquisto di una pistola, avvenuto nel 2018. Il possesso dell’arma è oggetto appunto di un procedimento di incriminazione perché Hunter Biden era stato condannato per reati di droga e ha più volte ammesso la sua dipendenza da stupefacenti.

Il patteggiamento prevedeva un periodo di astinenza da droghe di due anni, al termine del quale l’accusa per il possesso illegale dell’arma sarebbe stata archiviata. Nelle pieghe dell’accordo si nascondeva tuttavia un dispositivo che, al termine dei due anni, avrebbe permesso a Hunter Biden di vedere cancellate anche le accuse più serie che lo minacciano, sia dal punto di vista legale che politico, ovvero di avere violato la legge USA sulla registrazione presso il governo federale degli “agenti stranieri” (“FARA Act”). L’accusa si riferisce alla presunta intercessione di Joe Biden nella promozione degli affari di una società ucraina e di una cinese per cui Hunter ha lavorato.

Il giudice distrettuale Maryellen Noreika, tenuta all’oscuro di questa condizione concordata tra la procura e i difensori di Hunter Biden, si è opposta al patteggiamento, per poi denunciare anche un altro dei termini in esso contenuti, cioè che essa stessa avrebbe dovuto verificare e approvare le condizioni di Hunter Biden al termine dei due anni di prova. Per Noreika, questa disposizione violerebbe il principio costituzionale della separazione dei poteri, mettendo a rischio l’immunità offerta a Hunter Biden, visto che la sorveglianza sull’accusato spetterebbe all’esecutivo, ovvero alla procura.

A far saltare il patteggiamento è stata però soprattutto la circostanza relativa all’occultamento della possibile archiviazione delle accuse riconducibili agli affari di Hunter Biden in Ucraina e in Cina. Il gioco sporco del procuratore e della difesa ha scatenato un accesissimo dibattimento in aula, fino a quando il primo, messo alle strette dal giudice Noreika, ha fatto un passo indietro ammettendo che le indagini in corso sul figlio del presidente in base al “FARA Act” sarebbero proseguite nonostante la dichiarazione di colpevolezza relativa ai due reati fiscali. A questo punto, i legali di Biden jr. hanno di fatto rinunciato al patteggiamento e il loro assistito si è dichiarato “non colpevole” dei reati contestatigli. La vicenda rimane comunque sospesa, dal momento che il giudice ha dato alle parti 30 giorni di tempo per raggiungere un accordo appropriato.

In Ucraina, Hunter Biden era stato nominato nel consiglio di amministrazione della compagnia energetica Burisma malgrado non avesse nessuna esperienza del settore. Il proprietario, l’oligarca Mykola Zlochevsky, puntava evidentemente a ottenere favori dal governo americano, anche perché, all’epoca, all’allora vice-presidente Joe Biden era stato assegnato da Obama il “file” ucraino. Nel 2019, furono proprio le pressioni su Zelensky per fare luce sul caso Burisma a condurre al primo procedimento di impeachment contro Donald Trump. Hunter Biden era in affari anche con una società cinese che, secondo i suoi accusatori, gli avrebbe fruttato milioni di dollari, finiti in parte nelle tasche del padre.

La decisione del giudice Noreika e gli altri procedimenti in cui è coinvolto Hunter Biden stanno incoraggiando quanti, nel Partito Repubblicano, intendono sfruttare politicamente i problemi legali della famiglia del presidente. Un’altra vicenda che vede al centro dell’attenzione il figlio di Joe Biden è quella delle informazioni rinvenute su un computer portatile di sua proprietà mai ritirato da un negozio di riparazioni nel Delaware. Anche in questo caso, Hunter rischia un’incriminazione da parte della giustizia federale.

L’ipotesi di puntare su un possibile impeachment al Congresso si sta facendo strada probabilmente anche tra gli ambienti repubblicani meno estremi. Lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Kevin McCarthy, aveva fino a poco tempo fa sempre respinto le pressioni della destra del partito per aprire un procedimento di incriminazione del presidente. Qualche giorno fa è intervenuto invece pubblicamente per avvertire che le informazioni incriminanti nei confronti della famiglia Biden stanno sempre più diventando possibile materia di impeachment.

Come per i due casi che hanno visto protagonista Trump, anche un eventuale impeachment di Biden non andrebbe con ogni probabilità a buon fine. Non solo i democratici conservano la maggioranza al Senato, ma nella stessa Camera ci sarebbe un sufficiente numero di repubblicani contrari all’incriminazione del presidente. La minaccia dell’impeachment sembra essere piuttosto un’arma politica che il Partito Repubblicano agita in risposta ai guai legali in cui è coinvolto Trump. In particolare, a breve potrebbero essere formulate accuse formali nei confronti dell’ex presidente in relazione all’assalto all’edificio del Congresso il 6 gennaio 2021.

Se Trump dovesse finire alla sbarra con accuse in questo caso molto gravi, è possibile che i repubblicani aprirebbero a loro volta un procedimento contro Biden, esposto quindi a gravi rischi politici anche solo dall’indagine che scaturirebbe per fare luce sugli affari della sua famiglia. Un aspetto pericoloso per il presidente democratico potrebbe essere rappresentato dalla rivelazione delle manovre, come quelle emerse nella recente udienza nel tribunale del Delaware, che sembrano essere state messe in moto per proteggere i suoi famigliari e per tenere nascosti possibili prove imbarazzanti o incriminanti. Un’anticipazione di ciò si è avuta settimana scorsa, quando due funzionari dell’agenzia delle entrate USA (IRS) durante un’udienza al Congresso hanno rivelato che le indagini del Dipartimento di Giustizia su Hunter Biden sono state per anni caratterizzate da scorrettezze e favoritismi politici.

Appare così del tutto reale l’ipotesi che la prossima campagna elettorale per la Casa Bianca si svolgerà con il presidente in carica – o la sua famiglia – e il suo sfidante coinvolti in seri procedimenti legali. Un’eventualità che non farebbe che confermare la crisi irreversibile del sistema politico americano, tanto più che, in presenza di cause o processi non ancora risolti, chiunque sarà eletto vedrebbe subito messa in discussione la legittimità del proprio mandato alla presidenza degli Stati Uniti.

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