di Giuseppe Zaccagni

E’ ancora lunga la strada che dovrebbe portare ad una soluzione del problema del Kosovo. In questo prolungato ristagno della crisi, c’è una nuova tappa prevista per fine mese. Questa volta si esce dai confini europei per sbarcare a New York, dove le delegazioni della Serbia e dell’Albania si troveranno a confronto con la troika di quei mediatori che rappresentano Usa, Russia e Unione europea. Prima di questo vertice ci sarà una riunione dei ministri degli Esteri di Usa, Russia, Inghilterra, Italia, Germania e Francia, che fanno parte del “Gruppo di Contatto”. Ma tra questi paesi le differenze, a proposito del rapporto con Belgrado, sono notevoli. C’è il capo della diplomazia russa, Serghiej Lavrov, che ha già messo in guardia gli interlocutori americani sul fatto che per Mosca esiste una questione sulla quale va tirata una "linea rossa", da non oltrepassare. Il riferimento è ben preciso: è lo status del Kosovo, alla cui indipendenza dall'alleata Serbia la Russia si oppone strenuamente. Decisa - e di segno nettamente contrario - la posizione dell’Albania. Paese che rivendica il territorio kosovaro presentandolo come area di interesse nazionale in quanto abitata da una maggioranza albanese. E così il portavoce di Tirana, Skender Hyseni, parla a nome del Kosovo e dichiara: ''Pristina è sempre pronta a partecipare a tutti gli incontri che saranno proposti dalla troika perchè il nostro obiettivo è chiaro, è l'indipendenza della regione”. Da Roma D’Alema fa notare che la tappa di New York è ''l'ultima possibilità'' di negoziato e rappresenta, quindi, ''una fase delicatissima, che va affrontata da parte di tutti con senso di responsabilità e flessibilità''. Ed è un invito alla calma che sembra essere stato recepito anche da Washington che, pur scalpitando, invita gli ''amici'' kosovari alla ''pazienza'' chiedendo, attraverso il Segretario di Stato Condoleezza Rice, ''di evitare dichiarazioni unilaterali di indipendenza''. Preoccupazioni e proteste per le soluzioni in Kosovo arrivano anche dalla vicina Macedonia, dove si sostiene che l’eventuale divisione rappresenterebbe un serio pericolo perché distruggerebbe secoli di storia balcanica.

La situazione è quindi ancora in movimento e nel tunnel delle trattative non si vede la luce. Ma a livello di alcune diplomazie europee vengono avanzate ipotesi relative ad una possibile soluzione di divisione del territorio conteso: un Kosovo serbo sotto la giurisdizione di Belgrado e un Kosovo albanese indipendente. Una conclusione del genere, comunque, crea già oggi notevoli inquietudini che potrebbero sfociare in nuovi, veri e propri conflitti. Intanto perchè è già in corso una campagna elettorale che investirà il Kosovo a novembre. Si voterà, infatti, per un nuovo Parlamento e per creare un governo che dovrebbe affrontare la questione dello status. Ma la consultazione è già motivo di scontro, perchè la comunità serba si sta dividendo chiedendosi se si dovrà o meno partecipare al voto. Questo perchè una volta noti i risultati le amministrazioni locali rimarranno in carica per due anni, le istituzioni centrali per quattro e il presidente per cinque. In pratica i “giochi” saranno fatti e al Kosovo non resterà che prendere atto delle decisioni prese dalla troika Ue, Stati Uniti e Russia. Ecco quindi che nel panorama politico kosovaro c’è chi preferirebbe posticipare la consultazione. In tal senso si pronuncia l'AAK, i cui rappresentanti occupano ruoli chiave nell'attuale governo tra i quali la poltrona di primo ministro, con Agim Ceku. La propensione al rinvio delle elezioni è dovuta al fatto che l'AAK teme di ottenere meno seggi rispetto alla tornata elettorale precedente.

