Il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco segna, assieme ad alcuni altri drammatici eventi degli ultimi giorni, il superamento di un ulteriore limite da parte di Israele in una guerra di aggressione che ha ormai assunto i contorni di un genocidio in piena regola contro i palestinesi e di una campagna terroristica nei confronti dei paesi vicini, nonché delle organizzazioni internazionali e dei singoli operatori umanitari sul campo nella striscia di Gaza. Le provocazioni e il livello di criminalità di Netanyahu e del suo governo sembrano aumentare in parallelo alla presa d’atto del fallimento strategico delle operazioni militari contro la resistenza palestinese, probabilmente nel tentativo di allargare il conflitto al Libano e alla Repubblica Islamica, creando cioè uno scenario nel quale gli Stati Uniti sarebbero di fatto costretti a intervenire a fianco dell’alleato.

 

La rappresentanza diplomatica di un determinato paese è considerata a tutti gli effetti territorio di questo stesso paese e il raid di lunedì rappresenta perciò un attacco diretto contro l’Iran. Il governo di Teheran ha di conseguenza tutto il diritto di rispondere con uguale forza allo stato ebraico. Una ritorsione in grado di scatenare una guerra aperta è però improbabile. Dal 7 ottobre scorso, Israele ha portato a termine parecchie provocazione contro l’Iran e i suoi alleati, ma la scelta della sua leadership è sempre stata quella di evitare iniziative che potrebbero infiammare l’intero Medio Oriente, mentre ha mostrato di prediligere un approccio graduale per aumentare progressivamente le pressioni e rendere sempre più onerosa per Tel Aviv la guerra in corso.

L’atteggiamento israeliano è ancora più sconcertante se si considera che l’escalation decisa da Netanyahu sta avvenendo in presenza di una Repubblica Islamica impegnata di fatto a tenere basso il livello dello scontro, nonostante le stragi quotidiane a Gaza e le numerose vittime iraniane di questi mesi. Un esempio degli sforzi di Teheran in questo senso era stato il tentativo di limitare le operazioni delle milizie sciite irachene contro le basi militari american in Siria e in Iraq, così da abbassare le tensioni regionali. Israele non ha però fatto passi indietro, ma ha anzi moltiplicato le operazioni contro tutto l’arco della resistenza, quasi ad approfittare della moderazione iraniana per alimentare il rischio di guerra senza doverne pagare il conto.

Le vittime dell’incursione di lunedì nei cieli siriani, come di consueto non commentata da Israele, includono il generale Mohammad Reza Zahedi, un comandante delle forze “Quds”, ovvero l’unità dei Guardiani della Rivoluzione che opera al di fuori dei confini iraniani, e il suo vice, generale Mohammad Hadi Haji Rahimi. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, di stanza in Gran Bretagna e vicino all’opposizione siriana, il bilancio dell’attacco di Israele sarebbe di undici morti, tra cui figurerebbero anche diplomatici e consiglieri militari iraniani. A condurre l’operazione sono stati caccia F-35 israeliani, i quali avrebbero lanciato complessivamente sei missili che hanno distrutto la sezione consolare dell’ambasciata di Teheran a Damasco.

L’ipotesi di una risposta non immediata e l’intenzione iraniana di continuare a evitare uno scontro diretto con Israele sono state in qualche modo confermate dall’ambasciatore in Siria, Hossein Akbari, sopravvissuto al bombardamento sionista. Akbari ha avvertito che la ritorsione sarà “della stessa misura e durezza” dell’attacco, ma avverrà “al momento e nel luogo appropriati”.

Il ruolo di Washington

Uno degli argomenti più caldi di discussione nelle ore seguite al bombardamento è l’eventuale coinvolgimento degli Stati Uniti o, quanto meno, se l’amministrazione Biden fosse a conoscenza o avesse dato il via libera all’operazione. Una delle testate che opera da portavoce non ufficiale dell’apparato della sicurezza e dell’intelligence USA, il sito web Axios, ha scritto che il governo di Washington ha assicurato alla Repubblica Islamica, tramite una comunicazione “diretta”, di non avere preso parte al blitz e che la Casa Bianca non era a conoscenza del piano di Israele. Tel Aviv avrebbe dato notizia dell’operazione all’alleato americano solo pochi minuti prima che venisse portata a termine, senza chiedere il permesso o l’approvazione.

