di Daniele John Angrisani

Dopo la sanguinosa battaglia che ha consegnato la Striscia di Gaza nelle mani di Hamas, a Gaza City regna una calma irreale. La bandiera verde del movimento integralista palestinese sventola su tutti gli edifici più importanti della città e la quiete è interrotta solo da alcuni episodi di violenza residuale. Tra questi, il saccheggio della villa del defunto leader di Fatah, Yasser Arafat, e di Mohammed Dahlan, il suo braccio destro nella Striscia di Gaza. Di Dahlan in particolare, il nemico numero uno delle forze di Hamas a Gaza, non si sono sapute più notizie per alcuni giorni: qualcuno affermava si trovasse già all'estero per alcune cure, ed invece è notizia fresca che pare si trovi tra i circa 500 combattenti di Fatah che sono scappati dalla Striscia di Gaza, per rifugiarsi a Ramallah, ovvero nel cuore di quella Cisgiordania ancora nelle mani dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il presidente Abu Mazen ha ricevuto il sostegno pressoché unanime della comunità internazionale ed ha ricambiato respingendo qualsiasi offerta di dialogo da parte di Hamas, che, dopo la conquista di Gaza, ha dichiarato la sua disponibilità a voler trovare una soluzione pacifica alla crisi. Anzi, in Cisgiordania Hamas è stata dichiarata organizzazione illegale ed Abu Mazen ha provveduto a sciogliere il governo di unità nazionale, presieduto dall'esponente di Hamas, Ismael Haniyeh, per nominare come nuovo primo ministro, l'ex ministro delle Finanze Salam Fayyad, personalità molto stimata in Occidente. Nei circoli della diplomazia internazionale si fa strada l'ipotesi di levare l'embargo nei confronti della Cisgiordania, come ulteriore segnale di supporto nei confronti di Abu Mazen nella sua lotta contro Hamas. Si tratterebbe senza dubbio di un segnale molto importante che, tra le altre cose, potrebbe servire per alleviare, almeno in parte, la sofferenza del popolo palestinese. Sta di fatto, comunque, che al momento non si intravede alcuna soluzione in vista se non il mantenimento almeno per un po’ dello status quo attuale, ovvero la divisione de facto del territorio dell'ex ANP tra la zona sotto controllo di Fatah (Cisgiordania) e quella sotto controllo di Hamas (Gaza).

Stando a quel che affermano fonti militari israeliane, da parte delle forze armate dello Stato di Israele non vi sarebbe per ora alcun piano di ulteriore intervento militare a Gaza, cosa che è stata anche negata in maniera abbastanza chiara da parte di Meir Sheetrit, ministro per gli Alloggi e le Costruzioni dello stato ebraico. "Non c’è alcuna intenzione di rientrare in quella palude, Gaza, in questa situazione", queste le sue parole.

Alle Nazioni Unite si mormora della possibilità dell'invio di una forza multinazionale di pace nella Striscia di Gaza, ma nessuno sembra particolarmente convinto dell'opportunità di tale scelta. "E' un'idea che dobbiamo esplorare ma bisogna studiare più in dettaglio quali sono i Paesi interessati", ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, ha affermato che la Russia è favorevole a tale decisione solo se verrà presa con l'accordo di tutte le parti in causa.

Hamas, dal canto suo, ha invece fatto conoscere la sua contrarietà a tale ipotesi ed ha affermato anzi che qualsiasi forza multinazionale sarà considerata come una forza occupante a tutti gli effetti. Inoltre per diversi Paesi, che sono già impegnati militarmente in Iraq ed Afghanistan, risulterebbe alquanto difficile inviare truppe in una zona così calda come la Striscia di Gaza, senza rischiare che esse vengano sottoposte ad un vero e proprio tiro al bersaglio da parte dei guerriglieri palestinesi. Il risultato è quindi che, almeno per ora, di tale proposta non si farà nulla. Il tutto in attesa di vedere quale potrebbe essere la reazione israeliana ad un eventuale attacco missilistico proveniente dal territorio della Striscia di Gaza, cosa considerata, purtroppo, molto probabile da tutti gli analisti.

La crisi in atto è comunque il risultato di molti anni di politiche disastrose, sia dal da parte israeliana che da parte palestinese. E' cosa ormai abbastanza nota che Israele abbia finanziato, o quantomeno aiutato indirettamente, Hamas fino dall'inizio degli anni Novanta, in funzione anti Fatah ed anti Arafat. Cosa confermata nel dicembre 2001 dall'ex ambasciatore americano in Israele, Daniel Kurtzer, durante un seminario sulla religione e la politica che si è tenutosi a Gerusalemme, sponsorizzato dall'organizzazione anglo americana a favore della pace, Oz V'Shalom-Netivot Shalom. Anche fonti israeliane hanno più volte ammesso la responsabilità di Israele nella crescita del movimento islamico Hamas, non ultimo nel caso della liberazione dello sceicco Yassin nel 1996, durante il governo Netanyahu, che ha contribuito non poco al definitivo consolidamento e poi all'affermazione di Hamas nella Striscia di Gaza.