Anche i piccoli partiti kosovari, a meno che non riescano a creare coalizioni tra loro, sono contrari al voto perché temono di non riuscire a superare la soglia del 5%. Ci sono poi altri problemi di natura “tecnica”. Perché molti partiti (29 per la precisione) non si sono ancora adeguati alle prescrizioni di legge e ai loro doveri nei confronti della Commissione elettorale centrale. Pesano, infine, quelle prese di posizione che si sono registrate negli anni scorsi. Ad esempio nella comunità serba permangono, a otto anni dalla fine della guerra, un forte senso di insicurezza e una limitata o del tutto assente influenza sulle istituzioni del Kosovo. E il boicottaggio di queste ultime, praticamente suggerito da Belgrado, non aiuta il processo di integrazione.

Parla chiaro lo stesso leader della “Lista serba per il Kosovo”, Oliver Ivanovic: “Il boicottaggio delle elezioni nel 2004 è stata un'esperienza negativa. Ora, tre anni dopo, ci siamo autoisolati e non siamo in grado di proteggere gli interessi della comunità serba che rappresentiamo”. E aggiunge: “Ascoltare i consigli di Belgrado ci ha portati dove siamo ora. Sarebbe stato meglio se Belgrado fosse stata più collaborativa. Temo che non raggiungeremo mai i risultati del 2001 quando ottenemmo 22 seggi nel Parlamento del Kosovo. Se questo fosse il caso, almeno dal punto di vista teorico, potremmo anche essere nella posizione di chiedere il posto di primo ministro. O perlomeno qualche ministro”.

Più cauti sono i “Democratici” del’Ds, che devono ancora decidere se arrivare alle urne o no. A quanto sembra attendono da Belgrado un segnale in merito. Ma è anche vero che in Kosovo ci sono molti altri partiti che rappresentano la comunità serba locale e che stanno diventando politicamente sempre più attivi. Tra questi si evidenziano “Nuova democrazia” e il “Partito liberale indipendente”, che hanno già annunciato di partecipare alle elezioni. Ma voto o no, resta aperta la questione nodale che è quella della eventuale spartizione del Paese. E mentre questa soluzione agita il Kosovo arriva da Tirana il “parere” di Berisha il quale rifiuta l'ipotesi di una spartizione del Kosovo, che definisce come uno scenario di guerra. Una spiegazione più concreta di questa posizione viene dal ministro degli Esteri albanese Lulezim Basha, per il quale ”la spartizione del Kosovo è uno scenario pericoloso e bellico dell'epoca di Milosevic, che punta a Stati etnicamente puri''.

Basha respinge categoricamente l'idea della cessione alla Serbia della parte settentrionale del Kosovo, in cambio dell'indipendenza di questa sua provincia a maggioranza albanese. E sempre l’esponente di Tirana spara a zero contro i nuovi colloqui tra Pristina e Belgrado (con la mediazione della troika) ritenendoli ''una mossa tattica per rispondere al blocco unilaterale alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza imposto dalla Russia”. Mosca viene quindi chiamata a rispondere per il fatto che la sua posizione consiste sempre nell’appoggiare il “fratello slavo” (Belgrado) per non scoprirsi il fianco sulla questione della Cecenia. Perchè in pratica la tesi del Cremlino è questa: il Kosovo è parte integrante della Serbia, come la Cecenia è parte integrante della Russia.

Ma i russi sanno bene che non si possono spacciare i desideri per realtà. Perchè gli albanesi kosovari annunciano per il 28 novembre la proclamazione dell’indipendenza. Una soluzione che - a parere del Cremlino - scatenerebbe reazioni a catena. Ad esempio in Abchasia, la regione che da tempo chiede l’indipendenza dalla Georgia, per non parlare della Cecenia.

A Mosca avanzano alcune tesi geopolitiche e fanno notare che dopo alcuni mesi dall’arrivo delle truppe della Nato in Kosovo si sviluppò il conflitto in Caucaso e che, nell’agosto del 1999, i guerriglieri ceceni invasero il Daghestan. Gli osservatori russi, in proposito, sostengono che il Kosovo è l’unico caso del genere e che non è affatto un modello da imitare nella soluzione di altri conflitti. Ma è chiaro che gli Usa e gli strateghi della Nato hanno sempre come obiettivo quello di trasformare le nazioni dove sono presenti le loro truppe in basi operative “a direzione americana”. Ne consegue che la Russia non accetterà mai di gettare la spugna e di avere una Cecenia controllata da forze multinazionali. Meno che mai americane.

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