Axios ripete inoltre la versione ufficiale standard dei media “mainstream” occidentali, cioè che l’amministrazione Biden è profondamente allarmata dal rischio escalation in Medio Oriente a causa degli attacchi israeliani contro obiettivi della resistenza. Il fattore elettorale può rappresentare un freno per la Casa Bianca, dove le preoccupazioni per la crescente impopolarità tra gli elettori democratici del genocidio palestinese appaiono sempre più evidenti. Concretamente, il governo degli Stati Uniti non ha tuttavia mosso un dito per fermare Netanyahu. L’unica iniziativa degna di nota è l’astensione al Consiglio di Sicurezza la settimana scorsa sul voto a una risoluzione che chiedeva l’immediato cessate il fuoco a Gaza. La decisione di non mettere il veto su una risoluzione contro Israele per la prima volta dal 7 ottobre era stata duramente criticata da Tel Aviv, ma la vicenda è apparsa poco più di una farsa, visto che Washington, ribaltando le norme consolidate del diritto internazionale, ha comunque fatto in modo che il provvedimento non avesse nessuna conseguenza concreta.

L’attacco a Damasco di lunedì è in ogni caso un atto di gravità tale da rendere improbabile l’ipotesi che l’amministrazione Biden ne fosse all’oscuro. Alcuni recenti sviluppi suggeriscono poi che tra Washington e Tel Aviv sia in corso un qualche coordinamento per gestire e, anzi, favorire l’allargamento del conflitto. Settimana scorsa, ad esempio, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, si era recato in visita a Washington e tra le priorità elencate prima dell’incontro con il numero uno del Pentagono, Lloyd Austin, c’era appunto la richiesta di nuovi e più distruttivi armamenti. Il dipartimento di Stato, in un’altra circostanza, ha spiegato che i nuovi trasferimenti di armi serviranno a Israele per “difendersi” da avversari “molto bene armati”, come Hezbollah o Iran. Per altri osservatori, invece, le bombe contro gli interessi iraniani sarebbero un avvertimento alla Casa Bianca. Le richieste americane relativamente a una de-escalation devono cessare oppure Israele procederà con altre iniziative provocatorie che scateneranno una guerra totale in Medio Oriente, da cui Biden non potrà sottrarsi.

La discussione sulle intenzioni reali degli USA ha comunque un’importanza relativa, visto che tutti i presunti avvertimenti rivolti da Biden a Netanyahu o l’ostentazione di nervosismo per la campagna militare israeliana non hanno fermato né rallentato le operazioni dello stato ebraico. Tutte le indicazioni fanno intravedere al contrario un’ulteriore escalation, come il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco. Sia questi fatti sia gli attacchi in Libano sembrano puntare a provocare una risposta su vasta scala da parte di Hezbollah o della Repubblica Islamica. Risposta che verrebbe utilizzata da Stati Uniti e Israele per denunciare l’aggressione dei loro nemici e giustificare il passaggio a un livello di intensità superiore del conflitto.

Crimini seriali

Con la protezione americana, lo stato ebraico continua quindi a violare un principio dopo l’altro del diritto internazionale e a collezionare crimini di guerra. Il quadro in cui si muove Israele ha raggiunto una gravità tale da rendere sempre più complicata la campagna di distorsione dei fatti del governo Netanyahu, dei media e dei governi occidentali. L’assedio dell’ospedale Al-Shifa a Gaza ne è l’esempio più recente e tragico. Le forze sioniste si sono ritirate dal sito della struttura sanitaria più grande della striscia dopo due settimane di autentico terrore.