Nel corso degli anni, dall'accordo di Oslo del 1993 (mai riconosciuto valido da Hamas) ad oggi, la destra israeliana e il movimento integralista palestinese hanno infatti sempre giocato "di sponda", con l'obiettivo comune di far saltare i negoziati di pace, tra attacchi kamikaze da parte palestinese e relative repressioni violente da parte israeliana nei Territori Occupati. Quando poi, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, i negoziati di pace si sono arenati definitivamente e Sharon è potuto salire al governo, a seguito della famigerata "camminata sulla Spianata delle Moschee" che ha dato inizio alla seconda intifada ed alla fine del governo di Arafat, Hamas ha avuto l’occasione che attendeva da tempo per dimostrare che aveva ragione a dubitare degli accordi di Oslo, ed iniziare così la sua più forte e insistente campagna di reclutamento da quando era nata.

Mentre Israele giustificava il suo intervento militare contro il governo di Arafat con la necessità di far salire al potere una nuova dirigenza palestinese più malleabile e propensa alla pace, a 4 anni di distanza dall'inizio della seconda intifada, nei territori dell'Autorità Nazionale Palestinese distrutti dai bombardamenti israeliani e senza la presenza di un vero governo, visto che Yasser Arafat era tenuto de facto prigioniero nella sua sede di Ramallah circondata dagli israeliani, si sono tenute le elezioni municipali, che hanno visto l'ascesa di Hamas anche come movimento politico, in particolare nel territorio della Striscia di Gaza.

L'anno successivo, dopo la morte di Arafat e l'ascesa al potere del meno carismatico Abu Mazen, alle elezioni politiche Hamas ha ottenuto la maggioranza dei voti popolari ed ha quindi avuto la possibilità di governare il Paese con la nomina a primo ministro di Ismael Haniyeh, il leader politico di Hamas. La reazione della comunità internazionale e di Israele a questa vittoria democratica di Hamas alle elezioni, è stata pesantissima: embargo totale nei confronti dei territori palestinesi - già in preda ad una crisi economica pesantissima - e ripetute dichiarazioni di rifiuto al dialogo con Hamas per la ripresa del processo di pace.

Il resto è storia dei giorni nostri. Con il passare del tempo tra Hamas e Fatah la situazione è divenuta sempre più delicata e da questo sono derivati i primi scontri settari tra le due fazioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Dopo diversi tentativi, infruttuosi, di raggiungere un accordo di coalizione tra Hamas e Fatah per un governo di unità nazionale che permettesse, quantomeno, l’allentamento dell’embargo internazionale e dopo le minacce del presidente Abu Mazen di sciogliere il governo di Hamas, nel febbraio di quest’anno, alla Mecca, si era finalmente trovato un accordo tra le due fazioni palestinesi. Questo prevedeva, tra le altre cose, il rispetto di Hamas degli accordi finora raggiunti con lo Stato di Israele, compreso dunque, anche se non esplicitamente affermato, l'accordo di Oslo del 1993.

Inoltre, era stata delegata l'OLP, organizzazione nella quale Fatah è in maggioranza, come unico rappresentante del popolo palestinese per eventuali negoziati di pace con Israele. Ma questo non era bastato per abbassare la tensione: Israele ha continuato a rifiutare qualsiasi trattativa con il nuovo governo a meno che non avesse rispettato esplicitamente le condizioni poste dal Quartetto (Stati Uniti, Onu, Russia, Ue) che prevedevano il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla violenza come forma di lotta.

Nulla di questo è avvenuto ed anzi in breve tempo sono ripresi, in maniera sempre più violenti, gli scontri tra Hamas e Fatah. La tensione è aumentata fino a raggiungere l'apice con il vero e proprio colpo di Stato dell'altro giorno con la conquista militare di Gaza da parte di Hamas e il susseguente scioglimento del governo di unità nazionale da parte di Abu Mazen, che però ora controlla solo la Cisgiordania. Molti osservatori, sia all'interno che all'esterno di Israele, considerano ciò che è avvenuto in questi ultimi giorni, come la controprova che non esista nessuno tra i leader palestinesi, con cui si possa realmente intavolare una trattativa di pace.

Il tutto mentre anche Israele vive una delle sue peggiori crisi politiche con il movimento Kadima del premier Olmert, al minimo storico di popolarità dopo la sconfitta in Libano e con la prospettiva, suggerita dai sondaggi di opinione, che il prossimo premier possa tornare ad essere quel Benjamin Netanyahu, esponente dell'ala più intransigente del Likud e della destra israeliana contraria agli accordi con i palestinesi.

Ciononostante, la storia avrebbe dovuto già insegnare che ogni qualvolta Israele ha rifiutato di sedersi al tavolo delle trattative, Hamas ha aumentato sempre di più il proprio potere nella società e nel governo palestinese. Per cui è vitale ora che la comunità internazionale faccia sentire ancora di più ora il proprio peso per ottenere, quantomeno, la ripresa dei negoziati di pace, se non l’ottenimento di un accordo di pace vero e proprio. Sarebbe il miglior modo per dimostrare l'appoggio internazionale nei confronti del presidente Abu Mazen ed allo stesso tempo sarebbe forse l'unica possibilità per Olmert di presentarsi alle prossime elezioni evitando una sconfitta che tutti prevedono bruciante e allo stesso tempo disastrosa per le speranze future di un qualsiasi accordo di pace. Purtroppo però la ragione non sempre ha successo in politica.

La storia recente delle tantissime, troppe occasioni perdute, anche in situazioni molto più promettenti di quella attuale, lascia ben poco margine di ottimismo. Sempre che non sia già troppo tardi ormai per evitare altri, ulteriori, massacri di gente innocente in quella terra, il Medio Oriente, che da cinquanta anni a questa parte non pare conoscere altro che sangue. Quasi sempre, in maggioranza innocente.

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