La sola notizia della presenza a Mosca dell’ex “host” di Fox News, Tucker Carlson, e l’ipotesi di un’intervista senza filtri a Vladimir Putin avevano fatto scattare nei giorni scorsi la modalità panico tra i politici e i propagandisti della stampa ufficiale in Occidente. Il giornalista ultra-conservatore americano ha abilmente favorito la diffusione di indizi circa i suoi piani, per poi confermare che l’attesa intervista al presidente russo verrà trasmessa sul suo sito e su X (ex Twitter) alla mezzanotte italiana di giovedì. Per gli ambienti ufficiali che inondano il pubblico di propaganda russofoba da almeno due anni, quello di Carlson è un vero e proprio peccato capitale e in molti hanno già chiesto per lui una punizione esemplare. Dare spazio senza pregiudizi alla versione del Cremlino comporta d’altra parte una serie di rischi, primo fra tutti quello del crollo definitivo delle menzogne a senso unico vomitate dai sostenitori del regime ucraino di Zelensky.

 

Raramente la notizia di un’intervista con un leader di un determinato paese, anche se rivale o nemico dell’Occidente, ha suscitato un tale livello di isteria tra politici, giornalisti e commentatori filo-atlantisti. Tutti sembrano essere preoccupati per l’utilizzo da parte di Putin della piattaforma offertagli da Carlson per diffondere la propria propaganda in Europa e negli Stati Uniti. Questo finto senso di protezione per i potenziali fruitori dell’intervista nasconde in realtà un altro serissimo problema per governi e media anti-putiniani. Ovvero la sensazione che l’Occidente stia perdendo il controllo degli spazi di informazione e il potere di modellare l’opinione pubblica attorno alla crisi ucraina.

Nonostante uno sforzo virtualmente senza precedenti per dipingere l’Ucraina come una sorta di paradiso democratico senza colpe e minacciato dalla barbarie dell’invasione russa, sotto la guida di un dittatore pronto a soggiogare l’intera Europa, la verità sugli eventi di questi ventiquattro mesi si sta facendo inevitabilmente strada. La maggior parte delle popolazioni in Occidente si oppone sempre più al continuo finanziamento del buco nero ucraino, così come alla deindustrializzazione forzata dell’Europa, al sabotaggio delle forniture energetiche a basso costo dalla Russia, all’aumento incontrollato delle spese militari e alla subordinazione agli interessi economici e strategici americani.

Non avendo argomenti validi a disposizione, ma solo slogan che raccontano di un conflitto in bianco e nero, a governi e stampa “mainstream” non resta che ricorrere alla censura e alla repressione per evitare che la verità dei fatti si diffonda in rete. Per quanto riguarda Tucker Carlson, è un dato oggettivo che il suo curriculum delinei un’immagine di demagogo e populista, talvolta impegnato ad infiammare la destra americana sulla presunta emergenza migratoria, muovendosi spesso in parallelo con la campagna elettorale di Donald Trump.

È tuttavia altrettanto innegabile che, soprattutto dopo l’addio forzato a Fox News, Carlson è diventato un elemento incontrollabile dal sistema politico e mediatico e che, sulla questione russo-ucraina, ha contribuito a smontare la versione ufficiale dello scontro senza alternative con Mosca. Nel vuoto pressoché totale della sinistra politica e della stampa progressista, entrambe appiattite quasi del tutto su posizioni atlantiste, la destra populista si è infilata ormai da qualche tempo, intercettando consensi e lettori alla ricerca di un’alternativa pacifista e anti-sistema.

Tra i commenti più acuti sulla polemica esplosa attorno alla questione dell’intervista, si può citare quello dell’ex ispettore ONU, Scott Ritter, pubblicato sul suo account Substack. A suo dire, quello creato in questi due anni è “un finto senso di pericolo”, alimentato dalla russofobia, “attorno al quale vengono formulate e implementate politiche che rischiano di condurre verso uno scontro militare” con Mosca. L’antidoto per contrastare questa patologia ed evitare la catastrofe consiste nella “verità basata sui fatti e su una comprensione realistica del mondo in cui viviamo” e che include “una Russia sovrana”.

Il problema, continua Ritter, “è la somministrazione di questo antidoto, poiché i tradizionali propagatori dell’informazione in America”, ma anche in Europa, “cioè i cosiddetti media mainstream, sono da tempo corrotti dalle stesse élites politiche ed economiche che promuovo la russofobia”. Per perpetuare questo clima, le interazioni con i vertici politici della Russia tramite giornalisti o personalità mediatiche popolari e, soprattutto, indipendenti devono essere limitate o escluse del tutto.

