Il ballottaggio delle elezioni presidenziali in Slovacchia ha registrato un netto ribaltamento dei risultati del primo turno di un paio di settimane fa, con il successo, peraltro non troppo a sorpresa, del candidato appoggiato dal governo in carica, l’ex primo ministro Peter Pellegrini. Il 48enne politico di origini italiane è rimasto fermo sulle posizioni anti-belliche della prima parte della sua campagna elettorale ed è riuscito a capitalizzare, come già aveva fatto nelle elezioni legislative dello scorso ottobre l’attuale premier Robert Fico, la crescente ostilità popolare nei confronti dell’UE e dell’appoggio incondizionato al regime di Zelensky nella guerra in corso contro la Russia.

Da Bruxelles e Washington si sperava e ci si era adoperati attivamente per favorire il successo dell’altro candidato qualificatosi per il ballottaggio, l’ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore slovacco negli USA, Ivan Korčok, esponente dell’opposizione europeista e russofoba. A risultare decisivo, in termini numerici, è stato lo spostamento della maggioranza dei voti ottenuti dai candidati di destra eliminati al primo turno, essi stessi espressione in larga misura delle frustrazioni diffuse per le politiche “mainstream” europee.

 

Pellegrini è il fondatore e leader del partito Voce-Socialdemocrazia (HLAS-SD), nato nel 2020 dopo la sua uscita da quello Direzione-Socialdemocrazia (SMER-SD) di Fico. A capo del governo di Bratislava dal 2018 al 2020, Pellegrini era stato anche presidente del parlamento slovacco o Consiglio Nazionale (2014-2016), carica a cui è stato nuovamente eletto dopo le elezioni del 2023. Il suo partito fa parte della coalizione di governo che sostiene Fico, formata, oltre che dal partito di quest’ultimo, dai nazionalisti del Partito Nazionale Slovacco (SNS).

Nel primo turno, Korčok aveva ottenuto il 42,5%, contro il 37% di Pellegrini. Il voto di sabato ha visto invece l’ex premier prevalere con un margine piuttosto agevole: 53,1% a 46,9%. Il rovesciamento del risultato a favore di Pellegrini è di rilievo anche in considerazione della campagna politica condotta contro la sua candidatura e il governo di Robert Fico in queste settimane. Il primo ministro e il neo-presidente erano stati dipinti in sostanza come burattini di Putin, intenti a dividere l’Unione Europea e a indebolire l’appoggio all’Ucraina nel conflitto in corso.

In parallelo alle presidenziali si era inoltre intensificato lo scontro sulla riforma della giustizia proposta dal governo di centro-sinistra. L’abolizione della procura speciale incaricata di indagare sui casi più rilevanti di corruzione, che aveva scatenato varie manifestazioni di protesta nel paese, e il resto del pacchetto legislativo erano stati oggetto di pesanti critiche anche sui media occidentali. Fin dal ritorno al potere lo scorso autunno, Fico è stato in definitiva accostato al premier ungherese Orban per la deriva anti-democratica che starebbe favorendo in Slovacchia.

Di conseguenza, l’Europa ha minacciato provvedimenti e “procedure d’infrazione” anche contro Bratislava, motivate però più dalle posizioni caute del nuovo governo nei confronti della guerra in Ucraina che da un reale scrupolo democratico. Come promesso in campagna elettorale, Fico aveva d’altra parte subito deciso lo stop all’invio di armi a Kiev e annunciato l’impegno a promuovere una soluzione diplomatica della crisi. Queste proposte sono state precisamente il motivo numero uno del successo del suo partito, replicato da Pellegrini grazie agli stessi argomenti nelle presidenziali appena concluse.

Anche se Pellegrini è stato attaccato dall’opposizione europeista, dalla stampa e dai leader occidentali come filo-russo, questa definizione ha un qualche senso solo in relazione alla propaganda a senso unico che domina il “dibattito” politico europeo. Pellegrini, come Fico e Orban, per quanto riguarda la guerra in Ucraina predilige in realtà un approccio realistico e pragmatico che tende a salvaguardare gli interessi nazionali, in primo luogo in ambito energetico. Da queste premesse, deriva un’attitudine al dialogo con Mosca, da collegare a sua volta alla presa d’atto dell’impossibilità di una vittoria militare di Kiev e del conseguente rischio di trascinare l’Europa in una guerra rovinosa contro la Russia.

Il fattore economico ha ugualmente influito sulla freddezza degli elettori slovacchi per le politiche sanzionatorie anti-russe dell’Europa e degli Stati Uniti. Infatti, assieme alla guerra, a tenere banco durante la campagna per le presidenziali è stata proprio l’economia, con gli sfidanti al ballottaggio che si sono confrontati sulle misure proposte o già implementate dal governo socialdemocratico, denunciate spesso dall’opposizione come mosse propagandistiche per aiutare la candidatura di Pellegrini.

Al di là della disputa politica su questo tema, è chiaro che il voto del fine settimana, come quello delle legislative dell’anno scorso, ha espresso anche il risentimento degli elettori per le politiche economiche del precedente governo europeista. In linea generale, i risultati confermano una tendenza dei votanti a esprimere un crescente sentimento di frustrazione verso la classe dirigente europea, che si concretizza sempre più nella sfiducia verso la crociata ucraina, di fatto la questione che negli ultimi due anni pervade – con risultati disastrosi – praticamente tutte le politiche di Bruxelles.

La vittoria di Peter Pellegrini priva così l’Europa di un punto di riferimento ai vertici dello stato slovacco, in grado di bilanciare in qualche modo un governo ritenuto ostile, come quello guidato da Fico. Per questa ragione, c’è da aspettarsi un aumento delle pressioni su Bratislava nei prossimi mesi. L’esito del voto indebolisce anche l’equazione tra anti-europeismo o, per meglio dire, tra la critica all’ultra-liberismo guerrafondaio europeo e la destra nazionalista o l’estrema destra. La galassia socialdemocratica della Slovacchia dimostra cioè la sopravvivenza in Europa di una qualche opposizione almeno in teoria incanalabile in una direzione progressista. Un fenomeno ancora raro quest’ultimo in un panorama politico ufficiale ultra-degradato, ma che lascia intravedere qualche timido segnale, di cui quello potenzialmente più promettente potrebbe essere la nascita di un nuovo movimento in Germania attorno alla deputata Sara Wagenknecht.

Nonostante un’opprimente campagna mediatica che sembra assumere sempre più i toni della censura, è probabile che il voto nelle prossime europee di giugno manderà un ulteriore e più forte messaggio ai leader europei, i quali, dietro le spalle delle rispettive popolazioni e per soddisfare gli interessi strategici di Washington, sembrano intenti a lanciare il vecchio continente verso una guerra dalle conseguenze difficilmente calcolabili. A parte qualche eccezione, saranno ancora una volta i partiti della destra sovranista e populista a beneficiare del voto di protesta contro le politiche suicide dettate da Bruxelles.

I segnali di rottura del “consenso” europeo iniziano in ogni caso a emergere sulla spinta sia dei contraccolpi economici e sociali dello spreco di risorse nel vortice ucraino e delle (auto-)sanzioni nominalmente dirette contro la Russia sia del possibile imminente tracollo delle forze armate di Kiev davanti all’avanzata di Mosca. Le vicende elettorali di questi mesi nella piccola e apparentemente insignificante Slovacchia potrebbero così indicare un’inversione di tendenza, già da tempo invocata dall’opinione pubblica occidentale ma tuttora respinta fermamente, quanto meno in apparenza, dalla grande maggioranza dei leader europei.

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