di Sara Nicoli

Naturalmente alla Casa Bianca si sono subito rallegrati con Al Gore per il Nobel per la Pace ottenuto ex aequo con l'Ipcc (il Comitato Intergovernativo per i Mutamenti Climatici dell'Onu) che ha stilato il recente rapporto sui poco rassicuranti cambiamenti climatici del pianeta. Ma quello di Bush è sembrato un omaggio dovuto più che voluto. Non c'è dubbio, infatti, sul fatto che con la sua campagna contro il riscaldamento progressivo del pianeta, Gore abbia principalmente messo in evidenza quanto devastante sia stata la politica ambientale del suo ex avversario politico e quanto quest'ultimo sia da annoverare tra i principali colpevoli del disastro ormai sotto gli occhi di tutti. Non ha fatto sconti Al Gore nel suo documentario vincitore dell'Oscar “Una scomoda verità”, campione d'incassi anche negli States e dove, in termini semplici, tali da essere compresi persino dai più riottosi negazionisti, parla di un prossimo innalzamento di circa sei metri degli oceani che sommergerebbe aree popolate da 100milioni di persone (in Europa gli interi Paesi Bassi). E ancora dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia che replicherebbe il fenomeno di interruzione della corrente del Golfo verificatasi in occasione dell'ultima glaciazione che colpì l'Europa qualche secolo fa. Ma è il messaggio finale del film che costituisce la vera “vendetta” di Gore contro Bush: i rimedi per fermare il riscaldamento globale sono arcinoti, manca solo la volontà politica per farlo. E i primi a doversi muovere dovrebbero essere proprio i massimi inquinatori, come la Cina, l'India e, prima ancora, la Casa Bianca. Al Gore ne ha fatto la battaglia della sua vita da quando, studente ad Harvard il professor Revelle gli mostrò i primi dati sull'aumento di Co2 nell'atmosfera. Poi, però, il mancato presidente degli Stati Uniti è andato oltre, mostrando come e perchè questa verità non abbia già mobilitato le coscienze degli abitanti del pianeta e dei loro governanti. Come era già accaduto quando si scoprì con certezza che il fumo era causa di tumore ai polmoni e le lobby del tabacco finanziarono campagne di disinformazione, lo stesso stanno facendo oggi le grandi compagnie petrolifere, le case automobilistiche. E perciò, se il monitoraggio su oltre seimila riviste scientifiche trova il 100% degli scienziati concordi su cause e rimedi del riscaldamento globale, un analogo monitoraggio sui media rivela che per il 53% si tratterebbe solo “di fenomeni occasionali”.

“Questa verità - secondo quanto continua a ripetere Gore - è scomoda ma porta con sé l'imperativo morale del cambiamento. Un cambiamento che deve partire dal singolo individuo. Solo gonfiare al punto giusto le gomme dell'auto può ridurre le emissioni, così come utilizzare lampadine a basso consumo, utilizzare l'auto solo quando necessario, piantare un albero, acquistare veicoli ibridi, utilizzare l'aria condizionata solo quando serve davvero, spegnere sempre gli apparecchi elettronici e altri mille piccoli accorgimenti”. Messaggi semplici, di chiara fruizione collettiva e, in qualche modo, anche aggreganti dal punto di vista della comunità sociale a cui si appartiene, ma infinitamente irritanti e scomodi per chi specula, come le compagnie petrolifere, sull'aumento dei consumi per fare cassa a spese del futuro di tutti.

Il “new deal” ambientalista di Gore potrebbe anche fermarsi qui, con una denuncia forte che viene consacrata a bandiera di un nuovo movimento ambientalista mondiale attraverso un Oscar e un Nobel. Ma potrebbe anche non essere così. Per essere una persona che non ha alcuna ambizione di candidarsi alla Casa Bianca l'anno prossimo, che dice di avere perso mordente e passione per la vita politica, che mille volte ha risposto un “lusingato, ma no grazie” a chiunque gli chiedesse di gettarsi nella mischia, l'ex vice presidente democratico ha di fatto coronato con il Nobel una campagna elettorale a dir poco perfetta.

