Le elezioni presidenziali di sabato a Taiwan hanno rispettato l’esito previsto da tutti i sondaggi della vigilia, assegnando un terzo storico mandato consecutivo al Partito Progressista Democratico (DPP) indipendentista. Il successo del candidato alla presidenza, l’ex premier e attuale vice-presidente Lai Ching-te, prospetta quindi un altro periodo di tensioni con la Cina e consente agli Stati Uniti di continuare a disporre di uno strumento per fare pressioni su Pechino nel quadro della rivalità multidimensionale in atto in Estremo Oriente. L’affermazione del DPP ha avuto però dimensioni molto più ridotte rispetto alla precedente consultazione e indica un logoramento del consenso per le politiche di confronto con la madrepatria cinese, nonché uno spazio di manovra più ristretto per il presidente e il suo partito.

 

Lai ha vinto senza ottenere la maggioranza assoluta dei votanti, dal momento che il sistema elettorale taiwanese prevede l’assegnazione della presidenza al candidato che semplicemente riceve il maggior numero di voti, senza necessità di ballottaggio. Il leader del DPP ha chiuso al 40%, pari a poco più di 5,5 milioni di voti, meno di quelli combinati dei due principali rivali, Hou You-yi del Kuomintang (33,5%; 4,6 milioni) e Ko Wen-je del Partito Popolare di Taiwan (26,5%; 3,7 milioni). Hou e Ko erano andati vicini alcune settimane fa a un accordo per la presentazione di un solo candidato, che avrebbe probabilmente determinato la sconfitta del DPP, ma avevano alla fine fallito nel trovare un’intesa, presentandosi separatamente e consegnando di fatto la vittoria a Lai.

Come accennato all’inizio, il candidato del DPP ha fatto segnare numeri nettamente peggiori rispetto alla presidente uscente, Tsai Ing-wen, che nelle elezioni del 2020 aveva superaro quota 57% e più di 8 milioni di consensi. Anche nel voto per il rinnovo dei 113 membri del parlamento unicamerale di Taiwan (“Yuan legislativo”) il DPP risulta in flessione. Dai 62 seggi che gli garantivano la maggioranza assoluta, il partito del presidente è sceso a 51, così che l’azione di governo sarà ora decisamente più complicata.

Il partito che ha incassato il maggior numero di seggi è il Kuomintang (KMT) con 52, ma anch’esso non avrà la maggioranza assoluta, possibile invece con l’aggiunta dei deputati del Partito Popolare (TPP), comunque lontano dai risultati auspicati dai suoi leader e fermatosi a 8 seggi. Sui nuovi equilibri in parlamento e sulla scelta del presidente ha pesato in primo luogo la crisi nei rapporti con la Cina, alimentata in larghissima parte dagli Stati Uniti. Nonostante un quadriennio caratterizzato dalla promozione di politiche nazionaliste e di continue provocazioni nei confronti di Pechino, fino a mettere in discussione lo status quo stabilito con il cosiddetto “Consenso del 1992”, la maggioranza della popolazione di Taiwan si è espressa in sostanza per una de-escalation dello scontro, premiando complessivamente i due partiti i cui programmi andavano appunto in questa direzione (KMT e TPP).

Anche altri temi hanno in ogni caso occupato la campagna elettorale. Stagnazione dell’economia, inflazione e disoccupazione giovanile sono state le preoccupazioni principali degli elettori. Questioni che si intrecciano peraltro con quella dei rapporti con la Cina, da cui dipende una parte consistente del “miracolo” economico taiwanese. Il calo del DPP è stato inoltre in qualche modo influenzato dalla vera e propria minaccia degli Stati Uniti nei mesi scorsi di distruggere la cruciale industria dei semiconduttori di Taiwan qualora l’isola fosse seriamente minacciata da un’invasione cinese.