È esattamente per questa ragione che gli attacchi contro Tucker Carlson sono partiti ancora prima che l’intervista venisse trasmessa o, addirittura, prima che l’ex “host” di Fox News confermasse di avere intervistato il presidente russo. Molti giornalisti o presunti tali di testate e network americani e britannici hanno risposto alla provocazione di Carlson sull’assenza di interesse della stampa occidentale per l’opinione di Putin ricordando che essi stessi in questi due anni si sono visti respingere varie richieste di intervistare il presidente.

Quello che intendono realmente rimproverare a Carlson è di avere osato uscire dal gregge e di avere messo in discussione la verità preconfezionata e imposta da Washington. Spiega ancora Scott Ritter: “Sembra che il diritto di intervistare Vladimir Putin sia appannaggio di una ristretta cerchia di prescelti, autonominatisi custodi di tutte le informazioni da offrire al consumo del pubblico”.

Nello specifico, come accennato in precedenza, l’accusa principale rivolta a Carlson è di permettere a Putin di spargere la sua propaganda in Occidente attraverso uno strumento mediatico popolarissimo. I finti giornalisti di CNN, BBC, Financial Times e altri ne sanno d’altronde qualcosa dell’argomento propaganda. Basti pensare alle interviste traboccanti di servilismo col presidente ucraino Zelensky propinate al pubblico occidentale in questi due anni.

Il livello della minaccia dell’intervista a Putin per i governi e la stampa ufficiale in Occidente è misurabile anche dal rapido diffondersi delle richieste di adottare misure punitive contro Tucker Carlson. Il magazine americano Newsweek ha riportato per primo gli avvertimenti di alcuni politici europei, come l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, che ha spiegato come il giornalista potrebbe essere bersaglio di sanzioni come chiunque fornisca un qualche supporto al presidente russo. Per l’ex deputato europeo spagnolo Luis Garicano, Carlson non può più essere considerato un giornalista, ma, in seguito alla trasferta russa, sarebbe diventato un “propagandista”, soggetto potenzialmente, secondo un altro eurodeputato, a sanzioni come il divieto di ingresso nei paesi UE. L’avvocato e commentatore Ian Corzine è arrivato invece nientemeno che a ipotizzare un’incriminazione secondo l’Espionage Act, in quanto Carlson potrebbe essere sospettato di essere una spia di una potenza straniera.

Nella furia russofoba di questi e altri individui, passa totalmente inosservato il particolare della criminalizzazione in atto dell’attività giornalistica in Occidente. Mentre si denuncia la repressione nella Russia di Putin, il più coraggioso giornalista vivente – Julian Assange– continua a languire in una cella di massima sicurezza in Gran Bretagna per avere semplicemente fatto il suo lavoro e rivelato i crimini dell’imperialismo americano e dei suoi servi. Il fondatore di WikiLeaks è vicinissimo all’estradizione negli USA, dove rischia, oltre a condizioni di detenzione assimilabili alla tortura per stessa ammissione dell’ONU, una condanna a 175 anni di carcere.

Citando ancora l’articolo di Scott Ritter, questo atteggiamento censoreo e ultra-autoritario deriva dal fatto che “i fautori [occidentali] della russofobia operano in un ambiente svincolato dalla realtà, nel quale l’odio ideologico ha sostituito il giudizio basato sulle informazioni e dove la conoscenza della Russia ha lasciato spazio alla fantasia”. Putin e la Russia, nelle loro menti, “sono stati ridotti a una realtà semplificata in bianco e nero”, che esiste solo “per essere derisa e criticata”. Perciò, “qualsiasi iniziativa che dia al bersaglio di questa campagna degradante l’opportunità di difendersi, presentando fatti che mettano in discussione la versione ufficiale, deve essere impedita ad ogni costo”.

Che a scalfire il muro della propaganda occidentale sia un giornalista con simpatie trumpiane e reazionarie è un altro atto d’accusa contro l’Occidente e ciò che resta della sinistra. Quello che si può sperare, anche se molto improbabile, è che la discussione con Putin raggiunga comunque il maggior numero possibile di utenti e contribuisca almeno in minima parte a invertire la rotta e fermare la corsa verso lo scontro diretto con la Russia a cui sta conducendo, con la complicità dei media ufficiali, la vergognosa classe politica occidentale.

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