E non è un caso se questo riconoscimento, per quanto annunciato ma mai davvero dato per scontato, venga vissuto come una nuova scossa nel nervoso paesaggio delle primarie del partito democratico. Perchè il tema ambientale, a dispetto della tradizione e della storia delle campagne elettorali americane, sta diventando un tema centrale di dibattito. E non lo era mai stato.

Non è una sorpresa quindi che la notizia della vittoria del Nobel, sui principali organi di informazione americani, sia stata rilanciata immediatamente in chiave elettorale. Dopo il Nobel, la Casa Bianca? Il punto di domanda è d'obbligo ma non è un segreto che molti democratici covino il desiderio di una rivincita per Gore che, per qualche ora, sette anni fa, è stato “il prossimo presidente degli Stati Uniti". Il vice di Bill Clinton tentò la corsa alla Casa Bianca, finendo sconfitto di misura da George W. Bush nel 2000.

Gli sconfitti nella politica americana non corrono quasi mai due volte, ma in quell'occasione Gore uscì dal voto come vincitore “morale”: ebbe più voti dell'avversario e il verdetto finale di vittoria repubblicana resta ancora oggi macchiato dal sospetto di brogli nel computo dei voti in Florida dalla mafia cubanoamericana non a caso “alleata” di Jeb Bush, fratello dell'attuale presidente. Sull'onda della battaglia ambientalista, perché non ritentare l'impresa?

Anche se Gore, come si diceva, ha finora sempre smentito di avere intenzione di candidarsi, molti analisti politici della capitale americana continuano a considerarlo un potenziale aspirante alla nomination democratica. Nei sondaggi, senza avere fatto neppure un comizio, o raccolto un dollaro in fondi elettorali, va meglio di candidati in corsa da mesi, come l'ex senatore della Carolina del Nord John Edwards o il governatore del Nuovo Messico Bill Richardson. Davanti a Gore nei sondaggi ci sono solo la senatrice di New York Hillary Clinton e dell'Illinois Barack Obama, candidati a diventare rispettivamente il primo presidente donna degli Stati Uniti e il primo presidente afroamericano.

Inutile dire che per Gore, esperto e ormai popolare oltre le linee di partito, la battaglia con lo sfidante repubblicano, chiunque fosse, sarebbe più agevole che per loro. Un assaggio se ne è avuto il 7 luglio scorso, quando Gore è tornato su un palco, o meglio sui molti palchi del ”Live Earth”, un mega concerto imbottito di star per salvare la Terra, in contemporanea da Londra, New York,Washington, Shanghai, Johannesburg, Sydney, Tokyo, Rio de Janeiro e Antartide. L'ex presidente ha fatto il giro del mondo con il suo messaggio, in video, sotto forma di ologramma, di persona, volando da una città all'altra. Chi meglio di lui dopo il disastro Bush?

Eppure Gore insiste nel negare di avere alcuna intenzione di correre per la Casa Bianca e i suoi collaboratori insistono: dice la verità. Ma le pressioni non calano. E' nato di recente anche un movimento “Draftgore” letteralmente gli “arruola Gore”. Mercoledì scorso è stata pubblicata una lettera aperta sul The New York Times supplicandolo di candidarsi alle presidenziali. La petizione, sottoscritta da 136.000 persone, è stata pubblicata due giorni prima dell'assegnazione del Nobel.

Tempo fa anche il Washington Post , quotidiano filodemocratico per eccellenza della capitale, ha dedicato a Gore un editoriale non firmato, sognandolo candidato alla presidenza. “Stiamo cercando di convincerlo che candidarsi rappresenta un vero e proprio dovere morale da parte sua”, ha spiegato Monica Friedlander, fondatrice e presidente di Draftgore, 44 anni, esperta di pubbliche relazioni e fa sapere che il movimento ha raccolto i fondi per la pagina pubblicata sul Times con le offerte di 2000 donatori.

Certo, niente potrà avvenire senza il consenso del diretto interessato, ma di certo una candidatura a sorpresa all'ultimo minuto risulterebbe spiazzante anche per i democratici e per la signora Clinton, che ormai si sente lanciata verso Washington senza grandi problemi. Che però, inattesi, potrebbero arrivare proprio dall'ex fedele amico di un tempo.


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