La campagna elettorale culminata nel voto di sabato è stata segnata dalle denunce da parte del governo di Washington e della stampa ufficiale in Occidente delle ingerenze cinesi per impedire l’elezione del candidato del DPP. Tradizionalmente, il KMT predilige rapporti distesi con Pechino e aderisce al principio di “una sola Cina”, divergendo dalla madrepatria solo sull’identità del governo legittimo. In realtà, oltre alle provocazioni degli ultimi anni, sono stati gli Stati Uniti a interferire nel voto a Taiwan anche poco prima dell’apertura delle urne. L’amministrazione Biden aveva consegnato ad esempio una “esclusiva” al Financial Times nella quale venivano rivelati i piani post-elettorali per inviare a Taipei una delegazione americana di alto livello a incontrare il nuovo presidente e il prossimo governo dell’isola.

Le “visite” di inviati di Washington in veste più o meno ufficiale sono uno degli strumenti utilizzati dagli USA per provocare la reazione cinese e alimentare le tensioni con la Cina. Il blitz a Taipei dell’allora speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, nell’agosto del 2022 aveva in particolare infiammato la situazione nello stretto di Taiwan. Pechino aveva minacciato un intervento militare in risposta all’iniziativa, per poi limitarsi a una massiccia esercitazione nelle acque e nei cieli limitrofi all’isola.

La traiettoria delle relazioni con la Cina continuerà dunque sulla linea degli ultimi anni in seguito alla vittoria di Lai. Quest’ultimo, tuttavia, aveva relativamente abbassato i toni alla vigilia del voto, mentre dopo la chiusura delle urne ha invocato una normalizzazioni dei rapporti, sia pure invitando Pechino ad “accettare la realtà” di Taiwan, vale a dire la contrarietà dell’isola alla riunificazione con la madrepatria.

La permanenza del DPP al potere a Taipei permette senza dubbio a Washington di proseguire con la propria strategia anti-cinese, che smonta progressivamente il principio di “una sola Cina” a cui gli stessi Stati Uniti continuano ad aderire in maniera formale. Allo stesso tempo, l’amministrazione Biden intende muoversi con relativa cautela per non affrettare i tempi di un possibile conflitto e causare di conseguenza contraccolpi economici difficili da valutare. In questa prospettiva, la Casa Bianca ha emesso un comunicato ufficiale dopo la proclamazione della vittoria di Lai per ribadire che gli Stati Uniti non appoggiano l’indipendenza di Taiwan e restano fedeli alla decisione del 1979 con la quale il riconoscimento della legittimità del governo cinese venne trasferito da Taipei a Pechino.

La dichiarazione di Biden non sorprende più di tanto, visto che risulta perfettamente in linea con la strategia degli ultimi anni, basata, da un lato, sulla conferma pubblica del rispetto dello status quo e, dall’altro, sul continuo ricorso nei fatti a iniziative ultra-provocatorie che minacciano lo scardinamento degli equilibri in grado di garantire decenni di pace nella regione. L’atteggiamento americano appare del tutto deliberato, ben sapendo che la questione della sovranità su Taiwan è niente meno che vitale per Pechino, da dove chiarissimi avvertimenti sull’impossibilità di accettare una dichiarazione formale di indipendenza sono arrivati anche alla vigilia del voto.

Nella serata di sabato, il governo cinese è a sua volta intervenuto per commentare i risultati. Facendo riferimento all’assenza di una maggioranza assoluta sia per il presidente-eletto Lai sia per il suo partito, Pechino ha spiegato che il DPP non può rappresentare l’opinione corrente della popolazione dell’isola. Inoltre, i risultati del voto non cambieranno il quadro e lo sviluppo dei rapporti tra le due sponde sullo stretto di Taiwan. L’esito finale resta per la Cina la riunificazione, mentre qualsiasi spinta all’indipendenza verrà contrastata anche con la forza militare.

La Cina, continua il comunicato, si impegnerà comunque a promuovere la cooperazione con tutti i settori della società di Taiwan e lo sviluppo delle relazioni bilaterali, così come la causa della riunificazione nazionale. Il pericolo crescente di un conflitto che sarebbe a dir poco rovinoso per Taiwan favorisce quindi l’attenuarsi degli impulsi ultra-nazionalistici e all’indipendenza tra la popolazione dell’isola. La classe dirigente del DPP continua invece a remare in direzione contraria in collaborazione e in conseguenza delle mire strategiche degli Stati Uniti, che restano di gran lunga il principale fattore destabilizzante nello stretto di Taiwan e in tutta l’Asia orientale.

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