Le immagini e i racconti provenienti dall’ospedale hanno raccontato di atrocità indicibili. L’edificio che lo ospita e altri ancora nelle immediate vicinanze sono stati quasi completamente distrutti. Numerosi cadaveri sono rimasti tra le rovine, mentre centinaia di corpi sono emersi in una zona dell’ospedale dove erano stati sepolti temporaneamente i pazienti deceduti durante questi mesi di guerra. I militari israeliani hanno scavato il terreno che ospitava il cimitero improvvisato, abbandonando sul posto i corpi in stato di decomposizione.

Funzionari della Mezzaluna Rossa Palestinese hanno raccontato inoltre di esecuzioni sommarie di personale medico dell’ospedale, ma anche di pazienti e altri civili palestinesi che avevano cercato rifugio nella struttura. Il chirurgo e attivista palestinese, Ghassan Abu Sitta, in un post su X (ex Twitter) ha spiegato che l’ospedale Al-Shifa copriva quasi un terzo delle capacità del sistema sanitario di Gaza. Gli israeliani lo hanno fanno saltare e dato alle fiamme per assicurarsi che l’edificio non sia recuperabile, ma debba essere ricostruito da zero. L’obiettivo, conclude il medico palestinese, “era e rimane di rendere la striscia inabitabile”, ovvero il genocidio.

Prendere di mira un ospedale, così come una rappresentanza diplomatica di un determinato paese, è un crimine di guerra perseguibile dal Tribunale Penale Internazionale, mentre Israele è già alla sbarra per genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG). Netanyahu e il suo governo continuano a ignorare completamente le ingiunzioni della Corte e le risoluzioni ONU, sempre grazie in primo luogo alla copertura garantita da Washington. Anche nel caso della strage di Al-Shifa, l’amministrazione Biden ha ricalcato le posizioni israeliane, con il portavoce del dipartimento di Stato che ha vergognosamente sostenuto la versione della presenza di combattenti di Hamas all’interno dell’ospedale.

Il crimine più recente in ordine di tempo è infine quello avvenuto martedì a Gaza con l’uccisione di sette operatori umanitari che lavoravano per la ONG americana World Central Kitchen. Oltre che palestinesi, le vittime erano di nazionalità australiana, polacca, britannica e canadese-americana. I dettagli dell’episodio di sangue, anche se tutt’altro che inconsueti in questa guerra, sono semplicemente sconvolgenti o, per lo meno, lo sarebbero per governi e stampa occidentali se a commettere un crimine simile fosse stato un paese nemico.

Le vittime viaggiavano in una “zona di deconflitto” su due mezzi blindati che portavano ben visibile il logo della loro organizzazione. Non solo, i movimenti degli operatori erano stati coordinati con le forze armate sioniste. Ciononostante, il convoglio è stato colpito mentre lasciava un deposito dove aveva appena scaricato più di 100 tonnellate di cibo giunto via mare e destinato alla popolazione di Gaza. In una situazione normale, questi fatti dovrebbero far scattare una valanga di condanne verso lo stato ebraico e seri provvedimenti, ma è scontato che i governi dei paesi da cui provenivano le vittime passeranno sopra all’uccisione deliberata dei loro cittadini per non compromettere ulteriormente la posizione e l’immagine di Israele.

Armi non-stop

Alle atrocità e alla trasformazione ormai completa dello stato ebraico in un’entità terroristica, il suo principale alleato continua a rispondere nei fatti con ancora maggiore sostegno al genocidio in corso. La stampa USA ha ad esempio rivelato lunedì che la Casa Bianca avrebbe già approvato un nuovo pacchetto di armi ed equipaggiamenti, inclusi 50 caccia F-15 e 30 missili aria-aria a medio raggio AIM-120. La proposta di vendita è già stata inviata all’attenzione del Congresso e attende ora la ratifica definitiva. Il comportamento dell’amministrazione Biden smentisce così tutte le dichiarazioni e le minacce più o meno velate rivolte nelle ultime settimane contro Israele, poiché conferma come da Washington non ci sia alcuna intenzione di usare l’unico strumento concreto che possa convincere Netanyahu a fermare la strage nella striscia, vale a dire il congelamento di fatto della fornitura di armi americane.

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